LA POESIA POPOLAEE
ITALIANA
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POESIA POPOLARE
ITALIANA
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E CONCA EDIZIONE ACCRESCIUTA
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LIVORNO
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RA ^^AELLO GIUSTI, EDITORE
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LIBRAIO-TIPOORAFO
1906
PROPRIETÀ LETTERARIA
Livonio, Tipografia Kaflfaello Giusti
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COSTANTINO NIGRA
AMOROSO E SAGACE ILLUSTRATORE DELLA POPOLARE POESIA
DEGNO DI RAPPRESENTARE A STRANIERE NAZIONI
IL NOME E l' INTELLETTO d' ITALIA
in testimonio di antica amicizia
questi studi offre
l'a.
(1878-1905)
Esaurita ormai la prima edizione di questo mio
libro, adei'ii volentieri alla richiesta del compianto
cav. Raffaello Giusti, di por mano ad una ristampa.
Il lavoro pertanto ritorna agli studiosi riveduto nella
forma, identico nella sostanza ; ma chi paragoni fra loro
la mole dei due volumi, vedrà facilmente quanto questa
siasi accresciuta.
Ho lasciato al libro il titolo primitivo di StudJ,
perchè, conservando l'antico carattere, non discorre ora,
né prima discorse, di tutte le forme della poesia popolare,
ma quasi soltanto della forma lirica, cercandone le ori-
gini, seguendone i ti'amutamenti di regione in regione,
e mettendone in luce le relazioni colla poesia eulta. Li-
mitate per tal modo le indagini a pochi punti contro-
versi, pervenni già ad alcuni resultati, ch'ebbero il suf-
fragio dei competenti, e che ora sono avvalorati da
maggior copia di ragionamenti e di riscontri.
Pei ricordati aumenti molto ho in questi anni spi-
golato da per me tenendo dietro alle pubblicazioni di
Canti popolari italiani e agli studj su di essi; ma di
utili indicazioni mi furono larghi alcuni esperti in tal
YIII
materia, fra i quali l'antico alunno ed ora amico caris-
simo, prof. Giovanni Giannini, die me ne fornì in gran
copia, e al quale attesto qui la mia riconoscenza. Altret-
tanto grato mi professo ad altro alunno ed amico, il
prof. F. C. Pellegrini, che rivide le stampe e mi diede
opportuni ed utili suggerimenti.
Alla prima edizione andava innanzi un Avverti-
mento, nel quale affermavo che i miei StudJ nulla dove-
vano alla Storia della poesia popolare italiana di Er-
molao Rubieri, pubblicata quando già tutto avevo scritto
e consegnato all'editore e buona parte del mio lavoro
era stampata, sicché non esisteva plagio da parte mia là
dove andavamo d'accordo, né coperta confutazione là
dove discordavamo. Quanto alla « scoperta » dei capo-
versi di poesie popolari nel Capitolo di Agnolo Bronzino,
facevo notare che l'avevamo fatta tutti e due contempo-
raneamente, senza saper l'uno dell'altro. Ma ora, come
potrà vedere il lettore, ho creduto potermi valere del-
l'opera del defunto amico, citandola ogni qual volta mi
fosse dato confortarmi dell'autorità sua, o dovessi dis-
sentirne.
Né altro aggiungo, salvo l' augurio che le nuove
cure date a questo lavoro possano cattivargli la bene-
volenza degli studiosi.
A. D'A.
Le molte pubblicazioni di canti popolari delle
diverse provincie d'Italia, cbe sonosi andate facendo
in questi ultimi anni, lianno reso filialmente possi-
bile, per ricchezza di doctnnenti e por saggi di com-
parazione, di studiare la materia secondo i dettami
della critica odierna e trarne qualcba resultato utile
alla scienza e alla storia. Invero, quei canti furono
dapprima raccolti dalle labbra del volgo per vaghezza
di forme nuove, piìi semplici e spo] tanee, da con-
trapporre a quelle artificiose troppo e troppo logore
degli scrittori in sussiego ed in gala: e sebbene ta-
lora si eccedesse nel lodarvi la cara naturalezza dei
sentimenti e del linguaggio, e alle vecchie categorie
della versificazione da improvvidi imitatori se ne
aggiungesse un'altra, che ha prodotto soltanto frutti
bastardi, noi non vorremo certamente negare che,
anche mancandovi spessissimo il logico concatena-
mento dei pensieri e degli affetti, e talvolta pur
anco un senso ben determinato, non dessero, ad ogni
modo, prova di ingenita virtù al poetare, e non for-
nissero esempj di vena schietta e e _;^'osa di poesia
nel nostro popolo. Se non che, come dicevamo, e' ci
D"Axco>'A, La poesia pop. Hai. — 1
2 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
pare che dopo le ammirazioni, eque od esagerate, sia
venuto il momento di trattare di questa particolare
forma di poesia, non rispetto alla estetica ed alla filo-
logia soltanto, ma anche considerandone l'origine e
gli svolgimenti, e le relazioni colla poesia dell'arte.
Del che si è pur dato qualche rilevante accenno
in recenti studj; ma essendoci sembrato che ancora
restasse qualche cosa da dire, da chiarir meglio
qualche punto oscuro o controverso, da correggere
qualche erroneo concetto, ci siamo posti in animo
di trattare l'argomento con qualche larghezza. L'esa-
mineremo, adunque, rispetto all'antichità dei canti,
alla origine e alla forma loro primitiva, e ai mutui
imprestiti, che insieme vennero facendosi l'umile
Musa del popolo e quella dei dotti. Invochiamo da
l)el principio l'attenzione dei lettori per le minute
ricerche, le faticose analisi, le frequenti compara-
zioni che dovremo istituire, parendoci tuttavia che
qualche resultato, ottenuto dallo studio assiduo e
dal molto esercizio di memoria, non sia al tutto in-
degno dell'altrui considerazione. E senz'altro, comin-
ceremo dal ricercare quanta sia l'antichità di questi
canti, ai quali nessuno disconosce indole tradizio-
nale; e se, cioè, essa debba affermarsi soltanto come
probabile, o se soccorrano documenti che la facciano
risalire ben addietro ; e in tal caso, quanti secoli
sarebbero scorsi dacché primamente furono trovati,
trasmettendosi quindi di generazione in generazione,
colle necessarie modificazioni apportate dalla labi-
lità della memoria, nonché dal variare del costume,
del sentimento, del linguaggio.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
IL
Non sono passati molti anni dacché chi avesse
voluto trattare delle prime origini della poesia in
Italia ne attribuiva tutto il merito all'esempio dei
Trovatori provenzali, imitati di poi siffattamente dai
nostri pili antichi rimatori, da far credere che indi
fossero state tolte le immagini, le frasi, le formole
del dire amoroso, e in molti casi anche le parole; co-
sicché il primo impulso al poetare sarebbeci venuto
di fuori. Se non che, meglio studiando la materia
(e parmi che di ciò debba attribuirsi il merito spe-
cialmente a Claudio Fauriel), C) si scorse che tutti
quei rimatori del primo secolo, se avevano molto di
comune fra loro, avevano anche non poco di diverso;
per modo che fosse buono espediente lo spartirli in
tre gruppi, di siciliani, bolognesi e toscani. Ma la
scuola siciliana, se ebbe principal sede ne' dominj
degli Svevi, trovò seguaci in tutta la penisola; e
Dante apertamente ricongiunge la scuola toscana
colla bolognese, chiamando padre suo il Guinicelli,
e a lui facendo risalire l'invenzione del dolce stil
nuovo. Cosicché, le distinzioni topiche parve doves-
sero cedere il luogo ad altre, desunte da altri cri-
terj piìi conformi all'intrinseca natura delle poesie.
Si avrebbero, adunque, una forma modellata sugli
esempj stranieri: provenzali, massimamente per la
poesia lirica, francesi, invece, per la narrativa e la
didattica; una seconda forma, dedotta così per rì-
(•> Dante et les origines de la langiie et de la lillérature italienne,
Paris, Dui-and, 185i, voi. I, p.ag. 308 e segg.
4 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
spetto alla sostanza, come per rispetto a certe fogge
particolari di sintassi, dalle menomate ed ambigue
tradizioni dell'arte antica; e finalmente una terza,
clie avrebbe tratto le sue ispirazioni dal volgo, rag-
gentilendo al possibile e perfezionando gli inconditi
carmi, co' quali esso veniva manifestando i proprj
concetti e sentimenti. La prima, che per l'indole sua
potrebbe dirsi poesia cortigiana e cavalleresca, e
per certi rispetti anche feudale e ghibellina, raggiò
colle agili forme della lirica da Palermo e da Na-
poli per tutta Italia, e come poemetto narrativo
od insegnativo apparve specialmente nel Veneto e
nella Lombardia; la seconda, scolastica e dottri-
nale, è rappresentata in Bologna dal Guinicelli, in
Toscana dai poeti pisani, seguaci forse a Guittone
d'Arezzo, sentenzioso nella sostanza, latineggiante
nel periodo: la terza poi, com'è naturale, vien
fuori dappertutto, ovunque sia popolo; se non che,
dove pili la plebe sorge a dignità di popolo poli-
ticamente sovrano, ivi più adorna ed abbellisce il
suo rozzo linguaggio. Per tal ragione, ad esempio,
vi ha gran divario fra il Contrasto amoroso di Cielo
dal Canio e le Pasiorette di Ciacco dell' Anguiìlara
e di Guido Cavalcanti, sebbene il fondo sia identico
ed ugualmente tratto dal popolo; ma i poeti fioren-
tini, oltreché nati più tardi e appartenenti a più po-
lita cittadinanza, conoscevano anche, per maggiore
cultura d'intelletto, quei componimenti provenzali
e francesi, nei quali già la contesa dell'amatore col-
l'amata aveva vestito forme cavalleresche : il che
non sapremmo veramente ammettere per rispetto
al canto alterno del siculo poeta. (^)
(1) Vedi Slufli sulla ìetterat. iteti, dei primi secoli, Ancona, Morelli, 1S8+,
pag. 241; Cielo dal C'amo. Ho mantenuto su questo argomento l'opinione
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 5
Vi è, adunque, nella prima origine della poesia
volgare un rivoletto, che scaturisce dal fondo stesso
del suolo italico ; e per qupaito esso appaja talvolta
men limpido e copioso degli altri due rivi, che sgor-
gano l'uno dai delubri e dalle scuole dell'antichità,
l'altro dalle reggie e dalle liete ragunauze d'ol-
tralpe, non però potrebbe negarsene l'esistenza: che
del rimanente dovrebbe, a fil di logica, supporsi,
quand'anche non ne avessimo sicure testimonianze. (^)
Né queste certamente abbondano; ma sono tuttavia
tali e tante, che bastano a dimostrare il fatto. Chi
invero consideri le condizioni della cultura italiana
anche nei tempi piìi tenebrosi dell'età media, e segua
il progressivo innalzarsi del volgo abietto a libera
cittadinanza, e degli aspri e rozzi parlari provinciali
a lingue letterarie, non dovrà meravigliarsi che nei
petti italiani sopravvivesse una scintilla almeno di
poesia. La discendenza latina non era ridotta a gregge
ignobilmente inselvatichito ; restavano vivaci le forze
dell' immaginazione e dell' affetto , mantenute ga-
gliarde dallo stesso immutato aspetto della natura
e del cielo ; restavano memorie dell'antica grandezza,
abbarbicate quasi ai ruderi dei templi, dei fóri, dei
palagj, degli anfiteatri: indi nascevano favole intes-
sute con mirabili colori sui fatti e sui personaggi del-
l'antichità latina, e per contrario, altre di tutt'altra
mia circa la distinzione originaria delle due forme, non soltanto dopo quanto
ne disse in contrario il compianto N. Caix (vedi ivi, pag. 386). ma anclie
dopo quello che ne ha scritto A. Jeanrot, La lirica francese in Italia nel
periodo delle origini, traduz. di G. Eossi, Firenze, Sansoni, 1897, p. 3^-67.
(1) Vedi a questo proposito l'ultima Lezione della cii. op. del Faukiel:
Poesìe populaire italiemie ati XIII siede, voi. II, pag. 460 e segg. E ora vedi
più specialmente A. Gaspary, La scuola poetica siciliana, traduz. di S. Fried-
manii, Livorno, Vigo, 1882, pag. 145 e segg.; G. A. Cesareo, La poesia sicil.
sotto gli S'-evi, Catania, Giannotta, 1894, pag. 243 e segg. e del medesimo. Le
origini della poesia lirica in Italia, Catania, Giannotta, 1899.
6 LA POESIA POPOLARE ITALL\XA.
indole sui tempi e sugli uomini delle dominazioni
barbariche. Quindi il contrasto delle narrazioni dei
Mirabilia e della Graphia urbis Boììiae, del Libro
lìììperiale e delle leggende- su Giulio Cesare, su Vir-
gilio, su Trajano e sulle mitiche origini delle città
italiane, coi paurosi racconti intorno alla vita e alla
morte di Attila, di Teodorico, di Rosmunda. Natu-
ralo e necessaria forma di siffatta condizione d'animo
e d'intelletto doveva essere e fu la poesia, sebbene
per età non breve dovesse trovar ostacolo a mani-
festarsi nella perplessità stessa dell'idioma, ancora
non del tutto sciolto dall'involucro del latino. Nulla
perciò alle età venture rimase a testimoniare di
quella rozzissima poesia popolare del Medio Evo ;
e pur ammettendo, ad esempio, che il canto delle
scolte modenesi del 924 sia da riporsi tra le poesie
popolari, (^) opineremmo però che, quale ci è stato
trasmesso, abbia a dirsi un po' ritoccato da qualche
retore di que' tempi.
Ma via via che scorrevano gli anni, anzi i se-
coli, e miglioi'avasi la civile condizione delle plebi,
e si andava recando a più corretta forma l'idioma,
è naturale che quella torbida vena di poesia dovesse
chiarirsi e crescere in copia, finché giungessero al-
tri tempi, ne' quali al suo libero espandersi fosser
tolti i maggiori ostacoli. E se i saggi della prisca
poesia popolare non sono molti, ciò deve soprattutto
attribuirsi a due ragioni. In primo luogo, per le con-
dizioni stesse della nostra penisola era siffatta poesia
confinata per lo piìi entro i limiti del breve terri-
torio in cui nasceva; e nel rapido svolgimento della
(1) Du Mlrii,, Foésies popiilaires latines antérietives au XII siede,
Paris, Brockhaus, 1843, pag. 208.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 7
nuova vita sociale, passava insieme la memoria dei
fatti e quella dei canti cLe vi alludevano: salvo il
caso, come vedremo della canzone messinese, che
qualche cronista ne lasciasse ricordo per iscritto,
0 per cagioni da ricercare e apprezzare volta per
volta, il suono se ne spandesse anche di fuori. Che
invero, e questa può dirsi seconda causa del suo solle-
cito disperdersi, questa poesia era di sua natura fatta
per esser cantata, né altrimenti si propagava, che
per tradizione orale: cosicché è caso veramente for-
tuito se sino al dì d'oggi ne sia giunto qualche raro
frammento.
Non però si potrebbe dire, a giudicare da quanto
ne sopravvanza, che la poesia popolare di quella pri-
sca età non toccasse tutti gli argomenti da' quali
si manifesta la vita operosa di una cittadinanza. Ce-
lebrava, in fatti, gli avvenimenti prosperi od infe-
lici del Comune: del Comune, che tenendo luogo
della Nazione, era quasi a dire 1' unica patria del-
l'uomo italiano. Ben qualche volta univansi insieme
i Comuni contermini ad imprese di generale van-
taggio: testimone la Lega lombarda. Però di questo
gran fatto del duodecimo secolo ci restano atti di-
plomatici e sincrone narrazioni, anche poetiche, C)
ma neanche un verso che esprima i fermi propositi
dei collegati, i lamenti delle città arse e seminate di
sale, la gioja della vittoria, l'entusiasmo del trionfo. (")
(1) Vedi, ad es., le Gesta di Federigo I in Italia, descritte in versi
latini da Anonimo contemporaneo, a cura di E. Monaci, Roma, Forzani, 1887.
(2) È noto come fra i componimenti degli apocrifi poeti del sec. XII
trovisi anche una Canzone di petrarchesca architettura, attribuita ad Al-
dobrandino da Siena sulla battaglia di Legnano. Cito questa Canzone, che
ad ogni modo non sarebbe popolare, per sempre più affermare la mia in-
credulità sulle Carte di Arborea, e loro annessi e connessi. Del resto, se
un canto volgare e popolare nel 1176 sarebbe cosa difficile ad ammettersi,
una poesia letteraria con dei versi come : Inchinati a' suoi pie gl'Itali figli,
8 LA POE^ilA POPOLARE ITALIANA.
Forse troppo ormai logoro era il latino plebeo, troppo
rude ancora il nascente volgare. O
Restano, invece, tuttora alcuni frammenti di
canti politici municipali. Dei quali il più antico
esempio si avrebbe in quattro versi, frammento forse
di canto pili lungo, coi quali si celebrerebbe la vit-
toria dei Bellunesi in Casteldardo:
De Casteldard havi li nostri bona pait:
I lo getà tutto intio lo fiumo il'Ard;
E sex cavaler de Tarvis li pini fer
Con sé duse li nostri cavaler. (^)
L'impresa risale al 1193; ma noi non sapremmo li-
berarci dal dubbio che i versi non siano veramente
ed espressioni come a difesa di dritti universale, non altro può essere die
una goffa falsificazione.
(1) È degno di osservazione un fatto accaduto nel 1101, e narrato da
Landolfo il giovane: Ansclmus de Bnis mediolanensis archiepiscopus
permonuit prielectcon jucentnlem mediolanensem crucis suscipere et cantilenam
de Ultreja, Ultreja cantare. Atque ad vocem huius prudentis viri plures viri
cujuslibet conditionis per civitates Longobu rdorum , villas et castella eoriim,
cruces susceperunt, et eamdem cantilenam de LTtrcja, Ultreja cantaverunt
(lier. Ital. Script, voi. V, pag. 472). A che lingua appartiene Ultreja ? Se-
condo il Saint-Maec {Ahrérjé chronolog. 3. 2, 890) questo sarebbe il principio
d'una canzone francese che comincerebbe: O altre ja sont allées les Franar.
Ignoro se quest'asserzione sia esatta: certo è die Outrée era il grido dei
crociati: Dex, guani crieront outrée, Sire, aidiés à pélerin: come si legge
nel Laio della Dama di Fayel (Le Rorx de Linct, Chants historiq.frant;.,
Paris. 1847, voi. I, 10.5). E nella canzone di Carlomagno: Utrée, Diex a'ie,
crìent e hall e cler. Ei/a sarebbe perciò una interjezioue, come nella Can-
zone francese: Al enti-ade del tens cler, Eya, l'ir joje cnmmencar, Eya, Et
pir jaloux irritar, Eija eie. Comunque sia, gridossi Ultreja o Ultr'eja ai
tempi delle crociate, né solo in Italia; e nel secolo XIII ripetevasi ancora
questo motto, quando il muoversi aveva per fine qualche atto devoto: onde
nel Canto dei romei di Santiago: Fiat amen, alleluja, dicamus solemniter
E Ultreja e sus eja decantamus Jugiter (Mila y fontanals, Obserracion
sabre la poes. popul., Barcelona, 1853, pag. 29). Ad ogni modo, i Lombardi
del secolo XII gridando Ultreja ultreja, adoperavano una voce francese
pretta, o tolta dal francese e latinizzata.
(2) Vedi L. MoEASDì, Origine della lingua italiana. Città di Castello,
Lapi, 1891, pag. 71 ; E. Monaci, Crestomaz. ital. dei primi sec, ibid., 1889,
pag. 15; C. Salvioni, in Raccolta nuziale Cian-Sappa, Bergamo, Arti gr.a-
fiehe, 1894, pag. 235; V. Ciìescini, in Misceli, lingnist., in onore di G.Ascoli,
Torino, Loescher, 1901, pag. 539.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 9
coevi al fatto, ma, composti più tardi, ricordino una
gloria municipale più antica.
Al 1235 0 al 1250 si vorrebbero far risalire al-
cuni versi in dialetto marchigiano, riguardanti un
Pier da Medicina, che non è ben certo sia quello
ricordato da Dante, o altro:
Ser Petiu da Medicina
9'a fatu una fucina {') ecc.
e sembra fosser cantati popolarmente in vituperio
di lui. Così anche quando nel 1240 frate Elia, ge-
nerale dei francescani, staccatosi dal papa aderì al-
l'imperatore, " rustici et pueri et puellae — come
narra Salimbene — quotiens obviabant fratribus mi-
noribus per vias in Tuscia, ut centies audivi, can-
tabant: Hor atforna fra t' Elia che pres'ha mala via,
et tristabantur boni fratres et irascibuntur vere
usque ad mortem, dum talia audiebant „. O
Ma del 1255 avremmo in Siena un cospicuo esem-
pio di poesia popolare, commessa a un cantastorie dai
reggitori stessi del Comune per celebrare la presa
fatta del castello di Torniella sui suoi feudatarj. La
ballata non ci resta; ma ci rimangono due ordini
di pagamento di cento soldi di danari a Guidaloste
joculatori de Fistoria prò uno pario pannorum, quia
fecit cantionem de capi ione Tornielle, o come è pur
detto anche più specificatamente, quandam Ballatani
de Torniella. O Non abbiamo dati sufficienti per dire
(1) Vedi G. Pace, in Rif. Ahruzzese, agosto-settembre 1900, e G. Beo-
GXOLIGO, in Bibliot. Scuole Hai., IX, 145.
(-) C/ironica, Parma, Fiaccadori, 18.57, pag. 411. Vedi anche Affò, ì'ila
di fi: Elia, Parma, Carmignani, 178.3. pag. 90.
Pj Comunicazione amichevole del cav. A, Lisini direttore dell'Arch.
di Stato in Siena. — Un Guidaloste è ricordato da Guittone (Lettere, Honia,
1745, pag. .32) come tale che sol valer si dice in giostrar motti, meglio cioè
10 LA POESIA POPOLARE ITALIA2CA.
popolari i canti dell'Anonimo Genovese sulla vitto-
ria di Lajazzo (1294), su quella di Scurzola (1298),
sulla venuta di Carlo di Yalois (1300), sulla discesa
di Arrigo VII (1311), (^) sebbene difficilmente possa
credersi che l'ignoto poeta li componesse per sé me-
desimo soltanto, e non per farne partecipi i suoi
concittadini, de' quali celebrava come meglio sapeva
i fasti, e significava gli affetti. Tutto quanto il can-
zoniere dell'Anonimo, qualunque sia l'argomento ch'e'
tratta, lia la stessa indole; ed il componimento sotto
forma di prece, di leggenda, di inno, di ammaestra-
mento, par sempre destinato a diffondersi fra quanti
parlavano il medesimo idioma dell'autore. Ma po-
polare non solo, bensì anche corsa per tutta Italia, è
quella ballata sull'assedio di Messina del 1282, della
quale il Villani riporta forse soltanto un brano :
Dell, com'egli è gran pietate
Delle donne di Messina,
Yeggendole scapigliate
Portando pietre e calcina!
Dio gli dea briga e travaglio
Chi Messina vuol guastare. (^)
Altre volte sono motti di vituperazione fra città
e città, e rappresaglie cantate, o satire cittadinesche
e di fazioni. Un frammento di una canzone che corse
per Firenze quando uno dei Chiaramontesi — di quelli,
come dice Dante^ che arrossan per io stajo — essendo
camerlingo del sale, alterò a suo vantaggio la mi-
sura, ci è conservato da un antico commentatore
.idoperando la lingua che la lancia: e potrebb'esser questo giullare, che
l'aretino avrebbe ti'ovato nella corte del Conte da Romena.
(1) Bime genovesi della fine del secolo XIII e del principio del XIV,
edite ed illustrate da N. Lagomaggiore, neW Archivio glottologico italiano,
voi. II, pagg. 221, 223, 2-13, 2f,2.
(2) Giovanni Villani, Cronica, 1. VII, cap. G8.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 11
della Commedia: " et fessi di ciò in lor vergogna una
canzoncella che dicea: Egli é tratta una doga del sale
Et gli uffici so)i tutti saldati ecc. „ (\ì L'anno non è
riferito, ina debb'essere il 1295 o giù di li. Non men
numerosi e frequenti dovevano essere i canti, scam-
biatisi fra Comune e Comune, specialmente quando
venivano ad armato conflitto. L'esempio che Danto
adduce del parlar pisano :
Bene aiulonno li fanti
De Fioransa per Pisa (^)
ha tutta l'apparenza di appartenere a una poesia
cantata. Il cronista Simon della Tosa, all'anno 1309
narra che " di maggio cavalcaro i fiorentini a oste
fino ad Arezzo ; e da questo si cominciò la guerra
tra' Volterrani e quelli di San Gimignano: e allora
si fece la canzone:
I nostri cavalcarono „. (^)
E quando nel 1313 i Pisani giunsero alle porte di
Lucca, vi rizzarono due antenne, alle quali appesero
due specchi, scrivendovi sotto, come ce n'ha lasciato
ricordo il cronista padovano Albertino Mussato:
Or ti specchia, Bontur Dati
Ch'e' Lucchesi hai consigliati :
Lo die di San Fridiano
Alle porte di Lucca fu '1 Pisano. [*)
E perciò, dice un cronista Pisano, " e perciò disseno
li Lucchesi:
(1) Comm. d'Anonimo fiorentino, edito da P. Fanfaiii, Bologna, Roma-
gnoli, 1868, li, 207.
{-) De Vulg. Eloq., I, 13.
(3) Cronichette antiche, Firenze, Manni, 1733.
[*) De gestis iteti, post, Henric. Caes., Ili, 3, in Script. Rerum Italie.
voi. X, pag. 595.
12 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
Ahi Bontuio Dati, che al cor ci hai feiuto
Poi che ai Pisani mostrasti lo specchio;
Ma elli ce l'han posto sì presso,
Che inai nel mondo tu non fosse vennto ! „
alludendo a un motto di Bonturo, " clie voleva che
Pisa si speccliiasse in Asciano, lo quale Asciano
tennero li Lucchesi vintiotto anni „. (^)
Grande avvenimento nella vita dei Comuni era
la elezione del Vescovo e del Potestà, e le costoro
solenni entrate in ufficio dovevano porgere occa-
sione a canti festivi e laudatori, dei quali il tipo
potrebbe esser la strofetta, che i Reggiani canta-
vano nel 1243 a gloria del podestà fiorentino Lam-
bertesco de' Lamberteschi :
Venuto è '1 lione
De terra fiorentina.
Per tenire raxone
In la cita regina. (^)
Tutti questi sono come gridi, che escono sponta-
nei dal petto dei volghi, sono esclamazioni univoche,
delle quali non si sarebbe, neanche quando nacquero,
potuto riutracciarc e fermare chi ne fu primo autore.
Interi o frammentar], sono tipici esempj della forma
lirica, se così possiamo chiamarla, della poesia del
popolo. Invece, questi altri componimenti, cui ora
accenneremo, per l'indole loro, per l'ampiezza mag-
giore, per le fonti a cui risalgono, pel nome dell'au-
tore, che spesso conservano, si potrebbero dire poesia
popolareggiante ; scritta, ripetuta, cantata pei vol-
ghi, e da questi appresa volentieri, fatta propria e
(1) Saiìdo, Cron. pisana, in ArcJi. Storico, voL VI, p. lì. pagg. 96-98.
(-; FiiA Salimiìenk, Chronic. cìt., pag. .'i8. Vedi questi e altri frammenti
eli canti storici nel Caiìhucc-i. Cantilene e Baìlate, Strambotti e Madrigali
ite' sec. XIII e XIV, Pisa, Nistri, 1871, pag. 18 e segg.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 13
tramandata altrui. Di siffatto genere una categoria
assai ricca dovette essere quella dei canti popolari
ispirati dal sentimento religioso, potendovisi com-
prendere le parafrasi in rima del Vecchio e del
Nuovo Testamento, le vite e leggende dei Santi e
delle Sante, e le descrizioni dei mondi eterni della
pena e del premio. Un esempio dei canti sui fatti
della Storia sacra l'abbiamo nel componimento del
dugentista milanese Pietro da Barsegapè, nel quale,
narrato della creazione del mondo, accennato alla
caduta ed ai peccati mortali, viene poi a riassumere
i fatti principali della vita di Cristo. (^) Maggiore è
il numero delle narrazioni agiografiche in forma poe-
tica, appropriata alla intelligenza dei volghi. Il rac-
conto in prosa era destinato alla lettura, onde il
nome di legemìcL-ma ben si comprende come quei ma-
ravigliosi fatti preferissero la veste poetica; oltreché
per tal modo assai meglio s'imprimevano nella me-
moria SI degli ascoltanti e si dei volgari dicitori.
Abbiamo narrazioni della Passione in veronese, (^) e
vite di Santi e Sante: in dialetto genovese, dell'Ano-
nimo: O in milanese, di Bonvesin da Riva: (^) in ve-
ronese, (^) e in quasi tutti i dialetti italiani. Né meno
rilevanti e copiose dovevano essere le cantilene che
dicevano dello stato delle anime dopo la morte, delle
quali il più notevol esempio potrebbero essere i poe-
(I) BioNDELLi, SlucìJ linguistici, Milano, Bernardoni, 1850, pagg. Wi
e segg. ; Salvioni, in Zeitschv. f. Roman, l'itilolog., XV; E. Keller, Die
Reimpredigt, d. P. da B., Fiauenfeld, 1901.
{-) Ad es. la Passione e Resurrezione in veronese, poemetto del se-
colo XIII, pubbl. da L. Biadene, in Studi di filolog. romanza, I, 215.
(3) De Beata Margherita, pag. 164; De Sancta Kathelina virgine, pa-
gina 171 ecc.
(■1) Vulgare de Passione S. Job, Vita 6. Alexii, pubbl. dal Bekker, nei
Berichte... der K. Acad. d. Wissensch. zu Berlin, 1851, pag. 209, 217 ecc.
(5) Zur Katharinenìegende, von Prof. A. Mussafla, Wien, Gerold's.
Sohn, 1874.
14 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
metti di Giacomino da Verona. C) E di queste non è
da dubitare che non fossero rapsodie composte pel
popolo, affin di distoglierlo dalle fobìe e diti de bufoni,
raccontate dai giullari profani, come lo Sciavo da
Bar e Osmundo da Vero)ia, (^) e rivolgerne invece la
mente a devoti affetti : e se non fosse altro, baste-
rebbe por mente alle solite formole colle quali il
poeta sembra chiamare a cerchio intorno a sé gli ar-
tieri e le donnicciuole. (^)
A queste poesie spitituali si aggiungano le Espo-
sizioni e parafrasi delle preghiere, e della liturgia
in generale. Tali sarebbero il Decalogo e la Salve-
regina che leggonsi in una pergamena bresciana del
1253, (*) alcune preghiere bolognesi dei Servi di Ma-
ria del 1281, O ed in generale le Laudi dei Disci-
plinati, che uscite primamente dalle labbra dei fla-
gellanti nell'empito del fervore, (") ad imitazione di
quelle onde Francesco d'Assisi (^) faceva risonare
(1) A. MussAFiA. Monumenti anti'-Jii di dialetti italiani, Vienna, Ge-
rold, 1864.
(2) Op. cit., pagg. 4G, 8-2.
(3) Il sig. Arboit lia pubblicato, in Appenriiee alle Villoile friulane
da lui raccolte, alcuni canti saci-i in dialetto, che diremmo di remota an-
ticliità e trasmessi di generazione in generazione, dove si trovano queste
stesse formole proprie agli antichi cantastorie. Ad esempio, nella Canzone
dei Ke Magi (pag. :J04) :
Staimi attenz. pizzui e granz.
Femmini. umings, e bon infanz ecc.:
(■i) G. Rosa, Dialetti, costumi e tradizioni delle Prorincie di Bergamo
e Brescia, Bergamo, Pagnoncelli. 18.58, pag. 197,
(5) Bagola dei Se>-vi della lieina gloriosa ordinata e fatta in Bologna
nell'anno 1281, pubbl. da G. Ferrare, Livorno, Vigo. 1875, pag. ;^1.
C^) Laudes divinas ad honorem Dei et h. Virginis eomponehant , dum,
se verberando, incedebant: Fra Salimbene, op. cit., pag. 239.
(■) E da notarsi che il linguaggio primamente adoper.ato dal .Santo fu
il francese: onde gli autori della sua Vita: Laudes domino cantahat lingua
francigena. — E anche: Infra se ipsum bidliens frequenter e.rterius gallicuiii
erwnpebat in jubiUtm; e un Inno in sua lode: Seminudo corpore Laudes
decantai gallice. Ma veramente, secondo i Tre Socj, elemosgnam gallice
])ostulabat, lihentcr lingua gallica loijuebatur, licei ea recte loqui nesciret.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 15
la Marca d'Ancona cantando e laudando magnifica-
mente Iddio, (^) corsero, accompagnando il diffondersi
delle divote Compagnie, per tntta la Penisola, e la
forma tipica se ne trova nel sacro canzoniere di
Jacopone da Todi.
Affini alle Canzoni di sacro argomento sono
quelle che diremmo morali, cioè contenenti mas-
sime per l'onesta condotta della vita e per l'urbano
costume. A tale specie appartengono le rime di
uno fra i piìi antichi versificatori italiani, anzi del
primo fra i conosciuti a tutt'oggi, Girardo Pateg,
del quale piìi volte fa menzione fra Salimbene nella
sua Cronaca, dicendolo del Monferrato, benché al-
trove lo dica da Cremona, e il cui fiorire potrebbe
assegnarsi alla prima metà del secolo deeimoterzo.
Rimanevano di lui soltanto alcuni frammenti; (^) ma
altri in maggior quantità ne bau poi pubblicati il
valente professore Mussafia, (^) e più tardi Adolfo
Tobler (*) e Francesco Nevati : (!') e al caso nostro
appunto fa l'Esposizione o, come dice l'autore, lo
Spianamento dei proverbi di Salomone, ridotti in in-
culti versi volgari, e senza pretesa di uscir dalle
forme del nativo vernacolo. Ugual carattere, mi-
sto di religioso e di morale, di preghiere e di am-
Poi adoperò il suo linguaggio nativo: uè sapremmo ammotteie con taluno
che il cosi detto Cantico del Sole non fosse originariamente italiano, sebbene
ci sia giunto in più lezioni diverse. Certo, quando predicavadovette adoperare
il linguaggio volgare, qualunque fosse la vaghezza e la pratica della lingua
donde traeva il nome: sappiamo in fatti che nel 1226 predicò a Montefeltro
e scelse a testo questi due versetti, probabilmente di una poesia popolare:
Tanto è il bene ch'io aspetto, Chogni pena m'è diletto {Fioretti di S. Frane:
Delle s. s. stimai. I).
(i) Fioretti di S. Frane., Vita di Frate Egidio, cap. I.
(2) Salimbene, Chron. pagg. 21, 54, 196,238, 329, .384, 394, 402, 408, 414.
(3) 'H&WJahrhuch f. roman. liiterat., voi. VIII, 20.5.
(«) Das Spruchgedicht des G. P., Berlin. 1886.
(5) In Bendic. Istit. Lomh., serie 2», XXIX (1896).
16 LA POESIA POPOLARE ITALL\^;A.
inaestramenti, ha il rozzo Libro di Uguccione da
Lodi, C) repertorio giullaresco dello stesso tempo,
destinato anch'esso alla recitazione plateale.
Altre poesie, dicemmo, racchiudono sentenze e
norme di condotta civile e riflessioni opportune al
ben vivere. E qui pur ritroviamo il Pateg, che, a
testimonianza di Salimbene, il quale ne arreca de'
brani, scrisse un poemetto intitolato de' Tedj, de
Taediis, ove annovera tutte le cose nojose e dispia-
cevoli, e del quale rimase durevole memoria anche
ne' tempi appresso. (") Potrebbe dirsi un galateo di
buone usanze, misto di satirico sale, nel quale in-
segnando ciò che è da fuggire, si inculca ciò che è
bene si faccia. Allo stesso fine, ma con diretto am-
maestramento delle gentili usanze, mira il compo-
nimento di Bonvesino sulle cinquanta cortesie da
usarsi a tavola {De qiiiiìquaginfa curiaUfatibìi.^ ad
ììiensaììi), (^) manuale di buone creanze con partico-
lare appropriazione ai conviti.
Il quarto gruppo, che chiameremmo delle Poesie
facete, ha origine dai fatti della vita comune, anzi,
potrebbe dirsi, dal vivere grossolano e materiale
(1) A. ToBi.ER, Dcls Buch cles Uguron da Laodìio, Berlin, If^S-t.
(2; Vedilo ora, non senza lacune, nella citata memoria ili F. XovAxr.
A metà circa del sec. XIV, Antonio Pucci imitò o rifece il poemetto del
l'ateg, in un componimento in terzine. In un codice lio trovato il com-
ponimento del Pucci col titoto Le j\'oie del Falecchia, quasi come il nome
ilei primo autore fosse rimasto indivisìbile dall'argomento, e il professor
Fi.AM. Pellegrini lo riscontrò in altro cod. bolognese (v. Gioni. Stoi:
Leti, [tal., XVI, 342). Fra Salimbene, ad siiiìiliti(dinem l'aleceli, compose
anch'esso, mentre nel 1259 stava a Borgo S. Donnino, (lUum libriim Te-
dìoruiH. Un poemetto del sec. XV, contro le donne, il Maiigamllo, ha poi
tutto un capitolo, il duodecimo, le cui terzine cominciano A noja ni' è, come
quelle del Pucci.
P) Nelle cit. Bericht, 1851, pag. 85. e efr. L. Biadene, Cortesie da ta-
vola in latino e in prorenzale, l'isn.MAriottì, \Sdiì.\c(\i del Bonvesin anche
il Contrasto dei mesi, pubbl. prima dal Lidforss, poi con copiose illustra-
zioni da L. Biadene, in Studi filolog. rom., IX, 1.
LA POESIA POPOLARE ITALLVXA. 17
de' tempi. Si direbbero destinate soprattutto ad ec-
citare le risa dei buoni borghesi nei giorni di festa
e di ritrovo, e rallegrare le sollazzevoli mense e le
danze delle vie e delle piazze. Sono contrasti di fi-
glie desiderose di marito colle loro madri, lamenti
di innamorati o di donne mal maritate, dialoghi ap-
passionati di amanti, battaglie di comari, celebra-
zioni del vino e simili. Alcuni di questi temi comuni
furono poi riprosi e raffinati dalla poesia eulta, come
vedremo procedendo. Di questo genere avevamo
esempi non pochi nella bassa latinità ; (^) ne man-
cavamo per l'età del nascente volgare; ma Giosuè
Carducci ne rinvenne per primo notevoli frammenti
in certi libri di notaj bolognesi dello scorcio del du-
gento. (") Fra mezzo a transunti di memoriali appar-
tenenti alla Camera degli atti, sia per alleviar le noje
del lavoro, sia per utilmente adoperare una carta
rimasta in bianco, si trovano da' notaj trascritte al-
cune Canzoni in volgar bolognese, che possono es-
ser citate come modelli del genere a cui alludiamo.
Sono cinque in tutto ; e in quattro di esse almeno
mal si apporrebbe chi non sapesse ravvisare l'an-
damento e r indole della Poesia popolare , anzi
plebea.
La prima, tratta da un libro del 1282, è triviale
contesa fi'a due cognate, che si rimproverano vicen-
(1) Vedi ad es. Du Meril, Foésies j^opid. latin, da moijen age, Paris,
Franck, 1847, pag. 202-206, 222-237; Carmina Burana. Stuttgart, 1847; Co-
vati, Carmina medii aevi. Firenze, libr. Dante, 1883.
(-) Vedi gli Atti e memorie della lì. Dejnitazione Storica Romagnola ,
voi. IV (1864) e i testi nella citata raccolta di Cantilene e Ballate, e, me-
glio, negli Studi intorno ad alcune rime dei secoli XIII e XIV ritrovate
nei Memoriali dell'Archivio notarile di Bologna, Imola, Galeati, 1876. Dai
memoriali notarili bolognesi altre liime dei sec. XIII e XIV trasse Fl. Pel-
legrini, Bologna, Fava e Garagnani, 1891, e Tre Ballate d'amore, per Nozze
Fraccaroli-Bezznnico, Verona, 1895; fra esse ve ne ha taluna, come ad es.
la canzone della Rosa tempestina, che ha evidente andatura popolaresca.
D'Ancona, La poesia pop. ital. — 2
18 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
devolmente le loro pecche, anzi portano l'accusa in
pubblico colla consueta formola :
Oi bona gente, oclite et entenditi ;
ma poi finiscono coll'accordarsi insieme a danno dei
loro mariti, promettendosi scambievole ajnto nei loro
sozzi amori :
Cognata mia, 90 clied eo t'ho detto
Io sa^o ben ched ell'è mal a dire ;
Ma menarotti a casa un fancelletto,
E lui daremo ben manzare e bere ;
E tu recherai del to vin bruschetto,
Eo recarò del meo plen un barile.
Quando gli avren dà' ben manzare e bere,
(J'ascuna fa^a la soa cavalcata.
È la seconda un'avvinazzata Canzone di due co-
mari, che si animano l'una coU'altra a bere :
Pur bei del vin, coniadre, — e no lo temperare ;
e mangiano e cioncano così smodatamente, che il vino
entrato per bocca, esce così in abbondanza da un'al-
tra parte, che un albero ne è svelto dalle radici:
Comen^-a de pissare — la bona bevedrise ;
Ella descalza l'albore — tra qui e le radise.
Disse l'altra comare: — Per Deo, quel buso stagna,
Che fatt'ài tal lavagna — podressi navegare. — (*)
(1) Cfr. uii clic di simile in Gianandrea, Cantipopul. marchig., pag. 172,
n. 23. Consimile ì; pure una Canzone provenzale (D. Arbaud, C/iants popid.
(le la Froi\,l, 180) di tres coumairetos che vanno insieme alla taverna : una di
esse, dopo manj,'iato a crepapelle, n'en lancilo qitatv'ou cinq pete, e ne casca
in chiesa la statua del Santo, anzi peggio sarebbe successo: Moiin Dioii !
s'aqueou temps duravo Uestarie pa'n auhre drech, Lantiri li goiidet, Mestarle
2>a 'n auhre drech. Ubriacature di comari trovansi anche in una Canzone po-
Ijolare di Guascogna: v. Cenac-Moncaut, Liltérat. popul. de la Gascogne,
Paris, Dentu, 1868, p. 484. Cfr. anche una poesia popolare gallega, in Ro-
mania, VI, 53.
LA POESLV POPOLARE ITALIAXA. 19
La terza è un Dialogo, come tanti altri se ne
trovano nella poesia popolare di ogni tempo e di
ogni nazione, (^) tra nna figlia che vuol marito e una
madre che non vuol darglielo. L'nltima poi, è ben
definita dall'editore per " una di quelle volate aeree
del sentimento, cosi comuni nella poesia popolare ,,;('")
e così breve com'è, anzi evidentemente incompiuta,
non parrà superfluo riportarla qui per intero :
Fuor de la bella caiba
Fuge lo lusignolo.
Piange lo fantino — poi che non trova
Lo so osilino — ne la gaiba nova ;
E dice cum dolo: — Chi gli avvi l'asolo?
E dice cum dolo : — Chi gli aviì l'usolo ?
En un buschetto — se mise ad andare,
Sentì l'ozletto — si ào\(^e cantare:
01 bel lusignolo — torna nel mio brolo ;
Oi bel lusingnolo — torna nel mio brolo.
(1) Confr. colla XXIV delle Canzoni a Ballo: Madre tuia, dammi ma-
rito; Figlia mia, dimmi perchè ecc.; e colla Canzonetta: Madre, che 2>ensi
tu fare Che marito non midai ecc.; in Carducci, Cantilene cit., pag. .336. 11
tema è tuttavia popolare : nel fase. 64 della Baccolta di canzonette 'edita dal
Salani (1S791 vedasi la Canzonetta brillante tra madre e figlia: Mamma
mia, state a sentire, ecc. Questo soggetto è stato ampiamente trattato,
dopo notevoli accenni di V. Rossi in Giorn. Star. Lett. Ital., IX, 289, e di
A. Saviotti, ibid., XIV, 249, XIX, 4."2, da E. Eenier, Appunti sul Con-
trasto fra la madre e la figliuola bramosa di marito, nella Miscellanea nu-
ziale Sossi-Teiss, Bergamo, Ist. Ital., 1S97.
(2; Si potrebbe paragonare quest'antico canto popolare bolognese con
lino modernamente raccolto nell'isola di Milo, e cos\ di greco volgare tra-
dotto dal Tommaseo: Un uccellino aoei'o nella gabbia, dolce lo careggiaco
E lo nutrivo di zucchero, di muschio l'abbeveravo. In quel che l'uc<€llino stava
per gorgheggiare Così da sé mi scappò, ed il suo affetto si spense. Piglio i
monti correndo, e le montagne chiedendo. Le fonti e tutti gli alberi istante-
mente pregando. — Ditemi, o fo.iti, se e' bevve dell'acqua vostra, E voi, alberi
fruttifeii, se rimase nella vostr' ombrai — Jeri uccelli passarono parecchi
in compagnia E tra quegli uccelli era un uccello afflitto, Colle sue aline chi-
nate giù giti basso. — Vieni, uccellino mio, meco, deh, vieni meco, Ch'io faccict
una gabbia d'oro, un aureo recinto, Ch'io ci ponga l'amor nostro, che l'ab-
biamo sicuro. Vedi C. popol. dell'isola di Milo, pubbl. da E. Teza, Pisa, Ni-
stri, 1877, pag. 14.
20 LA POESIA POPOLARE ITALIAXA.
E tcinto più volentieri abbiamo riferita questa Can-
zonetta, in quanto ci offre occasione a raffrontarla
con altra francese del secolo XV, o almeno conte-
nuta in un codice di quell'età:
J'ay bien nourry sept ans ung joly gay
En une gabiolle,
Et quant ce vint au premier jour de may
Mon joly gay s'en vole.
11 s'en vola dessus un pin,
A dit mal de sa danfve (?),
— Reviens, leviens, mon joly gay,
Dedans ta gabiolle.
D'or et d'argenfc la te feray
Dedans comme dehors — .
— Ja, par ma foy, n'y entreray,
De cest an ne de l'autre — .
Le gay vola aux bois tout droit;
Il feict bien sa droiture;
Ne retourner ne doit par droit ;
Francbise est sa nature. (')
La rassomiglianza fra le due canzoni, avvertita già
anche da Gaston Paris, (") è semi^licemente fortuita,
(1) G. Parts, C/nnisoiis dii XV siì'cle, Paris, Didot, 1S75, pag. 29, Vedi
anclie una canzone slava di lamento sulla fuga deiruccellino, in U. Chiu-
BiXA, Canti del popolo slavo tradotti, Firenze, Cellini, 1898, \, 192. Si pos-
sono inoltre confrontare queste antiche forme di un tema assai ditfuso
con un canto della montagna luccliese:
....Quando fumo compiti i sett'a'
Bell'uecelliu riprese la vola...
E ne andiede di là dal mar.
Di là dal mar, dalla marina.
Torna, torna, quel bell'uccellino
Torna, torna, vieni in gabbiola...
Ti farò fare una gabbina d'o'
Tanto di dentro, elio tanto di fuora.
Ti farò fare una gabbina d'argen'
Tanto di fuora, che tanto di drente.
Vedi G. Giannini, C. pop. della tiiont. lucchese, p. 222. Cfr. uno stornello
lucchese in Niehi, C. p. lucchesi, n. 9.5.
(2) Nella Ji'jiiiania, voi. l, pag. 117.
LA POESLV POPOLARE ITALIANA. 21
ovvero l'iina deriva dall'altra ? Noi opineremmo che
la versione italiana fosse anteriore, non solamente
avuto considerazione ai manoscritti, che però sarebbe
criterio insufficiente; ma fondandoci piuttosto su
quel gahioìle, che anche l'editore osserva esser forma
italiana, In tal caso converrebbe supporre che uno
dei Cantores francigeìianim, che sulla fine del secolo
decimoterzo cantavano in plateis Communis i lai ed
i romanzi di Francia, riportasse seco oltr'alpi la can-
zonetta bolognese, e tradottala in francese, ne per-
petuasse la memoria in patria. Tuttavia potrebbe
darsi un'altra spiegazione, mettendo a raffronto la
canzone provenzale dell' Auceou en gabiolo.C) Un
amatore regala alla sua dama un usignolo ; ma dopo
sett'anni l'uccello fugge :
•co^
La damo li coiiri' k l'apres
Coum' uno fremo fouelo :
— Anest', arresto, roussignou,
Retouern' en gabiolo.
Te farai mangear de pan blanc,
Te darai de moun bouaro — .
— N' en vouere gis de toun pan blanc,
Et ni mai de toun bouuro ;
lou mangearai d'berbo de camp,
De la pas caussigado.
lou beurai d'aiguo doou roucas.
De la pas trebourado.
lou cantarai à moun plesir
Coumo mes camarados.
Ame mai estr' auceou de camp
Qu' auceou de gabiolo,
Vola !
Qu' auceou de gabiolo. —
I tre canti sono molto simili, e gahiola è anche in
0) D. Aebaud, op. cit., I, 153.
22 LA POESIA POPOLARE ITALI.V^'A.
un canto monferrino: (^) ma resta difficile il decidere
se la versione provenzale sia primitiva, e abbia
raggiato da un lato in Francia dall'altro in Italia:
0 se la poesia, nata fra noi, sia passata poi nelle
altre dne contrade di nnova latinità. La prima ipo-
tesi sembrerebbe confortarsi di altri casi consimili;
tuttavia dopo l'affermazione del Paris che il gahioììe
del canto francese è forma italiana, converrebbe
sapere se il gahioìo del canto provenzale sia forma
indigena o no.
Questa canzonetta ci apre la via a discorrere
di un quinto gruppo, che chiameremo dei Lai o La-
menti, posti in bocca di amanti abbandonati o traditi,
de' quali potrebbe offrirci antico esempio quello della
donna padovana per la lontananza del marito, forse
crociato. (^) Fu dal Brunacci rinvenuto in una perga-
mena che porta la sottoscrizione notarile del 1277,
e nella sua rozzezza è componimento di nota melan-
conicamente soave; ma qual sarebbe la crociata, alla
quale potrebbesi riferire? Non certo quella del 109G,
che si risalirebbe troppo indietro, quando ancora il
volgare padovano non poteva avere le forme che ci
presenta in questa poesia. Non impossibile sarebbe
assegnarle la data del 1147 o del 1189, perchè in
tale età, sebbene ciò sembri difficile, un saggio di
poesia volgare non sarebbe interamente da riget-
tarsi ; ma nulla vieterebbe riferiida al 1218, anno
della crociata di Giov. di Brienne. Tuttavia, con mag-
gior probabilità, potrebbe appropriarsi al 1204, l'anno
della presa di Costantinopoli, essendo questa la cro-
(1) Vedi Ferraro. C. p. monferr., n. 88; KioRA, C. p. del Piemonle,
n. G3.
(-) Carducci, op. cìt., pag. 22; o vocìi su di esso L. Lazzaeini in
Propugnatore, N. S. I (1888), 862 e F. Novati, in Giorn. LigHst.,X\l (1889).
LA POESIA POPOLARE ITALLA.XA. 23
ciata alla quale i Veneti presero maggior parte
sotto la condotta del Dandolo. Né farebbe ostacolo
a tal supposto che la crociata effettivamente si fosse
fermata a Bisanzio, avendo essa avuto da principio
di mira non già la fondazione dell' impero latino, ma
la conquista dell'Egitto per la liberazione di Terra
Santa dai Saraceni.
Pili del letterario ha invece l'altro affettuoso
Lamento d'altra donna per l'amante partito per la
crociata (quella al certo di Federigo II), che, forse
impropriamente, va sotto il nome di Rinaldo d'A-
quino, (^) poeta di tutt'altro stile nelle sue rime di
certa paternità. Egli è notevole, intanto, che nel-
l'ultima strofa l'amante si volga a un ignoto poeta:
Però ti prego, Dolcetto,
Che sai la pena mia,
Che me 'n facci un sonetto
E mandilo in Soria.
Sarebb'egli questo Dolcetto l'autore stesso della pie-
tosa canzonetta ? A ogni modo, qui non abbiamo la
rozzezza del Lamento padovano, fatto per consimile
occasione ; e posti l'uno a confronto dell'altro, e am-
messe le date da noi supposte, si direbbe che a poco
a poco la forma indigena e popolare della antica
volgar poesia si andasse, ne' suoi temi pili favoriti,
avvicinando a sempre maggior perfezione ; come è
pur tuttavia certissimo che qui non ritroviamo il
solito formulario della poesia cortigiana e delle
imitazioni dal provenzale.
Ordito letterario sopra una primitiva trama po-
polare ci offre pure, se mal non vediamo, il Lamento
(1) Vedi la poesia di Rinaldo, in Rime antiche volgari secondo la lezione
del Cod. Vaticano 3793, Bologna, Romagnoli, 1876, I, pag. 90.
24 LA POESIA POPOLARE ITALIAN\\.
della Lisabetta di Messina, accennato dal Boccaccio,
come cantato a' dì suoi, (^) in fine alla novella dei
casi di quella amante infelice, e che ci è porto per
intero da un codice laurenziano. (") La forma stessa
della strofa ci sembra indicare un raffazzonamento
di penna più colta: e certo è che il Lamento, smoz-
zicato dei sei primi versi, allungato di altri quattro
in fondo, e alterato nella struttura strofica e nella
misura de' versi, durava tuttavia nel 1533 quando
si poneva a stampa la Raccolta delle Canzoni a
Ballo fiorentine. {^)
Venendo adesso alle poesie d'amore, diremo che
se fosse fuori d'ogni controversia l'autenticità dei
Diurnali di Matteo Spinello da Giovenazzo, contro
i quali invece sonosi arrecati argomenti di non lieve
peso, assai ci gioverebbe un passo di quelli, già molte
A^olte citato, per assicurarci che fino dalla metà dèi
dugento esisteva quella forma capitale della poesia
del popolo, che è lo Strambotto, e che sin d'allora
(1) Giornata IV, nov. 5 : " Ma poi a certo tempo, divenuto (il suo di-
savventurato amore) cosa manifesta a molti, fu alcuno che compuose quella
canzone la quale ancora oggi si canta, cioè: Qual esxo fu lo mal criàiiano
che mi furò la yrasta „.
(-) stampato la prima volta dal Fanfani nel Decameron, ediz. Le Mou-
nier, 1857, 1, 349 : e con raffronti di varie lezioni, dal Carducci, op. cit., p. 48.
Kon mi trovo però d'accordo col Carducci nel tenere al secondo verso per
miglior lezione il vocabolo grasca, dacché in siciliano dicesi grasia e non
grasca: Alofru di Missina si' vinuto, Ti tegnu'nta'na rosta piantattc (Vigo,
Baco, ampliss. di C. pop. Sicil., n. 1629) ; 0 grasta eli yalofaru galanti (Id.,
n. 1971) ecc.; e anche nei dialetti meridionali: 'rasta: v. Imbriani, Cani,
popolari delle prov. meridion. I, 140, 320; lì, 154, 212 ecc. Altri ms. però re-
cano: resta, testa (il toscano testo per vaso da fiori) e gresta, che in siciliano
vale coccio: e parrebbero lezioni da preferirsi, perchè le parole che cor-
rispondono in rima nel 4" e 5" v. sono podestà e festa. Una miova edizione
del Lamento diede E. Ai.visi nello Canzonette antiche, Firenze, libr. Dante.
1884, p. 21 ; e il sig. T. Cannizzako l'ha ora riprodotto novamente, Catania,
tip. Tribunali, 1903, nel suo scritto : Il Lamento di Lisabetta da Messina e la
leggenda del vaso di basilico, pel quale mi riferisco a ciò che ne scrissi
nella I{ass. Bibliog. d. Lettera t. Ital., XI, 124.
(3) Vedilo al n. CXIV,
LA POESIA POPOLARE ITALLIXA. 25
Re Manfredi sotto le finestre delle belle di Barletta
ne cantava, al modo stesso che nei secoli successivi
i rustici amanti della Sicilia o di Toscana. Lo Be.
direbbe il cronista, (^) spisso la notte asceva per Bar-
letta cantando Stramhuotti et canzune chella state, pi-
gliando lo frisco, et co isso levano dui musici siciliani
che erano gran rommanzcdiiri. (^) Volendo dunque pro-
cedere con ogni cautela, lasceremo da parte non senza
rincrescimento, questa testimonianza tanto utile al-
l'assunto nostro. Vero è che possiamo addurne altro
di pari antichità.
Parla l'Anonimo genovese, già addietro ricor-
dato, della morte dell'uomo ricco vissuto in zogui e
convij e iugorar, fra homi de corte e sonaor Con si-
(1) La edizione rlol Del Re fatta sull'altra del Duca di Luynes por-
rebbe il fatto sotto la data del 1258 (Cronisti e Scrittori sincroni napole-
tani editi ed inediti, Napoli; Stamperia dell'Iride, 1860, voi. II, pag. 640);
quella del Miuieri-Riccio sotto la data del 1263 (Id. pag. 731}. Il medesimo
erudito napoletano, C. Minieri-Riccio nel suo libro / notamenti di M. S.
difesi ed iUustrati, Napoli, Metitiero, 1870. pag. 1.55, a difendere l'autenti-
cità anche di questo passo, riporta un brano di Salimbene, ove si parla
di Manfredi Maletta, zio di Manfredi re, chiamandolo optimus et perfectus
in cantionihus inveniendis et cantilenis excogitandis, et in sonandis instrii-
mentis non ereditar habere parem in mundo: ma nel cantionibus non tro-
viamo proprio gli Strambotti, e Vinveniendis ci rammenta piuttosto i tro-
vatori e la poesia cortigiana.
(-) Nella Raccolta del Vigo fn. 5153) si registra come antico ed au-
tentico questo Canto allusivo a Manfredi :
Giria 'ntornu lu jornu e la notti
E duci duci cci cogghiu la mota,
E duci duci cantannu strammotti
Come lu risignolu di la rrosa ecc.
E al n. 127-t :
'Facciti, bella mia, donna riali,
Senti la vuci di lu rre Manfredi ecc.
Sono interamente d'accordo col Nigea, op. cit., pag. xxvi, n., nel rico-
noscervi canti di età posteriore, ispirati dalla Cronaca dello Spinelli. Av-
vertasi che il primo passo citato, nella raccolta di S. Salomone-Maeino.
Leggende 2>opoì. siciliane in poesia, Palermo, Pedone, 1880, pag. 9, fa parte
d'un componimento su la Bigina de li fati, sul quale l'editore stesso osserva
che la forma troppo elegante e talora ricercata della poesia fa dubitare
della sua origine popolare.
26 LA POESIA POPOLARE ITALW.NA.
voreli e tanbor, e poi lo vede giunto all'estremo della
vita :
Or son andai li lor tanbuti,
Li sivoveli e ]i franti;
Li strumenti e iugorai tnti
Alantor son faiti muti.
Tuta la soa compagnia
Vego star monto strenua,
Sì che in cexia ni in via
Non è alcun chi guari ria,
Ni vego in quelo scoto
Usar solazo ni stramboto. (')
Ove mi par chiaro che la voce sfrconboto, pretta
maniata sorella dello sfranihot piemontese, dello
Mrambottu siciliano e del toscano sfraììibotfo, non
debba recarsi al senso deWestn'bot provenzale, del
francese edrabot o dell' esfranibof e castigliano, O ma
voglia designare, assai opportunamente, in luogo
ove si moralizza sulla caducità delle gioie mondane,
la forma più ingenua della poetica espressione di
affetto alla donna. Altro esempio assai antico sa-
rebbe quello che leggesi nel Miracolo di Nostra
Donna d'uno che rinnegò Cristo, se col Palermo po-
tessimo ammettere che la Sacra Rappresentazione
di tal nome abbia a riferirsi al secolo XIV, quando
invece per noi è del secolo successivo. Ivi è detto:
Mangiato eli' egli anno, cantino qualche Strambotto, (^)
al modo stesso come altrove : Dica così, cantando
come i Fispetti : {*) e il Pulci nel Morgante : Ove sono
ora i bcdli e i gran conviti. Ove sono ora i romanzi e
i rispetti ? (^) Ma ormai nel secolo decimoquinto. Io
(1) Piig. 231, 2;ì2.
{-) NlGBA, Op. Cit., p. XII.
(3) Palermo, Illustraz. elei CotUc. l'alat., voL n, pag. 355.
{*) Id. ibid., pag. 346.
(5) Cant. XIX, 23,
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 27
Strambotto siciliano era stato trapiantato, e fioriva
rigoglioso in Firenze, col proprio nome o con quello
di Rispetto : così equivalente al nativo, che in fronte
a una Laude di Francesco d'Albizzo è detto : Can-
tasi come gli Strambotti o vero lìispetti. (^)
Il prof. Carducci trasse fuori da un codice ma-
gliabecliiano e stampò O alcuni componimenti eli' ei
giudica antichi esempj dello Strambotto siciliano.
Il codice veramente è dei primi del 400, o al più
degli ultimi tempi del secolo antecedente ; ma non
ci opporremmo a chi giudicasse maggiore l'anti-
chità di questi versi, ai quali riconosciamo l'indole
nonché la forma e il linguaggio degli Strambotti iso-
lani. Gioverà qui addurne qualche saggio. Il primo
di essi, al quale, secondo il Carducci, mancherebbero
quattro versi dopo il primo tetrastico, e altri due
dopo il verso decimo, suona cosi:
Sonno fu che me ruppe, donna )nia,
En quelle parte dov'io m'arrivai.
Un angioletta in sonno me dicia,
Che per troppo dormir perduta m' ài :
— 0 dormiglioso, forte addormentato
Già non sia amante per donna acquistare.
Stanotte mi levai, vennit' a lato,
Credendomi con teco solazare:
Tu eri tanto forte adormentato,
Che già mai non te potè' esvegliare. —
— Gentil Madonna, non me biasimate,
Che la vostra venuta non sapìa:
Il sonno traditor che m'ha ingannato (^)
A già gabbato piì; saggio de mia.
(1) Laudi Spirituali di Feo Belcari, di Lorenzo de'Medici ecc. Firenze,
Molini, 1861, pag. 55.
(-) Cantilene e Ball., cit. p. 56; S. Feekaiìi, Bihliot. della Letferat.
popol. ital., Firenze, Polverini, 1882, I, 69.
(3) Questo verso quasi identico si trova in un Canto di Montella ;
28 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
Non me lamento tanto de lo sonno,
Quanto faccio de voi, patrona mia.
Che nei venisti a l'alba dello giorno
Quando lo dolce sonno me tenia.
Sonno fu che me ruppe, donna mia. (')
Questo motivo poetico non più riferito ad ima
visita amorosa di donna ad uomo, ma invece d'uomo
a donna, vive tuttora in parecchi canti popolari. Ne
sia d'esempio questo di Caballino:
'Na donna mnie prumise alle cinc'ore,
Jeu, lu meschinu, mme nde 'scii a dnrmire;
Quandu mme risvegliai fora le nove,
Pigghiu li panni e mme 'ncignu a bestire :
Nme nd' 'au 'rretu la porta alla miu amore;
— Aprimi, beddha mmia, 'ogghiu trasire. —
Iddha mme disse : — A ba uegghi cicore !
Ci ama donna nu' bascia a durmire :
Mme prumettisti ca 'jeni a cinc'ore,
Mo' su' li noe, e nu' te pozzu aprire — (^)
E quest'altro di Carini in Sicilia:
La bella dissi: — Veni a li dui uri — ;
Ed eu, l'amaru !, mi jivi a curcari ;
Sona lu roggiu e sonanu tri uri,
Satu 'ntra un lampu e dugnu lu signali :
— Grapimi, bedda, ca sunnu tri uri. —
— Né quattru, nò cincu ti pozzu grapiri ;
Cci curpa lu tò sonnu tradituri ;
Cu' porta amuri nun diva durmiri — . (^)
Più strette somiglianze con canti tuttora viventi
Lo suonno traritore inmi 'sgannavo : ImbiìIANI, XII Canti pì(iHÌgUanesi,ì^a.-
poli, Detken, 1877, p. 135.
(1) Oj>. cit., p . 56.
(") Imbeiant, C. popol. pvov. vieiid., voi. Il, 427-8: clr. Molinako dei.
Chiaro, C. p. di Terra d'Otranto, in yiich. trad. popoL, III, 270, li. 10 ecc.
(3) Vigo, n. 1042.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 29
ha quest'altro componimento, che nel codice maglia-
bechiano porta scritto in fronte NapoUtana:{^)
Gimene al letto della donna mia,
Stesi la mano e toccaile lo lato.
Ella si risvegliò, ch'ella domila:
— Onde ci entrasti, o cane rinnegato ? —
— Entraici dalla porta, o vita mia;
Priegoti eli' io ti sia raccomandato — .
— Or poi che ci se' entrato, fatto sia;
Spogliati ignudo, e corquamiti a lato. —
Poi ch'avem fatto tutto nostro gioco,
Tolsi li panni e voleami vestire :
Ed ella disse : — Stacci un altro poco,
Che non sai i giorni che ci puoi transire — .
A Spinoso nel napoletano si canta a questo modo:
Vurria pi' 'sta funestra mo' saglire,
r cummi nei saglivi l'ata sera.
Lu coro tuppè tuppè mmi facia,
Sindennini chiamare, gioja cara :
— Amniore, ca si' ahbascio, saglitinni.
Ma ca j'è giuto a lu rusario mamma. —
Piglio la scala e mmi n'anchiano sopa,
Truvai la bella ca facìa lu lietto;
Cuscini r' oro e cotri ri villuto,
Cu' 'na cammisa 'janca 'mpusimata.
r mmi chiecai e li tuccai li menno,
Jessa si rivultò tutta scantosa.
— 0 caro ammanto, addìi' nni si' trasuto? —
— Pi' li porte r' ammore, gioja mmia. —
(1) Carducci, Cantiì. e Ball., cit, p. 57. Che La serie di canzonette con-
tenute nel cod. e riprodotte dal Carducci, ojd. cit., pagr. .52 e seg., sia di
origine meridionale, oltre l'intitolazione, anche da altri argomenti si de-
sume. In una è detto: Ai le bellezze della Camiola, ed è costei la celebre
messinese, della quale novella anche il Bandello, e che è pur ricordata in
un canto siculo; 0 ÒKÌdlia, quanta t'aju addisiatu, Cchih di la Camiola di
Missina (Vico, n.^SoG). Altrove è detto : Brunetta ch'ai le ruose alle ma-
scelle; e mascella per guancia è siciliano pretto : A li masciddi aviti li ruseddi,-
dice quasi identicamente un canto di Minèo (Id., n. 1525); e altrove: E ssi
masciddi dui grasti sciuruti (Id., n. 55) ; Quanto su' beddi chissi to masciddi
(Id. n. C.3) ; Tetti dui puma rrussi a li masciddi (Id., n. 100); Havi dui puma
russi pri mascidda (Id., n. 197), e così in moltissimi altri luoghi.
30 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
E jedda mmi vasavi e nimi licivi:
— Spogliati, ammante, e corcati cu' minia. —
0 coi iiuttata, o cci mittata bella!
Quanni niii 1' ham' a fare 'n 'ata vota!(')
Nel Veneto invece dice così:
Stanote, auema mia, so vegnù al leto,
Ti gèri, sangue mip, che ti dormivi.
Ti gèri descoverta '1 bianco peto;
Un anzolo del ciel ti me parevi.
E mi te meto una manina al peto,
E ti me disi: — 0 siestu benedeto! —
Cussi pian pian te meto una ma' al core,
E ti me disi : — Xestu lo mio Amore?
Ma da che parte mai xestu vegnìo?
— Su per i to balconi, anema mia, —
— E xestu sì venudo e così sia:
Spogite, caro, e fame compagnia,
E fame compagnia s'in' a set' ore,
Sin a lo canto de la rondinela. —
La rondinela scemenza a cantare:
Leva su, belo, che zorno voi fare.
0 rondinela, falsa traditora.
Via, lassime dormire un'altra ora,
Che ti m'à roto '1 sono delicato:
0 che dolce dormir da iiiamorato! (-)
Questo stesso canto, e ciò è assai notevole per co-
noscere le trasformazioni della versificazione popo-
lare, si è raccolto in brevi strofette, e così si ode
cantare tutto giorno, o per dir meglio, tutta notte.
Eccone una lezione monferrina:
(1) Imbriani, voi. IL pag. 89. Cfr. Mazzatim'i, C. pop. umhri, ii. .301,
e Maesiliani, C. pop. di liolsenu, ecc., ii. 41, e 00.
{-) Dal Medico, Canti del popolo veneziano, pag. 41. Con qualche v.n-
riante è pure del Bernoni, Canti popol. veneziani, puntata VII, n. 18: in
IVE, C.pop. istriani, pag. 15, e in Villanis, C. pop. dalmati, pag. 20. Il primo
tetrastico, in Pasqualioo, Canti popol. vicentini, n. 31 ; Giananueea, C. popol.
marchigiani, p, 7G, e Tommaseo, C. popol. toscani, p. 149.
LA POESIA POPOLARE ITALIAKA. 31
Asmi andà ca cantèe
Sutta ra cà dra me siura:
Ar'ho truaja an letto,
Oa ra drumiva siila.
A r'iio ciamà ina vota,
Ra bela min sentiva,
E ra secunda vota :
— Oiniè, ca san tradija! —
— No, no, eh' an t' ei tradija,
Non sun qua pir tradite;
Mi a sun culi giuvinettu
Ch' u t' porta grand amari. —
— Si t' ei culi giuvinettu
Andanua chi t' ei pasà? —
— Da quella finestretta,
Andanua chi m' liei ansgnà. —
— Si t' ei culi giovinetta,
Anseste an s'culla banca,
Faruinnia l'amar ansein
Fin che la rundanin-nha canta. — ■
— 0 rundanin-nha bela.
Ti t' ei ina traditnra.
T' ei bitaja a cantèe
Ch' u 'n era aiicara 1' aia
O rundanin-nha bela.
Ti t' ei ina busarda,
T' ei bitaja a canteo
Ch' u 'n era ancura 1' arba! — (^)
Né altro diremmo essere questo canto salvo una
varia forma in dialetto monferrino di altro canto
così riferito dal Kopiscli, (") e raccolto in Roma :
Me ne andai a casa, a casa della Signora,
E la trovai nel letto che lei dormiva sola.
(1) Ferearo, Canti lìopol. inonferrini, n. 5+, e altre lezioni in KiGRA,
11. 64, e in G. Pinoli, C. popol. caiiaceaani, ji. 1-1 e una lezione di Pieve
Tesino in G. Kekvo, per nozze Fietta-Mendini, 1885, p. 19; Widter-Wolf,
Volkslieder aus Venetien, u. 2; Gianandrea, pag. 274; Rondini, C. popol.
marchigiani, p. 135, ecc.
(2) KOPISCH, Agrumi, Berlin, Crantz, 1888, pag. SO.
32 LA POESIA POPOLARE ITALLVXA.
La presi per la mano, la bella non sentiva:
— Sol un bacio d'amore. — Oimè, io son tradita ! —
— No, no, non sei tradita ; che io son quel giovanotto
Ch'io son quel giovanotto, che a te vuol tanto bene. —
— Se sei quel giovanotto, di dove sei passato ? —
— Per quella finestrella, che tu m'hai insegnato. —
— Se sei quel giovanotto, vadi dall'altra banda,
E fa la ninna e dormi, finché la rondin canta. —
— 0 rondinella bella, tu sei una traditora !
Tu sei venuta a cantar, non era ancora l'ora !
0 rondinella bella, tu sei una meretrice,
Tu m'hai svegliato dal sonno mio felice!
0 rondinella bella, tu sei una gran bugarda ;
Tu sei venuta a cantar, non era ancora l'alba ! —
Qui facilmente, oltre una lezione qua e là er-
rata, e clie abbiamo in qualche punto cercato di
correggere, potrebbe al Kopiscb rimproverarsi di
aver scritto dei settenarj come versi di quattordici
sillabe. Né altrimenti clie in settenarj questa Can-
zone ci si presenta innanzi in una versione toscana,
della quale ci suonano all'orecchio alcuni versi :
Io le toccai lo petto,
La bella non sentiva:
Le diedi 'n bacin d'amore,
Lei disse : Son tradita....
— No, che non sei tradita.
Io son quel giovinetto
Che ti donò la vita. —
— Dimmi, bel giovinetto,
Di dove sei passato ? —
— Da quella finestrella,
Bella, che m'hai insegnato. — (')
Ma in quest'altra versione romnna, stampata
dal Mueller (") e da noi fedelmente riprodotta quan-
(1) Vedila intera in Giannini, C. popol. lucchesi, pag. lyO, e in Rac-
colta di Canzonette del Balani, fase. 56.
(2) Eyeria, Lipsia, Flcischcr. 18J9, p. 12. Cfr. Agrumi, p. 78, e Mengiiini,
C. 2'opol. I-umani, n. 2:31.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 33
timque assai guasta, ritorna il metro endecasillabo
della antica canzone :
Questa ò la casa, dove stetti da (ier?) sera,
■Questa è la finestiina dov'entrai ;
Andetti alla stanza della mia bella,
La presi per la mano e la svegliai.
Ed ella aprì gli occhi sbigottita:
— Ah ladron traditor, do' se' entrato ? —
— Sono entrato per questa fìnestrina,
L'era aperta, e poi l'ho rinserrata.
Braveggio la fortuna, che l'ho tentata;
Venghiamo a luogo, o bella, e cava i panni,
E spandili sul tetto (letto?) sopra alla casa (cassa?) :
Questa notte per me duri cent'anni!
Dal canto antico al moderno napoletano, veneto, mon-
ferrino, romano o toscano ognuno vede quanto poche
•sieno le differenze sostanziali, delle quali la più note-
vole è forse soltanto quella dell'imprecazione alla
rondinella importuna : C) imprecazione che ricorda
l'allodoletta nunzia del mattino, che svelle Romeo
dagli amplessi di Giulietta. (■'') Il rimanente è varia-
ci) Il seguente canto toscano evidentemente allude allo stesso fatto,
e staccatosi dal fondo narrativo, si è esplicato liricamente :
O rondinella che canti si bene,
Ti levi la mattina e vai cantando ;
In aria porti la tua bella voce.
Che tutti i tuoi amanti vai svegliando.
Amanti, amanti, non dormite pine.
Perchè il troppo dormire assai fa danno.
Questo lo dico perchè l'ho provato:
Chi troppo dorme, rimane ingannato.
Questo lo dico, perchè provo ognora :
Chi troppo dorme ingannato si trova.
Tigri, C. pop. toscfir.i, n. 502. Cfr. Bekxoni, o^j. cif., TV, 22.
(-) Atto 3", se. V. Un canto del Berry ha lo stesso rimprovero alla
lodoletta, come nota il Ratherv, Ch. popul. de l'Hai., pag. 27 ;estr. dalla
I{ev. (les d. mondes, 15 marzo '62).
A peine ensemble j'nons trcuvions
Qu' l'alouett' fit entend' sa chanson.
D'Ancoxa, Ln lìoesia pop. iful. — 3
34 LA POESIA POPOLARE ITALIAXA.
zioue più o men nuova sopra un tema anteriore, (')
conservandone qualche nota fondamentale. O
Vilaine alouett', v' là d' tes tours,
Mais' tu mentis :
Tu nous cliantes le point <Ju jour,
C'est pas minuit.
Cfr. con altra canzone francese, riferita da Y. Smith, Vieilles Chansons
recueillies en Vela;i et en Forez, n. IV (estr. dalla Bomania, VII), e con
quelle riferite dal Eolland, Recueil de Ch. popul., Paris, 1882, IV, 43, e
nella Méhcsine, I, 286. E qualche cosa di simile, in un canto rumeno:
V. E. PicoT, Docuiìients pour servir à l'étude des dialectes roumains, Paris,
Maisonneuve, p. 55. Per altri raffronti, vedi Nigka, p. 343.
(1) Sul tema degli amanti, le cui gioie notturne sono interi'otte dal
canto dell'allodola o dal grido della scolta, vedi A. Jeankoy, Les origines
de la poesie lijrique ecc., Paris, Hachette, 1889, pag. 61 e segg. Talvolta,
come nota il Jeanroy, il distacco è prodotto dalla paura del marito ge-
loso, come in questa canzonetta d'addio, tratta da un memoriale bolognese
del 1202:
Partite, amore, adeo,
Cile tropo ce se' stato:
Lo maitino è sonato,
Zorno me par che sia.
Partite, amore, adeo,
Che non fossi trovato
In s\ fina celata
Come nui senio stati.
Or me basa, odo meo,
Tosto sia l'andata
Tenendo la tornata
Come d'innamorati,
SI che per spesso usato
Nostra voglia renovi,
Nostro stato non trovi
La mala gelosia.
Partite, amore, adeo,
E vane tostamente,
C'onne tua cossa faggio
Pareclata in presente.
Monaci, Crestomaz. Hai. dei primi secoli, Città di Castello, Lapi, 1883, p. 202.
(-) Cfr. con questo canto di Termini, in Vigo, u. 1102:
Figghiuzza, ca tu 'nsonnu mi vinisti,
Bedda, ch'a lu c.apizzu t'assitasti,
Tanti e tanti carizzi mi facisti
Sparti di li vasuni chi mi dasti.
Tu dimmi, amuri miu, d'unni trasisti ?
Li porti e li finestri trafnrasti?
Ora m'arrisbigghiavi e ti n'jsti :
Figghiuzza, "ntra lu megghiu mi lassasti!
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 35
Ma sullo Strambotto e siri luogo del suo nasci-
mento, sulla prima sua forma, e sulle imitazioni let-
terarie che se ne fecero, dovremo ritornare fra breve.
Intanto giova aver posto in sodo che nei primi se-
coli, allato alle poesie imitate dai modelli dell'an-
tichità 0 dai recenti esempj degli stranieri, vi ebbe
una maniera tutta popolare ed indigena. Che se non
tutti i canti da noi citati qua addietro potrebbero in
egual modo affermarsi dirsi nati fra il popolo o dal
popolo fatti proprj, certo è che tutti debbono il lor
nascimento a forme di sentire ben diverse da quelle
cui ispiravasi la poesia letteraria di quell'età.
III.
Né potrebbe dirsi che questa forma piìi ingenua
e spontanea di affetti e di sentimenti restasse sol-
tanto negli inconditi carmi del volgo, e mai non ne
facesse suo prò la poesia eulta, riducendola a per-
fezione d'arte : dacché può affermarsi che, sotto un
certo rispetto, la scuola fiorentina cogliesse il fiore
della popolar poesia. Questa scuola, invero, sorta
ultima in un Comune ordinato a popolo, godè anche
tutti i benefici del tempo e del luogo. Ammaestrata
dagli stessi esempj anteriori, lasciò da parte le for-
mole trovadoriche, logore ormai dal grand'uso che
se n'era fatto di qua e di là dalle Alpi, e quasi
mutate in gergo delle signorili dimore; e si avviò
animosa sulle orme dei Bolognesi, correggendo tut-
tavia quel certo che di soverchiamente dottrinale,
che annebbiava le rime del Guinizelli e dei suoi se-
guaci. Ma se la gaja scienza dell'amor cavalleresco
36 LA POESIA POPOLARE ITALL4.NA.
e cortigiano è il substrato della poesia dei Siciliani
e di quanti in tutta Italia li imitarono ; e se le dot-
trine della Scuola sono intima sostanza della bolo-
gnese, il costume cittadinesco e il cuore nella spon-
taneità delle sue sensazioni, danno forma ed atto ai
prodotti poetici della fiorentina. Ben vi hanno a ciò
notevoli eccezioni: perchè Dante nelle sue primissime
rime rammenta i Trovatori e Guittone, (^) come piìi
tardi dettò difficili canzoni di argomento morale e di
veste allegorica ; e il Cavalcanti andò anche piìi là
del Guinizelli nella sua famosa Canzone della ori-
gine e natura d'Amore ; ed egli stesso ed altri, piti
o men felicemente imitarono alcuni generi partico-
lari della poesia d'Oltralpe, ad esempio la Pasforetfa.
Ma se è vero che la poesia fiorentina delle forme
anteriori coglie il più bel fiore, e le conclude per-
fezionando ciò che era in esse di ancor vivo e vi-
tale, non è men vero che il principio sommo che
tutta la informa, è l'esemplare nel verso quello che
il core detta deìitro : sicché, per questo lato, essa
trovasi in continua ed immediata relazione col po-
polo, come i poeti antecedenti colla Corte e colla
Scuola. Il sentimento comune espresso nella comune
parola, l'uno e l'altra affinate dal magistero dell'arte,
diedero materia e forma al nuovo stile, del quale solo
un piccol cenno aveva dato il Guinizelli. E come la
plebe in Firenze coll'esercizio della libertà era di-
venuta popolo, cosi il pensiero, l'affetto, il senti-
mento comune, salendo a maggior nobiltà nella mente
del poeta artista, divennero capaci ad esser effigiati
ed espressi nel linguaggio del verso.
(1) Vedi nella Vita Nuova della edizione 2-i da me procurata (Pisa.
libr. Galileo, 1884) la nota a pag. 123.
LA POESIA POPOLARE ITALU.XA. 37
Non pochi esempj potrebbero addursi del modo
col quale i poeti della scuola fiorentina improntano
del proprio suggello la materia, che il popolo loro
offre innanzi nella sua schietta ingenuità e senz'or-
namenti fìttizj. Quando, ad esempio, Lapo Gianni,
in una delle sue più belle e men note poesie, strana
del resto anche nel metro, a sé stesso invoca tutte
le perfezioni, la bellezza di Assalonne, la forza di
Sansone, e che l'Arno per lui corra balsamo fino, e
le mura di Firenze sieno d'argento, e l'aria tempe-
rata egualmente d'ogni stagione, e che migliaja di
donne e di donzelle gli cantino attorno sera e mat-
tina, entro giardini pieni di frutta e di augelletti,
rinfrescati da acque correnti e risonanti della mu-
sica di chitarre e di violini : in questi ambiziosi ane-
liti d'una immaginazione riscaldata dalla voluttà dei
sensi troviamo un fondo di immagini, che non ap-
partengono al poeta in proprio, ma al poeta di tutti
maggiore, al popolo. In fatti anche al dì d'oggi il
poeta popolare siciliano così augura a sé medesimo:
Oli Diu, cli'avissi 'iia niiintagna d'oru,
Quattrucent'unzi di reunita l'aiinu,
Di lu CTiantiucu voriia lu tisoru,
E di la Gran Signuri lu comannu ;
Vorrìa Palermu cu tuttu lu molu,
D'ogni mercanti 'na l»adda di panna ;
Ogni fratazzo mi dassi la soru,
E li mugghieri d'autro a me comannu. (')
(1) PiTEÉ, S^cc'J di poesia popolare, pag. 189, ove si reca anche ima
vaiiante catanese, nonché una lezione aulica tratta da un ms. del sec. XVIL
In questa il verso penult. dice: E issi nparadisu quanmc morti, che ri-
sponde a quello di Lapo Gianni: Poscia do rer entrar nel cielo empirò. Iden-
tico augurio si trova nell'antica poesia francese Les souhaits chi paijsan,
pnhbl. da A. Boucheeie nella Uei-ne des lang. roman., Ili, 318: et en lafìii
paradis éuisson.
38 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
E l'appassionata madre avellinese, sospesa sulla
cuna del figliuolo e commossa alle infantili bellezze
di lui, ne molce il sonno con questi versi:
Quanto si' bello! Dio te pozza dare
La forza de Lorlando e de Sanzone,
Li bellizzi che avia Carlo Romano,
La sapienza che avia Salomone; (')
Dudici figli mascoli puozzi fare,
Puozzi guarnì' lo Regno ogni pontone;
Uno vescovo, 'n auto cardinale,
Lo Papa Santo co' hi 'mperatore; (^)
né diversamente, dalla costa adriatica, esclama la
madre z aratina :
Ti xe cussi bel ! Dio te possa dare
La forza de Rolando e de Sanzone,
E le bellezze di Carlo Romano,
La sapienza del vedo Salomone. (^)
La maniera poetica della scuola fiorentina non
deriva soltanto da un piìi degno concetto dell'arte
e delle strette relazioni del bello col vero, ma è
anche effetto degli ordini civili, coi quali allora reg-
gevasi Firenze, e delle costumanze che il viver li-
bero e popolare vi aveva ingenerato. Cotesti poeti
(1) Nell.a testò cit. poesia francese: Et Je sonshaide autretant de hoii
seas Et de niesure e' onkes cut Salomones. E una cabla anonima provenzale
pubbl. dallo Stengel nella Jiivisla di Filolog. liomama, I, 40: Lo sen
l'olgra de Salomo E de liotlan lo ben ferir, E l'nstre de sei qne pres Tir
E la gran forssa de Samso, E que sembles Tristan d'amia E Galoanìi de
cavalaria, E lo ben sen de Merli etc.
(■^) Imbriani, C. popol. avellinesi, pag. 49: cfr. Molinari del Cuiaro,
n. 42.".. Il solo primo tctrastieo in Villanis, XXV Stramb. Zarat., n. 21.
(S) ViLl.ANiS, A'A'K Strambotti popol. zaratini, n. 24. Nel libro di
D. SiLVAGNi, La Corte e la società romana nei sec. XVIII e XIX (Firenze,
tip. Gazzetta d'Italia, \8S2,Ì, 108) è riferito un consimile canto romanesco:
Che possa avere cinque figli maschi E tutti quanti di casa Colonna; Uno
2>apa, l'altro cardinale Ed uno arcivescovo di Colonia. Ed uno 2)0ssa avere
tanta possanza Da levar la corona al re di Pranza E l'altro possa avere
tanto valore Da levar la corona all'Imperatore.
LA POESIA POPOLARE ITALL\XA. 39
non potevan essere né cortigiani né accademici; non
potevano ispirarsi né al galateo cavalleresco né alle
sottili speculazioni delle università, vivendo, come
e' facevano, in mezzo a quella lieta vita nuova della
risorta gente latina. La poesia fu per essi forma di
gentil costume ed ornamento della vita civile: e da
questo spettacolo poetico che gli stava attorno e
dinanzi, il rimatore, vero interpetre del popolo, che
ne intendeva e ripeteva i versi, traeva ispirazioni
al suo canto. Le Canzoni dantesche, sposate alla
dolce musica di Casella, allegravano i gaj ritrovi di
quel popolo, il quale più tardi accorrerà in Santo
Stefano, come ad un rito religioso, a udire Giovanni
Boccaccio, che dalla Divina Commedia trae fuori
notizie di storia, dottrine di scienza, norme di mo-
rale, precetti d'arte.
Ma le Canzoni e la Coìumexiia- sono, a cosi dire,
le ardue cime della poetica fiorentina nel secolo XIII,
che però, se non sempre con tutto l'intelletto, col-
l'aifetto almeno e coli' ingenua ammirazione riusci-
vano a superare anche quei fornai e calzolai, pe' quali
fu detto più tardi che Dante avesse pensato e
scritto. C) E se fosse autentico, come è invece apo-
crifo ed appositizio, il fatterello narrato dal Sac-
chetti, (^) del fabbro che trametteva i versi danteschi
smozzicando ed appiccando di suo, e dell'asinajo che
fra un verso e l'altro incitava la bestia, onde il
poeta ebbe a dirgli: cotest' arri non vi misi io, se, di-
ciamo, tutto ciò non si fosse già narrato prima, e
(1) Gino Rixuccini, Invettiva contro a cierti calunniatori di Dante etc.
stampata dal Wesselofsky, Il Paradiso degli Alberti, voi. 2", p. Il, p. 303. —
F. FlLELFO, Due orazioni in lode dello illustrissimo poeta D. A., pubblio, da
Michele dello Russo, Kapoli, Ferrante, 1869, pag. 26.
(2) Novelle, n. Ui, 115.
40 LA POESIA POPOLARE ITALLVKA.
d'altri, Q) certo è che non potendo intendersi della
Commedia, converrebbe supporre che si trattasse
delle Canzoni, ed avremmo in ciò una prova della
popolarità loro. Se non che tale ipotesi non è accet-
tabile ; ma è ben certo che, oltre questo, che potrebbe
dirsi (ìe arie major, vi ha un altro genere di poesia
che dal popolo veniva e nel popolo ritornava, e in
che si esercitarono Guido Cavalcanti, Lapo Gianni
e Dante stesso.
Nata dalle usanze stesse della città è la Ballata
0 Canzone a Ballo, poesia musicale e corale del po-
polo, come il Madrigale o Mandriale è poesia della
cittadinanza piìi eulta e del mondo elegante (") di
quell'età e della successiva. La ballata accompa-
(1) Si trova già in Diogene Laerzio nella Vita di Arcesilao, e nello
spagnuolo Juan Manuel (m. 1317) : nel primo caso, come avvenuto fra
Filomeno e un fornatiaio, nel secondo, fra un trovatore e un calzolaio :
vedi Papanti, Dante secondo la tradizione e i novellatori, Livorno, Vigo, 1873.
pag. 61, e ora L. di Francia, F. Sacchetti novelliere, Pisa, Nistri, 1902, pag. 129.
{") Vedi Carducci, Musica e poesia del mondo eie/fante italiano del
sec. Xn^, negli Studi letterari, Livorno, Vigo, 1874, pag. 373 e segg. Poesie
musicali del mondo elegante del sec. XIV e XV, e anche del XVI, oltrecliì
nella cit. raccolta di Cantilene e Ballate del Carducci, trovansi nelle Ballate,
liispetti d'amore e poesie varie tratte da codici musicali dei sec. XIV, XV,
XVI, pubbl. da Ant. Cappelli, Modena, 1866; nelle Poesie musicali de!
sec. XIV, XV e XVI, con un saggio della musica, pubbl. dal medesimo, Bo-
logna, Romagnoli, 1868; nelle l'oesie raccolte da rodd. estensi, Modena, 1886.
e nelle Poesie musicali del sec. XIV, pubbl. pur dal Cappelli, Modena, 1871 ;
nelle Poesie musicali inedite ed anonime del sec. XIV, pubbl. da P. Ferrato.
Padova, Seminario, 1870, e a cura del medesimo in Tre lettere... e tre
poesie musicali del sec. XIV, Padova, Prosperini, 1872, e nelle Poesie musi-
cali del sec. XIV, Padova, Randi, 1873; nei Madrigali inediti d'incerti rima-
tori antichi, -pvàihl. da P. Bilancioni, Ravenna, Lavagna, 1873; in A. Zenatti.
Cinque barzellette tratte dalle raccolte musicali di Andrea Antico da Montone.
Bologna, R. tipografia 1887, e Cinque poesie musicali del sec. XVI, Firenze,
Carnesecchi, 1893; in A. Saviotti, Un codice musicale del sec. XVI (Giorn.
Stor. Lett. Ital., XIV, 234 e XIX, 446) e Mime ined. del sec. XV {Propugna-
tore, X, S. V, p. 2" (1893); in L. Gentile, XIV Canzoni musicali ined.,
Firenze, Carnesecchi. 1884; in E. Pììrcopo, Madrigalisti najioletani ante-
riori al 1538, Napoli, De Rubertis, 1887; in T. Casini, Ballate d'amore del
sec. XIII, Roma, Metastasi©, 1884 ecc. Vedi poi la pubblicazione fatta da
F. L. Valdrigiii, del Libro di canto e di liuto di C. Bottegari, Firenze.
Orlando, 1891, e quella dello Stainer, Uufag and Iris Conlemporaries, ecc..
London, Novello, 1898 ecc.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 41
gnandosi, come il nome stesso lo dice, colla danza e
col suono, illeggiadriva le ragiinate popolari, che
nell'antica Firenze pigliavano occasione dagli sposa-
lizj, (') dalle onoranze a principi ed ambasciatori, (")
e pili specialmente dalle feste del Maggio O e del
S. Giovanni. {*)
(1) In una tavola o spalliera dipinta, die conservasi in Firenze nel-
l'Accademia delle Belle Arti, si rappresentano le nozze di un Adimari con
una Ricasoli. Vi si vede la piazza e il tempio di S. Giovanni con varj
casamenti merlati, e coppie d'uomini e donne vestiti con abiti guarniti
d'oro, di perle e di vaj, die si tengono per mano in atto di danzare dentro
un recintò di panche coperto di arazzi, mentre altri stanno a riguardarli,
e i trombetti della Signoria, posti sugli scalini delle Loggie del Bigallo.
suonano i loro strumenti, da' quali cadono pennoni bianchi quadrati, en-
trovi il giglio i-osso. Sotto la loggia stanno alcuni donzelli con bacili ed
altri vasi, avviati verso casa Adimari. La piazza è tutta coperta di sopra
da una tenda rossa e bianca, che prende dalla loggia fino a via de' Martelli,
ed è sostenuta da stili ed attaccata alle mura del S. Giovanni. V. l' Osser-
vatore Fiorentino, Firenze, 18,31, voi. I, pag. 98.
('■^) Per esempio, nel sec. XV: a di 24 di febhrajo (1454) per onorare
s) degno capitano (il Duca di Calabria) s'ordinò per moìti giovani fiorentini
e' più ricchi e più gentili, un ballo appiè della ringhiera della Signoria,
verso la Mercatantia, cor uno steccato attorno ; e detto Signore stette a sedere
■in mezzo elei 10 della Balìa, e a detto ballo venono le più belle fanciulle et
giovane maritate, vestite di drappi, a danzare, e fessi magne colizioni, e andò
molto bene tutto: Cambi, Stor. di Firenze, voi. I, pag. 321. — E per la venuta
di papa Pio II: a dì 29 d'ajjrile 1459 fecesi un magnifico ballo in sul Mer-
cato Nuovo chiuso da uno steccato, e di sopra coperto di rovesci, con palchetti
attorno coperti di arazerie, e furono a danzare CO giovani fiorentini de' primi
ciptadini e de' piti opti a ballare, adornati riccamente di pierle e gioje, e molte
gentile fanciulle e giovane atte a danzare, e mutoronsi el dì molte veste cia-
scuno di qice' danzavano, e fuvi a vedere tutti i signori Imbasciadori, e parte
di Cardinali ci si trovava; e feciesi conto che tra palchi e case e in terra
fussi il dì 60 mila persone: Id., p. 369-370.
(3) Per le feste maggiaiole del 1283, vedi G. Villani, Cronaca, lib. VII,
§ 89, e per quelle del '92 lo stesso autore, lib. VII, § 132. Le feste del 1333
sono COSI descritte da altro cronista: Erano i Fiorentini, cioè gli arte-
fici, montati in superbia, che ogni dì facevano novità di feste e giuochi ed
altre allegrezze, più che a loro non si richiedea, e fecersi molte brigate: in
fra le quali conteremo due: l'iina nella Via Ghibellina, nella quale si vesti-
rono 477 uomini, tutti di giallo, e feciono loro Signore, e con cene e desinari e
spese, e ciò fu di Maggio (1333), e durò un mese. E poi ne fu fatta per S. Ono-
frio nel Corso de' Tintori un'altra di 520 uomini vestiti di bianco, con grande
armeggiare e festa, e feciono correre palio bianco ecc.: Stefani, C'i-on., lib. VII,
§ 495; cfr. G. Villani, lib. X, § 216. Vedi per le feste maggiajole del 1459,
un poemetto sincrono nel Taetini, Ecì: Italie. Script., voi. Il, pag. 721.
(*) Per la festa di S.Joanni Batista (1283)... si cominciò brigate a festa
ed a balli d'uomini e di femmine, e durò questo in vestire ed in danzare e
42 LA POESIA POPOLARE ITALLA.NA.
Figuriamoci l'approssimarsi del Maggio, O con
le strade corse da brigate di Cavalieri tutti ad una
divisa, sotto il comando del Signor dell'amore, come
cliiamavasi il capo, (") ed echeggiare di voci plau-
denti e di risa giulive le vie, le piazze, le logge: e,
sotto un cielo limpido ed azzurro, vaghe donzelle
inghirlandate dei fiori primaverili gettar melarance
dai balconi, (^) o muovere il piede alle danze. (*) La
festa durava tutta la stagione primaverile sino al
giorno dedicato al santo patrono della città: allora
la pubblica gioja toccava il colmo, e la città tutta
metter tavole ogni d) ili festa circa a line anni.... in fra' (inali furono Ol-
trarno brigala bianca, e chiamavasi la Brigata amorosa. (Stefani, Cron.,
lib. 111. § 160.
m Una descrizione delle Feste maggiaiole si trova, chi '1 crederebbe?,
nell'antico romanzo francese di Cléomaclh (voi. I, pag. 85). Un cavaliere
capita in un paese Qui ore est Toscane appelée, e vi trova usarsi grandi
feste Pour Mai/ et Gaijn honnorer: Le Mug pour sa joUreté Et le Gai/n ponr
sa piante. Descritto il convito, il poeta soggiunge: Ailont leur feste com-
menQoit, Piente d'estrumens g avoit, Vieles et salterions Harpes et rotes et
canons Et estives de Cornouaille. N'i falloit estrumens qui vaille ecc.
(") In Bologna, FeiTara, Modena ecc. si usavano fare in tale occa-
sione le Hegine di Maggio: v. Borghi, Il Maggio, ossia Feste e sollazzi popol.
ital., Modena, Eossi, 1848; Rezasco, Maggio, Genova. Sordo-muti, 1886.
v^) Rompere e fiaccar higordi e lance E piover da finestre e da balconi
Jn gin ghirlande ed in su melarance: E piilìeUette giovene e garzoni Baciarsi
nella bocca e nelle guance: cosi Folgoije da S. Gemigs^ano, nel suo Sonetto
sul mese' di Maggio.
(4; In un Cod. niagliabecli. datato del 1407 trovasi una importante
descrizione poetica delle feste di S. Giovanni, certo anteriore al cod., ove
sta scorrettissima. Eccone un brano, clie si riferisce alle donne fiorentine:
Viddi quel dì migliaja di reine: O potenze divine! E chi potrà pure contare
il sesto I)i quel ch'agli occhi miei fu manifesto ? I ricchi vestimenti a seta
ed oro. Sciamiti bianchi, azzurri e violati Con velluti adornati. Drappi d'ogni
color vidi quel giorno. I giovinetti andavan tra costoro Puliti vagheggiando
innamorati Que' visi angielicati. Che fan di mesa notte un chiaro giorno. Io
mi vùlgea d'intorno. Che mi pareva essere in Paradiso ; Or l'uno or l'altro
viso Miravo, come io fosse inamorato. Vidimi inamorato mille volte, Che l'una
più che l'altra mi piada. Piene di cortesia Parevan tutte, e saziar di vederle
Xon mi potea, che mi pareano perle. Sopra le bionde trecce avean corone E
ghirlande preziose; Gigli, viole e rose Parevan tutte negli ornati visi. Tu
non avresti detto: son persone. Ne' lor costumi angeliche e vezose. Soavi ed
amorose, Anzi parevctn mille paradisi ecc. L'intero componimento fu da me
pubblic.ito per nozze nel 1882: indi riprodotto con altri nel libro del Guasti
che qui sotto citiamo.
LA POESIA POPOLARE ITALLVXA. 43
era adornata a festa solenne, come sposa che si
metta i più vaghi e ricchi monili e le vesti più
suntuose. Q)
A questi spettacoli di schietta bellezza e di
gioja espansiva ispiravasi il poeta fiorentino; e il
suo canto era gentile come le donzelle che con
onesta baldanza e sicure dell'onestà propria allieta-
vano di danze la Città dei fiori, ed appassionato
come i garzoncelli, che col liuto misuravano le
cadenze o si gittavano ne' rapidi giri del ballo. In
questi épettacoli il poeta purificava quasi se stesso,
e la parola ch'eì volgeva a cuori giovani e casti, e
inconsci delle amarezze della vita, prendeva nuova
delicatezza ed eleganza di forme. Dante intonava
allora la sua gentil Ballata della ghirlanda:
Pei' una ghirlandetta
Ch'io vidi, mi fava
Sospirar ogni fiore.
Vidi a voi, donna, portar ghirlandetta
A par di fior gentile,
E sovra lei vidi volare in fretta
Un angiolel d'amore tutto umile,
E 'n suo cantar sottile
Dicea : Chi mi vedrà
Lauderà il mio Signore.
S'io sarò là dove un fioretto sia
Allor fia ch'io sospire:
Dirò: La bella gentil donna mia
Posta in testa i fioretti del mio Sire.
Ma, per crescer desire.
La mia donna verrà
Coronata da Amore.
Di fioj le parolette mie novelle
Han fatto una Ballata:
(1) Vedi ciò cbe dicono Goeo Dati, Istoria di Firenze, 1736, pag. 84: il
Cambiaci, Memorie istoriche risgnardanti le feste di S. Gioraii Battista,
Firenze, 1766; ed il Guasti, Le feste di S. G. B., Firenze, Loesclier, 1884.
44 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
Da lor per leggiadria s' hanno tolt'elle
Una veste, ch'altrui non fu mai data;
Però siete pregata,
Quand'uoni la canterà,
Che le facciate onore.
Cos'i il popolo educava il poeta a gentilezza di ispi-
razioni, e il poeta ravvivava l'arte nelle fonti perenni
del sentimento popolare. Se non che, come accade,
il popolo facendo sue queste canzoni, le modificava:
e ne sia prova questa di Dante, che, smozzicandola
nei versi di lunga misura, veniva recata a quest'altra
lezione :
Vidi a voi, donna, portare
Ghirlandetta di fior gentile,
E sovra lei vidi volare
Angiolel d'amore umile.
E nel suo cantar sottile
Dicea : Chi mi vedrà
Lauderà il mio Signore.
S'io sarò là dove sia
Fioretta mia bella e gentile,
Allor dirò alla donna mia
Che porti 'n testa i miei suspiri:
Ma per crescere i desiri
Una donna ci verrà
Coronata dall'Amore.
Le parole mie novelle
Che di fior fatto han ballata,
Per leggiadria ci han tolt'elle
Una veste ch'altrui fu data.
Però ne siate pregata
Qual uom la canterà.
Che a lui facciate onoro.
Qua e là il senso è guasto ; ma non è proprio, diremo
col Carducci, (^) il caso del fabbro di Porta S. Piero
della novella del Sacchetti? E se qua e là si smar-
(1; Cantilene e Ballate ecc., pag. S2.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 45
risce il significato della parola, resta di essa il suono
a carezzare l'oreccliio dei cantori e degli ascoltanti.
Né la città soltanto, ma anche il contado aveva
le sue feste, i suoi canti, i suoi balli. Celeberrimo
fra questi ultimi doveva essere quello che sapeva
così bene ballare la Belcolore di Yarlungo, secondo
ne attesta il Boccaccio, (^) o che accompagnavasi a
parole. Un anonimo possessore della ventisettana,
vissuto nel secolo decimosesto, udiva e vedeva tut-
tavia cantare e ballare L'acqua corre alla horrana,
non molto lungi da Varlungo; e sui margini del li-
bro ne lasciava ricordo in questa forma: " Io udì'
cantare a Rovezano l'anno 1552 quella canzone di
che fa menzione il Boccaccio, che comincia L'acqua
corre alla borrana, la quale è questa appresso, et
cantasi nel modo ch'io dirò. Cantasi in ballo tondo,
dove sia ugual numero di uomini et di donne di-
sposti un uomo et una donna, et colui che la impone
comincia così, nel tuono di quella canzone che voi
potete aver sentita: Quanti polli è in sul pollajo:{^)
L'acqua corre alla borrana,
Et l'uva è nella vigna:
alias :
Et fa tremar la foglia, (^)
(1) Vecam., Vili, 2.
'-) Su questa antica Canzone, ajipartenente a un antico ginoco e
ballo fanciullesco, tuttora in uso, vedi F. Novati, Madonna Pollaiola, in
Ardi. Tradiz. popol., IV, 15.
(3) Nel cod. ricard. 2849 è cos\ riferita:
Casca l'acqua dalla fontana
E fa tremar la foglia,
E fa tremar la foglia.
" Il mal villan gli chiese da bere,
E doglien io, madonne.
Non gliene dare.
Pali arrabbiare.
Fallo morir di doglia:
vedi S. Ferrari, Cam. ricordate dal Btanchino (estr. dal Giorn. di Filoloy.
liomanza, I, 48).
46 LA POESIA POPOLARE ITALIAlsA.
elle COSI diversamente da due diverse persone la
sentì' cantare. Ripetonsi per le persone del ballo
questi due versi nel medesimo tuono; et così detto,
colui clie impone si parte dal lato suo, et va a quella
donna che gli è da man ritta, et presala per la man
manca la leva dal lato suo, dicendo nel medesimo
tuono:
Et mio padre mi vuol gran bene,
Et datemi questa figlia.
Et ritornasi con essa nel lato suo, mettendosela da
man manca, et el ballo ripete : L'acqua corre alla
horrana etc. Et tante volte fa così, che egli leva
tutte le donne del lato loro et mettele da man
manca, in modo clie l'ultima è quella che gli resta
da man manca come prima, et così si trovano tutte
le donne da una banda et gli uomini dall'altra: et
allora muta parole, dicendo pur nel medesimo tuono:
Questo ballo non sta bene,
Et io ben lo veggio.
Le quali parole si ripetono per il ballo nel suono
detto, et dipoi colui che impone seguita pur nel
tuono:
Et tu N. . . . compagno mio,
Vanne allato al tuo desio
Et quivi ti sta fermo.
Et facendo dare una volta a colui, che egli tiene
con la man destra, lo lascia andare, et colui se ne
va, et trameza due donne dove gli pare, e il ballo
intanto replica:
Questo canto non istà bene ecc.
Et così fa tante volte, che gli uomini tramczono
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 47
tutte le donne, e tornono un uomo et una donna,
come erano prima; et finisce la Canzone „.(^)
IV.
Di allegre canzoni sonava, adunque, l'antica Fi-
renze entro il cerchio delle mura e tutt'all'intorno;
ma qui debbesi notare come non fossero soltanto
canti d'amore e di lieta vita ; bensì anche, secondo
conveniva a città la quale reggevasi a Comune, non
pochi prendessero argomento dalle pubbliche fac-
cende. Fu detto in altri tempi che la Francia era
una monarchia assoluta, temperata da canzoni; po-
trebbesi dire, anche con egual ragione, che Firenze
fu un Comune nel quale la poesia era uno dei pub-
blici poteri. Non avvi, invero, fatto importante alla
vita esterna od interna di Firenze, a proposito del
quale non si udisse la voce della poesia popo-
lare, per incitamento o per rampogna, per lode o
per biasimo. Ognuno comprende fìicilmente che di
poesie di tal fatta, per le stesse ragioni dell'esser
loro e della loro vita fuggevole, assai poche possano
essersi sottratte alle ingiurie del tempo e all'incu-
ria dei contemporanei e dei posteri : ma pur tante
ve n'ha, come delle consimili già accennate appar-
tenenti ai primordj della nostra letteratura, che ba-
stano a chiarirci in proposito: e cominciando da
quella Canzone popolare, che già ricordammo, e che
\
(1) Pubbl. da A. MussAFiA nel Propugnatore, I, 231. Una lezione di
poco variata, trovasi nella Raccolta mouekiana-biscioniana della Bibl. di
Lucca, e si legge nella cit. op. del Carducci, pag. 60. Ma ora vedasi E. Al-
Visi, Canzonette antiche cit., pag. 19.
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_ni!f- TTÌ?-'^ ;
c3u3i"Li ii 5 : : lite. 5^sa: piùsnùr
rr^Lé. _ nn_
50 LA POESIA POPOLARE ITALIAXA.
sentire la sua voce entro le mura del Palagio, si
mette a cantar sott'esso; e atterrito dai mali che
sovrastano alla patria, invocata per sua Musa la
gloriosa Vergine Maria, fa sue scuse ai reggitori, ma
non tace quel che sul conto loro e delle pubbliche
faccende corre sommesso di bocca in bocca nelle
botteghe e nei fondachi di Mercato vecchio e di Ca-
limara :
Signor, pogiiàm ch'i' sia di vii nascenza,
r pur nacqui nel corpo di Fiorenza,
Come qual c'è di più soffic'ienza:
Onde '1 mi duole
Di lei, considerando che esser suole
Tenuta più che madre da figliuole ;
Oggi ogni bestia soggiogar la vuole
E occupare.
Ma perchè '1 no' m'è lecito parlare
Dove avre' luogo quel ch'i' vo' contare,
Dirò per rima che mi par da fare
A questo tiatto.
Dico, clie pacie né tricgua né patto
Con Pisa non se facia a néun atto.
E conclude:
So ben, Signori, ch'i' ò fatto fallanza:
Ch'un semplic'uom, coni' io, pien d'ignoranza
Non de' consiglio dare a comunanza
Sì verace ;
Ma poi che volontà mi fé' fallace,
11 Salvatore, in cui tutto ben giace,
Tosto vi dia vittoriosa pace
Al vostro onore. (')
L'opinione cosi espressa in facili versi si farà strada
0 giungerà alle orecchie di chi ne potrà far suo
vantaggio.
") Semi intese xlorico di A. Pucci per la guerra di Firenze con Pisa,
da me stampato per Nozze Paoli-Martelli, Livorno, Vigo, 187(5.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 51
Altra volta " volendo Antonio Pucci consigliare
il Comune per cierte cose ch'apariano per prestanze
e seghe, e per aparecliiamento d'oste „, così can-
tava nel Novembre del 1346:
De, vero Salvator, fìgliuol di Dio,
Couciedi grazia a lo 'iitelletlo mio,
Ch'i' sappia e possa dir quel ch'io desio
Col core acieso,
Per modo tal clied io non sia ripreso.
Ma volentier da tutta giente inteso:
e segue proponendo quale, in simili frangenti, era
al parer suo il miglior consiglio. Ma più lieto è il
suono del Sermintese pucciano quando ei può can-
tare le belle donne che rifioriscono Firenze, (^) o
esaltare le novelle imprese, per le quali si amplifica
il dominio del Comune. Tale è la canzone fatta
" quando i Fiorentini comparare Lucca da Messer
Mastino „ :
Spero che '1 giglio di Fiorenza avanzi,
E di vittoria far nuovi romanzi :
o quando nel 1337 Messer Piero Rosso ebbe vittoria
a Padova:
A morte e struggimento de' tiranni,
Che consumati ci anno già è più anni: {-)
o quando, finalmente, lasciato il solito metro, e in-
tonato quello della fiorentina ballata, inneggiava,
cacciato il Duca d'Atene, (^) alla cara libertà:
(!■) Semi httei-e per i-iioi'ilo de le belle donne ch'erano in Firenze ntl 1345,
■da me stampato nella Vita Nuova, ediz. 12', libr. (Galileo, 1884, pag. 47.
(2) Sermini'Sae del Pucci stampato ila P. Ferrato per le Nozze Fadelli-
Alberti, Padova, Prosperini, 1874.
(3) Stampata da U. Paoli neWArch. Storico, serie III, tomo XVI, 1872,
in seguito all'articolo: Nuovi Ducumenti intorno a Gualtieri di Brienne. E
vedi A. Medin, // duca d'Atene^iella poenia contemporanea, Bologna. Fava
« Garagnani, 1890 (estr. del Propugnatore, N. S., 111).
52 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
Viva la libertà
Ch'à rinfrancato il Coniun di Fiorenza ! (^)
Quanta parte avesse la poesia nel reggimento
politico di Firenze (^) anche nel secolo decimoqninto,
due fatti specialmente dimostrano: l'uno del 1426,
quando Niccolò da Uzano, prevedendo nella rovina
degli ottimati ond'era capo, quella pure delle istitu-
zioni che fin' allora avean governato e mantenuto
la Repubblica, e temendo soprattutto il sormontare
della ge.nte nuova, plebei arricchiti o nuovi alle ca-
riche dello Stato, per muover l'animo della moltitu-
dine in favor suo, anziché con acconcia orazione, in-
fiorata de' fiori rettorie! che i tempi avevan rimesso
(i) Delle poesie politiche e storicbe del Pucci fu ancora stampata
lina Canzone di Antonio Pucci ai Lucchesi, per nozze Giaiinelli-Tesini.
Lucca, 1868, da Eurico Ridolfì. Tutte queste rime furouo da me copiate
di sur uu codice sincrono, appartenente già al cav. Seymour Kirkup, adesso
passato in Inghilterra. Per cura mia o di miei amici, ai quali ne diedi
copia, sono dunque a stampa cinque di queste poesie, pcrcliè quelle che
riguardano il Duca d'Atene sono due: le rimanenti furono date al dottor
S. Morpurgo. che mise a stampa finora quella soltanto de la mortalità die
fu in Firenze nel 1348 (Firenze. Carnesecchi. 18S41; le altre saranno pub-
blicate quando che sia.
(-; E non di Firenze soltanto. Per es. a Viterbo nel l-i;ìl si cantava
contro Giacomo da Vico: Oninf pensiero falla Al Prefetto superì>o Volea liis-
far Viterbo, Or si lolla Vefi-alla: 1. Ciampi. Cronache della città di ì'iterho,
Firenze, Vieusseux, 1872, pag. 119. A Venezia nel 1494 sì cantava contro
l'Estense: Marchese di Ferrara, Di la casa di Magaiìza Tu perderà '1 stado
Al dispello del He di Franza: M. Sanudo. La spedizione di Carlo VIIT,
Venezia, 1873, pag. 485. Forse sono brevi motti rimati, ma forse anche
principj di vere e proprie canzoni, com'è il caso di certi versi ricordati da
G. Cavalcanti (Istorie fiorentine, Firenze, 1838, I, 332), quando nel 1430
nella guerra contro Lucca " per li nostri male ammaestrati figliuoli per tutta
la città si cantavano: Ave Maria, grazia piena, Auto Lucca acremo Siena,
e altri cantavano: Guarii Siena Chi Lucca triema „ ; ma il Rossi nella liist.
suor. temp. (lìer. Hai. Scri2>t., XX, 29), afferma che: i Senesi st.avano in so-
spetto cum audirent Cantilenam qiiandam per Florentiam vulgo decantari,
qua, post captam Lucani, Senus etiam se pelituros esse jactahant. A questi
tempi e a questi fatti appartiene la Canzone de' Meucci di Siena, in lode
del Marzocco e in obbrobrio della Lupa, stampata da F. Novati e F. C. Pei.-
LfXJRiNi, in Poesie polit. popol, dei sec. XV e XVI, Ancona. Morelli, 188.").
(Questa è la prima delle tre raccolto in codesto libretto : la seconda è contro
Bartolomeo Colleoni, dopo la rotta di Molinolla del I4G7: la terza, dei primi
del sec. XVI, è a gloria del Leone di S. Marco.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 53
in voga, manifestò i suoi timori e diede i suoi con-
sigli in certe terzine, che fece di nascosto affiggere al
palagio della Signoria. (^) La quale mandò un bando
che chi ne svelasse l'autore, ne riceverebbe un premio
di cento fiorini d'oro. O L'altro fatto è questo: che
nel 1441, per ristorar la città dei danni sofferti e
delle angustie provate durante la guerra col Duca di
Milano, gli ufficiali dello Studio, per consiglio di Leon
Battista Alberti e di Piero di Cosimo de' Medici, ban-
dirono un torneo poetico, sul tema della vera amicizia,
e il luogo ove recitaronsi i componimenti fu la chiesa
di S. Maria del Fiore, presenti la Signoria, l'Arci-
vescovo, l'Ambasciatore di Venezia, i segretarj e
prelati del Concilio, allora adunato in Firenze: e
premio al più valente poeta fu una corona d'argento:
onde la prova venne detta certame coronario. (^)
Ma noi dobbiamo ricordare soltanto le poesie ve-
ramente popolari: e a dimostrare l'efficacia di questa
forma e la sua importanza nella vita pubblica del
Comune, faremo menzione di ciò che avvenne nel-
l'anno 1420. Trovavasi allora in Firenze il pontefice
Martino Y, eletto nel Concilio di Costanza. Egli
attendeva in Fireuze che lo Sforza gli sgombrasse
C) A Siena il luogo dove si appiccavano simili scritture in versi,
esprimenti un'opinione comune o che voleva diventar tale, era la loggia
degli Uflfiziali della mercanzia: vedi Sozzini, Diario, Firenze, Vieusseux,
1842, png. 89 e 92. Anche A Genova si affiggevano, come si vede da questa
aggiunta ad una poesia del 1477 di argomento politico: Fittis. Chi mi leze
ine lassa stare Azio che x^ossa essere exemplata : vedi De Simoni, Tre Cantai i
(lei set: XV e Xf'I concernenti fatti di storia genovese, Genova, Tip. Sordo-
Muti. 1876, pag. 25.
(2', I versi drfl" Lizzano sono stampati neir,4)-c-/;. Storico, voi. IV, pa-
gina 297.
(3) Le mediocri poesie del Certame coronario si trovano in moltissimi
codici delle Biblioteche fiorentine, in numero di otto; e furono stampato
dal Bonucci, nelle Opere rolgari di L. B. Alberti, Firenze, Galileiana, 1844.
voi. I, pag. CLXVII e segg. Vedi in proposito del certame, F. Flamini, La
lirica toscana del liinascimento ecc., Pisa, Nistri, 1891, pag. 3, sgg.
54 LA POESIA POPOLARE IT ALLENA.
il cammino di Eoma, e gli assicurasse il possesso
della sua sede, combattendo il fortunato avventu-
riere Braccio da Montone. Lo Sforza riuscì nell'im-
presa, e Braccio si sottomise al Pontefice, cui venne
a prestar ossequio in Firenze, antica amica sua e
collegata. Ma l'animo del popolo si voltò contro il
Pontefice, quando ammirò da presso la magnificenza
e il valore del soldato perugino nella giostra da lui
ordinata sfarzosamente, e dopo clie già, con senti-
mento di simpatia alla sventura, eransi viste le
genuflessioni del deposto pontefice Giovanni XXIII
ai piedi del suo avventurato successore. Di questi
sentimenti popolari fu eco la canzone, che i Fiorentini
" andavano cantando dì e notte per tutta la città ,. :
Papa Martino, Signor di Piombino.
Conte de Urbino (') non vale un quattrino:
Ah ah ah ah;
Ptrazo valente, nostro parente.
Itonipe ogni gente, ah ah ah ah. (")
Il Pontefice, che sentivasi echeggiare agli orecchi
la molesta cantilena, se ne crucciò tanto, che la Si-
(1) Il sijj;nor ili riombino era .Iacopo d'Appiaiio marito a Paola so-
rella del Papa: il Conte di Urbino, Giiidantonio, gran fautore del Pontefice,
aveva da lui ottenuta ai 2Ò di aprile del 1420 una bolla d' investitura degli
stati fi'ltresclii ; e nel febbraio si era condotto a Firenze, dove, a interces-
sione del papa e della Signoria, si era rappaciato con Braccio.
(-} Minuti, Vita di Muzio Sforza, edit. dal Porro, nella Mixcelìanea
tli Storia Italiana, Torino, Stanip. Reale, voi. VII, pag. 246. Il CAjrrANo.
ì'ita Brachiì, lib. IV, cosi dice: Quae res (la giostra) adeo r/rata fitit po-
pn/o fiorentino, adeoque visu gloriosa, ut nihil in orn ODiniuni allud guani
ìinus Brachius versaretur. Illiim interdiu per iirhem ìinivemi comifari, illuni
domi taciti ac fere attoniti sufpicere. Noitii carmina per urbem ceteris igno-
miniosa, illi laudem dicentia canebaniiir. Primo noctix adi'entii pueri jnvenes
et ipsae ante sua liniina mnlieres liaec ad li/ram rarneirrn^; Bracbius invictus
omncm debellai gcnteni; Martinus Papa non valet qnadrantem. Mnltis in
locis liaec eadem parietibìis inscripta, nec praeconiis snepe factin parehatirr.
Quod adeo J'onlificis offendi! animimi, ut saepe postea Florentinis qnadran-
tem exprohraverit, cnpitaleque in eos conceperit odiiini: in Jì'er. Italie. Script.,
voi. XXX, pag. 565.
LA POESIA POPOLARE ITALIAXA. 55
gnoria dovè mandargli Bartolommeo Valori, " per
veder di mollificare questo sdegno, con dire che il
Senato non pnò tenere che altri non componga Can-
zoni, 0 che a' fanciulli non torni bene cantarle per
le strade, per infinchè a lui ne venga certa notizia,
e sia sicurata che ella ferisca direttamente l'onore
di un principe: ma che Sua Beatitudine poteva esser
sicura, che simili baje erano seguite tra la sfrenata
plebe solamente, e contro ogni intenzione della no-
1)iltà „. (^) Kon pertanto il Pontefice, irritato, fulminò
l'interdetto, che però tosto venne levato " per non
dare alterazione alla città ,. ; (") ma l'animo suo ri-
mase esacerbato contro i Fiorentini. Io ricordo, dice
Leonardo Aretino segretario della repubblica, " io
ricordo che non molti giorni innanzi alla partenza,
io fui nella sua cameretta con pochi suoi famigli.
Passeggiava egli dalla biblioteca alla finestra che
guarda gli orti, e dopo aver fatto alquanti passi
tacitamente, si volse a me e fattosi vicino, sporgendo
verso di me il volto e il braccio mi disse: Papa Mar-
fino non vale un quattrino. ' Riconoscendo io subito
([uesti versi della cantilena volgare che di lui ripe-
tevasi: e che?, risposi, dunque pervennero alle tue
orecchie queste ciance di monelli? Ei non replicò
lìulla: ma fermandosi novamente soggiunse: Fajxc
Martino non vale un quattrino! AUor a. io, vedendo qual
fosse la disposizione dell'animo suo, poiché sempre
replicava le parole che di lui cantava il volgo, cercai
se potessi rimediare al ferito onore della città „ : O
e con un forbito discorso s'ingegnò di placarlo.
(1) Della Robbia. Vita di B. Valori, in Arch. Slot:, voi. IV, p. I, pag. 2^4.
(2) Cambi, Istorie, voi. I, pag. 149.
(3) Commeiitfiriiis, in Ber. Hai. Script., voi. XIX, col. 931. Cfr. Vesp.
DA Bisticci, Vita di Lionardo d'Arezzo, § III e IV. Ivi è la variante: non
vale un lupino.
56 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
Nello stesso temiDo, e mentre in Consiglio trat-
tavasi del come piegar a benevolenza l'animo offeso
del Pontefice, veniva cavata fuori in Firenze un'" al-
tra Canzona da fanciulli, che in sostanza conteneva,
die nella città erano tre famiglie, alle quali stava
bene il Governo, assegnando il primo luogo a' Va-
lori, il secondo a' Guadagni, e il terzo a' Guicciar-
dini „. (^) NuH'altro sappiamo di questa canzone, oltre
il ricordo lasciatone dal biografo di Bartolommeo
Valori; e medesimamente solo i due primi versi ci
restano di una canzone che, probabilmente verso
il 1426, correva per Firenze, sui fatti della guerra,
allora combattuta in Lombardia. Noi li troviamo
in un Codice, dove son riferiti soltanto per indicare
l'aria, sulla quale va cantata una Lauda spirituale:
Chi vedesse il Conte Caiinignohx
Cavtalcar per lo bresciano. (')
Né per altro modo argomentiamo l'esistenza di altre
canzoni politiche di questo tempo o di quello imme-
diatamente successivo, delle quali il capoverso viene
rammentato, in servigio della intonazione musicale,
nelle Raccolte di Laudi. Tali sarebbero quella che
dice:
Se mai lo Viceré viene in 'sta terra;
l'altra:
Signor nostro da Pavia;
e
A cavai a cavai, Pavia Pavia;
e il Canto deW Imperai ore, e qualche altro. O
(1) Cit. voi. àdWArch. Ulor., pag. 2G1.
(2) Cod. magliabcch. VU, 367.
(3) Mettiamo in Appendice ima Tavola dei capoversi di Canzoni clie
si ti'ovano nelle Raccolto di Laudi, perchè serva a dar un'idea della ric-
chezza di questo genere di poesia, per la maggior parto perduta, o se-
polta nei Codici.
LA POESIA POPOLARE IT ALLENA. 57
Per quel grande avvenimento, che fu nel 1478
la congiura de' Pazzi,, la musa popolare non restò
muta, benché solo un frammento di Canzone ci sia
rimasto, per opera del diarista Luca Landucci. I
monelli fiorentini dissotterrarono la spoglia di mes-
ser Iacopo de' Pazzi, che era stato impiccato sopra
la ringhiera di Palazzo, la strascicarono per tutta
la città, e poi la gettarono in Arno; " e levorono
una Canzona, che diceva certi strambotti; fra gli altri
dicevano: riesser Iacopo giù per Arno se ne va „. (^)
Ma il tempo nel quale maggiormente imperò in
Firenze la canzone popolare, e maggiormente tro-
vossi congiunta colle vicende storiche e coi tumul-
tuosi avvenimenti del Comune, fu quello in che pre-
dicò il Savonarola e aspramente si combatterono
nella città le fazioni dei Piagnoni e dei Compagnacci.
Entro il tempio " i fanciulli cantavano Laudi con
tanta dolcezza, che pareva si aprisse il Paradiso.
Pel contado non si udivano pili Rispetti e Canzone
e vanità, ma Laudi e Canti spirituali, che a quel
tempo in gran copia si componevano, cantando alle
volte insieme a vicenda da ogni banda della via,
come -usano i frati in coro, mentre lavoravano in
somma letizia „. ("j II Benivieni dettava versi che i
Piagnoni cantavano tenendosi per mano; e, ballando
intorno al rogo delle ixinità, ripetevano a squarcia-
gola, invasati dal furore della sacra pazzia:
Non fu mai più bel sollazzo
Più giocondo né maggiore,
Glie per zelo e per amore
Di Gesù divenir pazzo :
(V Diario fiorentino, piibb. da I. Del Badia, Firenze, Sansoni. 1S83,
png. 21.
(-) BuELAMACCHi, Vita del Savonarola, Lucca, 1T6L pag. 87.
58 LA POESIA POPOLARE ITALLIXA.
Ognun grilli coni' io grido,
Sempre pazzo, pazzo, pazzo.
To' tre once almen di Speme,
Tre di Fede e sei d'Amore,
Due di Pianto, e poni insieme
Tutto al fuoco del Timore,
Fa' dipoi bollir tre ore ;
Premi in iìne, e aggiungi tanto
D' Umiltate e Dolor, quanto
Basta a far questa pazzia.
Intanto nn Girolamo Muzi faceva affiggere alle porte
di S. Maria del Fiore e a quelle del Palagio una
sua Frottola in vitupero del frate:
0 popolo ingrato.
Tu ne vai preso alle grida,
Et drieto ad una guida
l'iena d'ipocresia...
In lui non è bontà
Se non di borbottare,
Et graffiare ogni altare
Et battersi la bocca, (^)
E di rimpallo i Piagnoni:
Voi ridete, e con sonetti
Dispregiate il divin Verlio,
Ma 'spettate il dnro nerbo
Che le spalle vi rassetti.
Su, mosconi, a scompigliare.
Scarafaggi, a vostra stalla:
Calabron che siete a galla
Fate i vizj un po' svegliare.
Ma sappiate che inai falla
Tja instizia col snp(ilicio. (-)
(1) PnbW. dal Passerini, Ginm. Stoi: Avch. Tonc, voL II (1858\ pag. 80.
TI Nardi, Storia di Firenze, Firenze, Le Mounier, 18.5S, voL I, pag. 104,
)icor(La molti Sonetti e Canzoni e Pi-stoìe invettive e siniil coae, latine e vol-
t/ari, in vituperio del Frate e della sua dottrina.
(-) Vn.i.ARi, Storia di Girolamo Saronarola" Firenze, Lo Monniov, 1887,
voi. I, pag. <!■}'^^
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 59
Processionalmejite incedevano i devoti cantando la
Landa del Benivieni :
Viva ne' nostri cuor, viva, o Fiorenza,
Viva Cristo il tuo re;
e il brnciamento delle raìiità nel Carnevale del '97
e del '98 lasciava memoria di sé in Canzoni popolari,
in nna delle qnali si raccontava di Carnesciale " fng-
gente con nn asinelio carico di sna masserizie e col
fardello in spalla „, e a chi lo interrogava:
Dove è Giove, Jiino e Marte,
Vener bella tanto adorna?
Bacco stolto con le corna.
Che solea cotanto aitarte ?
egli rispondeva piangente:
Son prostrati in terra tutti :
Croce Rosse e Viva Cristo
Hanno fatto nn tale acquisto
Ch'kn disperso i nostri frutti.
Disprezzare ognor m'ho visto
Per un certo Re maggiore,
Onde mosso dal dolore,
Vonne a Roma che mi crede....
Da Fiorenza maladetta.
Glie m'ha fatto quasi frate,
E pel snon delle granate
Fuggo a Roma benedetta.... (')
Ma poco appresso la piazza della Signoria in illn-
minata dal bagliore di altro fuoco, e i segnaci del-
l'arso profeta sommessamente e nel silenzio delle
mura domestiche o negli oratoi'j deserti, ripetevano
la mesta Canzone :
La Carità è spenta.
Amor di Dio non v'è....
(1) Canzona d'un Fiagiione jiel hr ne la mento delle Vanitti, ecc. Firenze,
Dotti, 1804.
60 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
Che debbo dir, Signore,
Se non gridare: ohimè!
Oliiniè, che '1 Santo è morto,
Ohimè, Signore, ohimè.
Tu togliesti il Profeta,
11 qual tira.sti a te.
0 Geronimo santo,
Cho in ciel trionfo se',
Tra le tue pecorelle
Entrato il lupo gli è.
Ohimè, soccorri presto,
Ohimè, Signore, ohimè. (')
Ma la fazione vincitrice gavazzava, e il Nardi, in-
tegerrimo cittadino e storico, ricorda con sdegno
le " molte vituperose Canzoni, che inlino dalle fem-
mine ne' balli e da' fanciulli di giorno e di notte erano
cantate in dispregio del Frate e de' Piagnoni, ed
eziandio di tutti i Ferraresi: della qual cosa avendo
querela alla Signoria l'ambasciatore di Ferrara, fu
il compositore castigato dalla Signoria in pili tratti
di corda e d'un confine „. (")
Spigolando negli storici e nei cronisti altre men-
zioni potremmo rinvenire, che farebbero al caso no-
stro. Così Benedetto Varchi racconta che, essendo
tornato in Firenze il cardinal de' Medici, futuro papa
Clemente VII, un adulatore, Luigi della Stufa, gli
(1) Pubblicata (Ini Biiidi no' liicoriìi liìologiti e LelterarJ, Pistoja,
1847, 11. 2.
(-) Ediz. cit.. voi. I, pag. 132. — Alle vicende di Firenze in questo
scorcio del scc. XV, e precisamente alla ribellione e guerra di Pisa, ap-
partengono le poesie di metro vario — ottave, sonetto, canzoni a rigoletto,
frottole — pn))blicate da T. Casini per nozze Zenatti-Covacieh (Firenze.
Carncsecclii, 1888), piene tutte di livore contro la città rivale, e se non
per Torigine, popolari certamente per la loro dift'usione. Una di esse co-
mincia: Ogniun venghi con diletto A udir cantar di Pisa, Ch'io ne scoppio
dalle risa Del suo pazzo e van concetto ; e termina: Canzonetta, cerca a tondo
Ogni stato e signoria: Di' che Pisa è andata al fondo J'er la sua cieca paz-
zia : Gli anz'ian della /tedia Tutti sono andati a bere. Chi di Visa vuol pia-
cere Canti questa a rigoletlo.
LA POESIA POPOLARE ITALL\XA. 61
mostrò un pane bianco che vendevasi a' fornaj quat-
tro quattrini, affermando che pili di due non co-
stava; " certa cosa è, che i fanciugli sparsi per
Firenze a tal voce gii levarono subitamente addosso,
secondo il costume loro, una Canzone, ne a patto
veruno tenere si potevano, che eglino per tutte k;
vie andassero cantando queste parole, così da loro
in rima poste :
Messer Luigi della Stufa
Ha fitto il capo in una buca,
Il qual non ne può nscire
Se il gran non vai tre lire „. (')
E il Busini scrive al Varchi come nel '27 quando
uno dei Da Diacceto, detto il Cicala, uccise uno dei
Gherardini, soprannominato // Gracchia, si cantò per
Firenze una Canzone che cominciava:
Il Cicala ha morto il Graccliia. (-)
Stampe rarissime del tempo ci conservano Can-
zoni in lode dei Medici e della loro insegna: questa
ad esempio che si riferisce ai fatti del 1512 :
Sempre Palle, e Lega lega
Ciascun gridi con gran festa;
E nessun non faccia testa,
Canti ognun con faccia allegra.
Palle palle su cantiamo,
Palle palle ciascun canti,
Grandi, piccol, tutti quanti
Tutti Palle su gridiamo ecc. (^)
(1) Vabchi, storie fiorentine, Firenze, Le Mounier, 1857, voi. I, p. ù8.
(-) Lettere, Firenze, Le Monnier, 1861, pag. 71.
(5) Sonetti e Capitoli in lode della inclita casa de" Medici, nuovamente
composti. — Fece stampare Maestro Zanobi della Barba. Vi è unita un'altra
Canzone che comincia: Son le ptille sì hcdzale, e uno Strambotto, non che
altre rime di forma letteraria.
62 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
La seguente invece, che pare l'urlo di un energu-
meno, dovè esser composta poco appresso, quando
Giovanni fu eletto papa col nome di Leone :
Palle, Palle, viva, viva,
Grida il mar, la terra, il cielo,
Venga ognun con pronto zelo
A dir Palle, e viva, viva.
0 soave e lieta insegna
Ben girò la ruota a sesto !
Qual fu mai casa più degna ?
El suo nome è manifesto.
Tutto '1 mondo oggi s'è desto
A dir: Palle, e viva, viva....
Palle, Palle, Palle, Palle,
Grida ognun giovine e vecchio ;
Rosse sieno e non più gialle,
Del lion fortezza e specchio;
Rintronar sento ogni orecchio
Nel dir: Palle, e viva, viva.
Tante volte ho Palle detto
Che alla fin tornonno a galla :
Balzan oggi per diletto,
Per letizia ognun traballa:
0 felice e grata Palla,
El tuo nome eterno viva !
Poi che '1 ciel le Palle onora
Sia quest'arme universale ;
Palle, palle drento e fuora,
Sopra gli usci, acquaj e scale;
Chi l'ha sperse per suo male
Le rifaccia, e gridi viva. (')
Che durante l'assedio, in quella grande commo-
zione degli animi uniti in un solo pensiero di carità
patria, tacesse la musa popolare, non possiamo cre-
derlo, sebbene il Varchi senil)ri alludere soltanto a
(1) Trovasi questa Caii/.uiio in lino del rarissimo libercoli): CK^tellunus
de Caslellanis ì. dottor, In laudibiis Auiictiòn. p. Leonia' de Medìcis noviler
creati.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 63
poesie letterarie quando ricorda che " in varj luoghi
da diverse persone dotte molti versi componevansi,
COSI latini come toscani, parte in lode della città, e
parte in biasimo del pontefice, i quali non è neces-
sario che quivi si pongano altrimenti „. Q) Ma so
di queste rime eulte, che secondo lo storico sareb-
bero state in gran numero, oltre il primo verso di
due sonetti di Salvestro Aldobrandini, altro non ci
resta salvo un sonetto di Veronica Gambara, per
non dire di altro sonetto del Casa e delhi vitupe-
rosa Canzone di Claudio Tolomei all'Orange, non
in lode ma contro la magnanima città; non devo
far meraviglia, che le Canzoni nate fra il popolo
sparissero dalla memoria, quando i vincitori infello-
nirono sì crudelmeiìte sui vinti.
Del resto, in quell'età di grandi connnovimenti,
di nuovi ed inopinati casi, di sciagure pietosissime,
che corre tra la calata di Carlo Vili C) e l'assodarsi
del dominio spagnuolo in Italia, non in Firenze
soltanto, ma in tutta la penisola, la Canzone popo-
lare fu bene spesso di politico argomento. Se d'al-
tronde noi sapessimo, ce ne darebbe certezza, chi il
crederebbe?, Gonzalo Ferdinando d'Oviedo nella sua
Naturale et generale N/storia delle Indie a' tempi no-
stri ritrovate. (^) Il quale parlando delle Ballate degli
(1) Storie, ediz. cit , voL II, pag. 203.
(2) A questi tempi appartiene un mottetto Litino, musicato dal Com-
pere: Quis numerare qiieat Belìoruin praeha sacra, che secondo lo storico
della musica Guglielmo Anibros si riferisce alla calata di Carlo VIII;
"quando l'Italia, stanca per la vergognosa guerra invocava dal cielo la
sospirata pace: Da pacein, domine è il grido che emana da quella pagina,
che avrà echeggiato sotto le volte de' nostri templi, e cosi avranno con
-ansia risposto i battiti di tanti cuori f A. Vernarecci, Ottaviano de' Pe-
trucci, Bologna. Romagnoli, 1882, pag. 82) „.
(3) Nella Raccolta del Ramusio, Venetia, Giunti, ICOG, voi. Ili, pag. 9.3.
Ma notisi, quanto al nome, elio nella stessa pagina sono usate promiscua-
mente le forme di Areilo e Arieto.
64 LA POESIA rOPOLARE ITALIANA.
Indiani, cliiamate Areiti, con che si ricordano da essi
le cose passate ed antiche, soggiunge, descritta la ma-
niera propria del canto e del ballo : " Questa ma-
niera di balli si somiglia alquanto alle danze de' con-
tadini, quando la primavera in alcuni luoghi di
Spagna si prendono a questa guisa, e gli uomini e
le donne sollazzano con cemboli; et io bo in Fiandra
veduto uomini e donne in molti cerchi cantare bal-
lando, e rispondendo ad uno che guidava gli altri,
et era il primo a cantare. Nel tempo che "1 com-
mendatore maggiore fra Niccola d'Ovando gover-
nava l'isola, fece davanti a lui un Areito l'Ana-
caona, che fu moglie del Caciche Caonabo, la quale
fu gran signora, et andavan in questa danza più
di 300 donzelle, tutte create sue, et non ancora ma-
ritate ; perchè non volle che nel ballo entrasse uomo
alcuno, ne donna che avesse conosciuto uomo. Sì che
ritornando al proposito nostro, questa maniera di
cantare in questa e nell'altre isole et in terra ferma
anco, è una istoria o un ricordo di cose passate,
così di guerra come di pace: perchè col contino-
vare queste canzoni non si vengono a dimenticare
i gesti e l'altre cose accadute, che restano impresse
nelle memorie loro, invece di libri. Per questa via
recitano le genealogie de' loro Cacichi et Signori, et
i gesti e l'opere loro, con li buoni o cattivi tempi
che passati hanno, et altre cose che essi vogliono
che si sappiano da' piccoli et da' grandi et che
non vadano in oblivione; e spezialmente le famose
vittorie avute in battaglia.... Et non paja al lettore
che questo che io ho detto, sia cosa molto selvaggia
et strana, perchè in Spagna si usa il medesimo et
in Italia, et nella maggior parte de' cristiani penso
che debbia farsi così. Perciò, che altra cosa sono li
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 65
Romanzi o Canzoni, che si fondan sopra cose vere,
se non una parte dell'istorie passate? Almen fra
coloro che non sanno leggere, per via di Canzoni
si sa che stando il Re Don Alfonso nella città di
Siviglia li venne in cuore d'andare ad assediare
Algezira, perchè così si canta in una Canzone, e
così fu nel vero: che da Siviglia partì il Re Don
Alfonso secondo, (^) quando quel luogo guadagnò, e
fu a' 28 di Marzo del 1344 : di modo che ha 189 anni
che questa Canzone o Areito dura. Et per un'altra
Canzone si sa che il Re Don Alfonso VI fece corte
in Toledo per compire di giustizia al Cid Ruidas et
alli Conti di Carione. Questo re Alfonso VI morì il
primo di Luglio del llOG, sì che son passati fino ad
ora 429 anni, et erano state già prima le contese
delli Conti di Carion et del Cid; et fino ad oggi dura
questa memoria o Canzone. Per un'altra Canzonetta
si sa anco, che il Re Don Sancio di Leone, primo
di questo nome, mandò a chiamare Fernan Gon-
zales suo vassallo, perchè venisse alla corte di
Leone ; questo Re Don Sancio prese il regno nel 924
della salute nostra, et regnò 12 anni, di modo che
morì nel 936, et sono fino ad oggi più di 597 anni
che questo Areito o Canzone in Spagna dura. In
Italia anco si canta una Canzonetta che dice :
Alla mia gran pena e forte
Dolorosa, afflitta e rea,
Diviserunt vesteni niea»i
Et super eam mlsenint sorieni ; {'^)
et la compose il Re Federigo di Napoli nel 1501
(1; Così la stampa; ma correggasi secondo in itndeiimo.
(-) Per questa mescolanza di motti e versetti biblici o liturgici iu
poesie volgari vedi F. Novati, La parodia sacra nelle ietterai, moderne,
in Studi critici e letterari, Torino, Loescher, 18S9.
D"Ancoxa, La poesia pop. ital. — 5
66 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
che perse il regno, perdio centra lui s'unirono, et
toltogli regno so lo divisero insieme, il Re catto-
lico di Spagna et il Re Luigi di Francia, che fu
predecessore del Re Francesco, che oggi vive. Questa
Canzone ha, che si canta, 34 anni, et non si dimen-
ticherà di molto altro tempo. Nella prigione del
medesimo Re Francesco si compose un'altra Can-
zone 0 Areito, che dice :
Ee Francesco, mala guida
Dalla Francia voi portaste,
Poi che qui prigion restaste
Di Spagnuol presso a Pavia.
Et pur cosa nota è, che questo passò, così in ef-
fetto : che stando il Re Francesco di Franza con
ogni suo sforzo sopra Pavia, fu in battaglia vinto
et fatto prigione co '1 fiore della Francia a' 24 di Fe-
braro del 1525, dal valoroso capitano il signor An-
tonio di Leva et dalTesercito imperiale che lo soc-
corse. Si che questa Ballata o Areito, è tale che a
guisa d'un' istoria farà sempre chiara una cos'i glo-
riosa vittoria, per accrescere i trofei della Maestà
Cesarea et de' suoi Spagnuoli, et mentre durerà
il mondo et da i fanciulli et da i vecchi si can-
terà sempre questa Canzone. Et di questo modo
ne vanno oggi molte altre simili per tutto, che si
cantano, et si fanno da quelli anco cbe non sanno
leggere „.
Di questi, come l'Oviedo li chiamerebbe, Areifi
italiani, possiamo arrecare parecchi esempj : ed uno
de' pili antichi è quello per la morte di Jacopo Pic-
cinino, ucciso a tradimento dal Re di Napoli nel 14G5,
e che comincia :
Pianga '1 granile e '1 piccolino,
De' bracceschi ogni soUlato,
LA POESIA POPOLARE ITALIAXA. 67
Poi che morto è il nominato
Conte Jacom Piccinino. (')
Un altro, pur col metro deirottonario, die a tutti
generalmente è j^roprio, ed è il metro più comune
della Ballata, celebra la lega de' Veneziani e dei
Francesi contro il Moro (1499), ed è una Canzone
di guerra degli uomini d'arme della Repubblica, che.
avverte il codice ond e tratta, se cauta in campo de
Cara va zo :
Ora il Moro fa la danza
Viva Marco e '1 rei di Pranza..,.
Tu sai bene, oca sforzesca,
Che per te cominciò il ballo,
Quando festi uscire il Gallo....
Che credevi, o sfortunato,
Che San Marco fosse morto ?
Ed a quei che li fa torto
Non sapesse dar la mancia?
Ora il Moro fa la danza :
Viva Marco e '1 roi di Pranza. (^)
Gridavasi allora in favor di Francia, ma evi-
dentemente questa Cauzone, come l'altra dell'anno
innanzi : Moro, Moro, questa danza, sono rifacimenti,
secondo i tempi, di altra anteriore, la quale rispon-
deva ad altre condizioni. Difatti l'oratore milanese
Battista Sfondrati ai 21 dee. 1496 così scriveva da
Venezia al suo signore : " Qui fo facto beri publica
crida, per la quale se iniunge grande pena ad chi
andarà pili cantando o dicendo per Venetia quella
Canzone quale si era solita cantare per la terra
(1) Rosmini. Sf. di Milano, Milano, 18-20, voi. IV, pag. 77 ; Fabeetti,
Biograf. de' Capit. ventur. dell'Umbria, pag. .3.57.
(2) Trucchi, Poesie italiane inedite di diigento autori, Prato, Guasti.
184:7, voi. Ili, pag. 102: vedilo, con miglior lezione, in S. Fekraei, Poesie
tu Lod. il Moro, Bologna, Zanichelli, 1887.
68 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
tutti questi mesi passati, che incomenza : El reame
fa la danza, dove è quella parte Mora, mora el re
(Il Franza. Et li sono deputati tre gentilliouiini, che
facino inquisitione de li contrafactori „. (^)
Ma dopo la caduta del Moro, si cantava :
Ogni fumo viene al basso, (-)
Contro il ciel non vai trar calzi:
Se talora par che '1 s'alzi,
Soffre al fin maggiore il squasso:
Ogni fumo viene al basso....
Che ti giova aver tesoro ?
Ognun grida : mora il Moro !
]1 Leone e il Gal tra loro
Si comparte il stato grasso :
Ogni fumo viene al basso....
Chiama mo' per tuo governo
Turco, turco, in sempiterno ;
Chiama il diavol da l'inferno
Che ti aiuti a simil passo :
Ogni fumo viene al basso.
Aspettar tanto t'inveschi
Nel soccorso dei Tedeschi ;
Pili non sai ciò che ti peschi :
Va' leggero, or vanne a spasso
Ogni fumo viene al basso. (^)
(1) E. Motta, in Archìrio Veneto, XXXVII, 146; e vedi A. Medin, La
Storia delia repiihì/l. di Venezia nella Poesia, Milano, Hoepli, 1004, pag. l.'l.'i n.
Una severa proibizione dell'autorità pnbl)lica rispetto ad una Canzone po-
polare non scevra forse d'allusioni politiche, la troviamo anche in Genova
ai l.'J dee. 15:22, quando fu vietata la maledetta canzone de Balaridone, quale
contamina le menti non soliim de' secolari, ma de' religiosi, cosci homini come
done, che la odeno, sotto pena di multa o fustigazione. E se saranno putti ,
li saranno date tante patte. Della canzone non si conosce altro che il ri-
tornello: Balaridon ridon, ridona, Balaridon, ridon, rida: v. Belgrano,
in Caffaro del 2(> dee. 1882.
('-) Tale e pure il principio di una Frottoletta cantra Viniziani di un
poeta Betuzo da Cotignola: vedi Medin, op. cit., pag. 509.
(3) Trucchi cit., p. 104. — A questi tempi e ad una Canzono popol.Tif
appartengono certo i duo versi riforiti dal Nakdi, St. di Firenze, cdiz. cit..
voi. I, pag. 171 :
Cristo in cielo e il Moro in terra
Sol sa il fin di questa guerra.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 69
Quest'altra Ballata fu composta per la venuta del
Ke Lodovico XII di Francia e dopo la conquista della
Lombardia ; e così comincia :
Viva il Re alto e soprano
Che di Fianza ha la corona:
Ch'è venuto in persona
A far guerra al Veneziano :
Viva il Re alto e soprano. (')
E segue narrando tutte le imprese del Re dal giorno
che s'insignorì di Milano fino alla vittoria sui Ve-
neziani alla Ghiara d'Adda (1509), incolpando Ve-
nezia d'ogni male occorso, e chiamando su lei la
vendetta del cielo:
Venezian, che volete fare?
Poco vai vostro tesoro.-
Io vi vedo rovinare,
Con il vostro argento e oro :
Voi mandaste via il Moro,
Cercastivi vostra mina,
E così una mattina
Simil festi di Ascano ;
Viva il Re alto e soprano.
Quante guerre è state in Italia
Voi ne siate stati cagione :
Il qual motto proverbiale è ricordato anche nel Fiaiifo et Luìnento del-
l'IIÌ.mo Sig. Ludovico Sforza che già fu Duca di Milano, composto pei- un
Vito fido cangilero, Jiomo valentissimo :
Son quel Duca di Milano
Che con pianto sto in dolore....
Io diceva che un sol Dio
Era in cielo, e nn Moro in terra:
E secondo il mio disio
Io facevo paco e guerra ecc.
Vedi Rosmini, St. di Milano, voi. Ili, pag. 252.
(1) Trovasi nell'Ambrosiana, e l'autore si manifesta per un tal Simone
Litta da Milano : nel frontispizio è raffigurato Marte che percuote Venezia.
La ballata fu tradotta in francese e stampata a Lione: vedi Medin, op. cit..
pag. 511.
70 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
Vostro gran foco di paglia
Fatto ha poca fazione :
Perchè allora Biscione
Si avea gran possanza;
Voi chiamasti il Re di Franza :
Venga, venga il tramontano:
Viva il Re alto e soprano.
E mo' che gli è venuto,
In bon'ora alle tue spese
Tutto il mondo gli dà ajuto
Per scacciarti del paese:
E così i Milanese
Li mettesti in gran tempesta;
L'è venuto la sua festa
Che usciran fuori d'affanno:
Viva il Re alto e soprano ecc.
Quest'altra Ballata invece è in vituperio dello
stesso re Lodovico, e deve esser stata scritta dopo
gli avvenimenti del 1512 :
Su su su, Furie infernale
Con le vostre ardente face,
Da poi che per me la pace
Non si trova in tanto male:
Su su su, Furie infernale.
Io son quel Re di Franza
Che nomato nella Italia,
Tanta era mia possanza
Più che Cesare in Tessalia;
Ora ho perso la scrimaglia
E la mia fiorita gente:
Ohimè, tardi me ne pente:
Cosi voglion le fatale:
Su su su. Furie infernale...
Poi ch'io vedo che Bellona
Tolta sì m'à ogni possanza,
lo starò con veste bruna.
Sempre mai senza speranza;
Trista te, superba Franza,
Fatta sei del ciel nemica:
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 71
L'è ben tempo che io dica:
A Dio patron, gè me ne aie:
Su su su, Furie infernale. (^)
E intanto che così la musa popolare faceva che
il re francese si disperasse, un'altra voce gli gri-
dava, ripetendolo sempre come ritornello:
Non sperar piìi, re de Franza,
e fra altre cose gli diceva:
Tu ti avevi posto in core
E giurato nel tuo petto
Di voler che '1 Gran Pastore
Fatto fosse un petit niretto;
Che lui t'ha fatto un galletto
Senza cresta e senza coda;
ammonendolo coll'esperienza del passato:
Tu puoi ben considerare
Se non hai il cor di paglia
Che mai Franza potè durare
Lungamente in quest'Italia....
Alla venuta di Carlo re
In Italia, nostri paesi,
El g'è morto, per mia fé',
Cento miara de Francesi,
Sicché adonca, in 'sti paesi
Non pon far vecchi li ossi ;
El n'è pieno i pozzi e i fossi;
Per la sua prava 'roganza. (^)
(1) Da stampa rarissima, conservata anch'essa nella Biblioteca Am-
brosiana, riprodotta nella raccolta Medis-Frati, III, 145. — G. A. Prato ri-
corda una Canzone popolare milanese di questi tempi, quando la fortuna
di Lodovico XII volgeva in basso: Questa nova tanto ingagliaì-dì li animi
(iella plebe di Milano, che già si teneano per certo di avere il tutto vincto:
et facto aveano una canzone in terza rima che dicea : Pane di miglio et acqua
Ha caccia il sig. Jan Jacomo: Arch. Star. voi. III, pag. 340.
ì;2) Medix-Feat], III, 321, e E. G. Ledos, Frottola del J?e de Franza,
Chanson populaire contre Louis XII, Montpellier, Hamelin, 1893. Contro i
Francesi è pure una Frottola politica scritta nel 1504, pubblicata da G. Eyveau,
72 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
E del 1512 è quest'altra Canzone o Barzelletta,
che invita i Genovesi a recuperare la loro libertà
a zò sia sto Boi distrutto:
Su su, Genoa, in libertade;
Disse un giorno il Santo Padre;
Cacciani fuor le genti ladre
Di tua bella e gran cittade:
Su, su Genoa, in libertade. (')
Dalla menzione che vi si fa di Pio III si scorge
che quest'altra sia più antica, ed appartenga al 1503,
quando il misero regno napoletano era conteso fra
Spagnuoli e Francesi :
Son quel Regno sfortunato
Pien di pianto, danni e guerra:
Francia e Spagna in mare e in terra
M'hanno tutto disolato:
Son quel Regno sfortunato....
Prosperai in sommo bene,
Vissi un tempo in santa pace:
Poi cascai in foco e in pene,
Tra le reti, lacci e face....
El magnanimo Ferrando
Del gran sangue di Ragona,
Ebbe Italia al suo comando,
Tremar fece ogni persona:
Poi che morse sua persona
Persi il ramo de l'oliva:
Or più pace non si scriva
Per me tristo disgraziato:
Son quel Regno sfortunato.
Torino-Roma, 1891, elie toccando via via di tutte le regioni d'Italia, mostr.a
i danni che ebbero dai Francesi, concliiudendo a questo modo:
El Franzeso e il Taliano
L'uno e l'altro par cortese;
Ch'ognun stia al suo paese
Prego il re del Paradiso.
(1) Riferita per intero da F. Gras.setto nel suo Viaggio lungo le coste
dalmate, greco-venete ed italiche, pubbl. da A. Ceeuti nei voi. della R. Do-
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 73
E dopo narrati tutti i suoi mali, e invocato l'acuto
di tutti i potentati d'Italia e d'Europa, conchiude:
Gli è dieci anni eh' io son gramo,
Che mai pace a me si piega:
'Taccherommi a qualche ramo,
Come quello el qual s'annega;
Se non veggo pace o tregua.
Chiamerò in mare e in terra
E! gran Turco con sua guerra.
Come Regno disperato:
Son quel Regno sfortunato. (')
E agli stessi avvenimenti si riferisce quest'altro
Lamento :
Triema il ciel la terra e '1 mare;
Poi che Franza e '1 campo ispano
Sono giunti al Garigliano,
Sarà crudo battagliare.
Triema il ciel, la terra e '1 mare.
S' e' Franzesi vuol il regno
Convien tórlo con la spada;
Li Spagnuoli mossi a sdegno
Franza stimano per nada:
Signoreggiano ogni strada
Del bel regno signorile;
Stan con animo virile
Per voler battaglia fare:
Triema il ciel, la terra e '1 mare. (-)
Diamo ancora altri due esempj di questi Areiti,
che fra noi ebbero il nome di Lamenti ; e primo sia
pntaz. Veneta di Storia patria, Venezia, 188-1. pag. 48. Il meclesimo viag-
giatore riferisce un Lamento dei Fiorentini contro il Re Carlo per la libe-
razione di Pisa, p. 77. La Barzelletta genovese è anche in Neki, Poesie
storiche genovesi, Genova, Sordo-muti, 1885, p. 36, dove sono pure altri
componimenti in versi di argomento storico, del 1-16Ì e del 1473.
(1) La historia di quel Regno isforttinato. Fece stampare Francesco
di Iacopo della Spera: opuscolo nella Tjivulziana. Ora è riprodotto nella
raccolta Medix-Frati, IV, 1.
(2) Raro opuscolo, s. a. n., della Palatina di Firenze.
74 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
questo del re Francesco dopo la rotta di Pavia:
Son di Fianza el re Cristiano
Che son sciolto con amore
Da lo sacro Iinperadore,
Ch'era preso di sua mano:
Son di Franza el re Cristiano.
Per aver in mia possanza
Milan grande e ancor Pavia,
Mi partì' di Gallia mia
Con duo! re di gran possanza;
Duchi, Conti con leanza
Mi seguivan sopra el piano :
Son di Franza el re Cristiano...
Ebbi incontra la fortuna,
Ebbi incontra e cielo e terra,
Ebbi incontra sole e luna,
Ebbi incontra l'aspra guerra,
Perciò fu posta per terra
La mia gente sopra el piano:
Son di Franza el re Cristiano. (^)
Qiiesfiiltimo è il Lamento di Siena (-) per l'as-
sedio che la ridusse in signoria di Cosimo :
Sono Siena sfortunata
Che pensavo di far bene:
Sono entrata in tante pene:
Certo fui mal consigliata:
Sono Siena sfortunata.
Quando facemmo il consiglio
Di cacciare gli Spagnuoli,
Non mirammo il gran periglio.
Né a' nostri gravi duoli.
Sopra noi e' nostri figliuoli
(1) Ristamp. nell.T, Unccoìla di Cronisti e Documenti storici lomhiirdl,
Milano, Colombo, 18J7, voi. II. pag. 247, e nella race. Medin-Feati, IIL .'Ì21.
(2) Stamp. da Dom. Giiaflì in Firenze, dopo il Lamento di Fiero
Strozzi: il raro opuscolo si conserva iieirArcli. di Stato in Firenze, cart.
Strozziane, Serie Uguccioni, M, 3, 135.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 75
Correran tutte le offese,
Perchè veggio che '1 Francese
Non ne vie» con sua brigata:
Sono Siena sfortunata.
Questi miei gran capitani
Che son dentro alle mie mura,
Son pur tutti Italiani,
Mostran star senza paura:
Ma chi vede la pianura
E la valle e le pendice,
S'egli è ver quel clie si dice.
Non arò buona deirata:
Sono Siena sfortunata. {')
Per questo modo e in questa forma, atta alla re-
citazione in pubblico e al canto, si spandevano per
tutta Italia le notizie dei fatti di qualche importanza,
che accadevano in questa o in quella parte della Pe-
nisola, come al di d'oggi farebbero le Gazzette, salvo
che la trasmissione da un punto all'altro non era
tanto sollecita. Ma l'esser queste Canzoni recitate
e cantate in pubblico faceva sì che le notizie degli
avvenimenti politici si spandessero largamente fra
le plebi, e forse più addentro penetrassero che non
al di d'oggi.
Allo stesso genere appartengono i Poemetti sto-
rici, de' quali è gran copia nel periodo che corre
dalla discesa dei Francesi alla perdita dell'indipen-
denza d'Italia: (') tanto che si potrebbe con essi e
(1) NeHa prima edizione di questi stndj avevo q\ii posto una nota
bibliografica di alcuni Lamenti del sec. XV e XVI. diventata inutile dopo
la pubblicazione di A. Medin, Lamenti dei sec. XV e A'I'/, Firenze, aJl' in-
segna di Dante. ISS'i, e più ancora dopo ramplissinia raccolta, per cura
dello .stesso Medin e di L. Frati, di Lamenti storili (lei sec. XIV, XV e XVI,
voi. I, Bologna, Romagnoli, 1887, voi. II, ibid. 1888, voi. IIL ibid. 1890,
voi. IV. Verona-Padova, Di-ucker, 189-1.
(-) Ve ne lia tuttavia anche del tempo anteriore : per esempio la
Battaglia d'Angliiari, stampata dal FaiìKEtti, op. cit , pag. 249 ; la J'resa
di Se>-ez--(iia : v. Libki, Catal. 1847, n. Vl(i2, ristampata dal Fanfa.vi (Fi-
renze, 1862), e dal Neri (Sarzana, 1867), il Sacco di Volterra del 1472,
76 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
per essi raccontare tutta quanta la storia di que'
tristi e strepitosi casi di guerra. 0 Questi compo-
nimenti differiscono dai sopra mentovati per la for-
ma, epica anziché lirica, e per la maggior ampiezza
che la natura stessa della variata forma dimanda :
ma nel resto sono similissimi ai primi, nati essendo
pur essi fra il popolo e per il popolo. Più che opera
sudata di qualche mediocre letterato, sono, infatti,
il pili delle volte parto della facoltà poetica di un
improvvisatore o canfen'iio da piazza, al quale non
pareva vero di potere intrattenere il pubblico con
materia diversa dalla cavalleresca, ormai trita, e
quando tutta l'attenzione era vòlta ai fatti, di ch'era
pubblicato con .altre poesie contemporanee da L. Fkati, Bologna. lìoma-
gnoli, 1886, ecc.
(1) E infatti brani dei varj Poemetti si trovano in due più grandi
Poemi sulle vicende d'Italia, che formano una quasi compiuta istoria dei
fatti e delle guerre del tempo. Essi sono i seguenti :
I. Cronica delle guerre d'Italia principiaiido dal mille quattrocento e
ìiofanfaqnattro per fin al mille cinquecento e disdotto, dove si dichiara tutte
le (jnerre del regno di Napoli e di tutta Lombardia et de He, Duchi, Principi
et Signori discacciati dal suo Stato, con una aggiunta nuova del fine di tutte
le guerre fatte in Toscana tra il Medichino tnarchese di Marignano et il
signor Pietro Strozzi, e di nuovo con somma diligenza corrette e ristampate,
Venezia, appresso Domenico de Franeesclii, 1565. — Il poema in questa
edizione contiene XII canti in 8' rima, più la relazione della guena di Siena
in prosa. L'edizione compiuta è invece in XX Canti, Venezia, Danza, 1534,
o Venezia, Giov. Ant. e Fratelli di S.ibio, 1534, ed ha per titolo: Guerre hor-
rende de Italia. Tutte le guerre de Italia, comenzando da la venuta di Re
Carlo del mille quattrocento novantaquatro, fin al giorno presente: novamente
stampale in otlaca rima et con diligentia correcte. Edizioni compiute sono
anche quelle di Milano, Da Borgo, 1545, e Milano, Valcriano et Ilieronimo
fr.atelli da Meda, 1560. I fatti n.arrati vanno dalla calata di Carlo Vili al
sacco di Roma: l'edizione di Venezia, Bindoni, 1524, è probabilmente l'edi-
zione principe, continu.ita e compiuta dappoi.
li. / Successi bellici seguiti nell'Italia dal fatto d'arme Gieradadda del
l.'ìOd fino al pitesente 15S1 ; cosa bellissima et ìiuora, di Xircoi.ò degli Ago-
stini; in Venezia per lo Zoppino, 1521. Continuata, o toltovi il nome del-
l'autore diventa: / sanguinosi successi di tutte le guerre occorse in Italia
principiando dal 1509 fino ai nostri tempi, 1569. Opera dilettevole e bella et
in buonissima forma ridotta; In Venetia appresso Domenico de Franceschi,
156!). In questa edizione sono XXVI Canti in 8-^ rima, e i fatti vanno dalla
lega di Cambray alla lilicrazione di Malta dall'assedio di Solimano.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 77
teatro l'Italia. Citeremo ad esempio la Botta di lìa-
venna, ond'è autore quell'Altissimo (') die, se fu in-
debitamente stimato degno della laurea poetica, fu
però certamente dei più infaticabili cantatori inhaìica
die Firenze avesse tra il secolo decimoquinto e il de-
cimosesto. Compose sui lieaìl di Francia e recitò,
improvvisando, com'egli vorrebbe far credere, (^) in
S. Martino di Firenze, un poema in novantaquattro
canti, riducendo in ottave il testo in prosa; e finita
l'opera, intendeva por mano
Al libro del famoso Fioravante,
E cominciar domenica seguente.
Ma agli argomenti antichi e romanzeschi alternando
egli i soggetti storici e moderni, in una di quelle se-
dute domenicali, venne fuori il citato Poema in due
parti, cantato, come si legge nella stampa, in S. Mar-
tino di Fiorenza cdV improvviso dall' Altissimo poeta 'fio-
rentino, poeta laureato, copiato dedico viva voce da varie
persone mentre cantava. Però alla cinquantaquattre-
sinia ottava della seconda parte, dopo detto che
.... il duca e gli altri francesi baroni
Di partir di Ravenna ognun agogna,
Con tutto il campo, cavagli e pedoni,
E presono il cammin verso Bologna,
(1) Comuiiemeute è chiamato Cristoforo dell'Altissimo; ma le aiiticlie
stampe e i documenti portano Altissimo senz'altro. Il Quadrio (voi. II.
p. 216), sospettò che fosse confuso da un Iato con Cristoforo dell'Altissimo
pittore fiorentino, o dall'altro con Cristoforo Sordi detto il cieco da Fori),
famoso improvvisatore di quell'età. Ma certo erra volendo che da una sua
ottava si rilevi che si chiamasse Angelo e fosse dottore e sacerdote, dac-
ché l'ottava fa parte di una ih cocfir/oHe, tutta contrapposti al condizionale,
che non può avere valore biografico. Vedi la prefazione di R. Renier agli
Strambotti e Sonetti dell' Altissimo, Torino, Società bibliofila, 1886.
{-) Ma il buon Marin Sanudo non si lasciò ingannare, e avendo sen-
tito l'Altissimo nel 1.518 a Venezia, giudicò che quelle improvvisazioni
erano " cosse fatte a man e composta a Fiorenza,, e ne ebbe conferma
dal fatto, che, terminata la seduta, e raccolti i danari, il poeta pi'omise
78 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
il poema resta in tronco, e si fa questa avvertenza:
Xota cìie qui vicnìca alquante stanze cioè la fine: perchè
il poeta venne in tanto spi)-ito in su l'ultimo, che la penna
0 la memoria di chi raccoglieva dalla sua voce non lo
poferoìi seguire. Qui chi vuol creder, creda: ma è pur
strano che l'Altissimo stampando da sé il poema ed
avendone previlegio dalla Signoria, (^) non riempisse
questa lacuna finale: libero, dunque, a ciascuno di
vedervi impotenza o artifizio, verità o ciurmerla.
Un Poemetto in ottava rima senza titolo al-
cuno, (^) narra come Marte mise in cuore a un tra-
ìiìontan Signore De Vuniverso imperio aver l'onore; e
con molta rozzezza di rime canta ai degni uditori e
discrei e persone l'impresa di Carlo YIII. (^) Gli avve-
nimenti posteriori alla prima spedizione francese
che "un'altra fiata dina aU" improvviso , : vefli V. Gian, Un decennio della
vita di /'. Bembo, Torino, Loosclier, 18S5, p. 239.
(1) Vedi Giornale Storico deyli AicJi. Tose, in Ai-ch. Stor., Nuova Se-
rie, IX, 09. L'edizione è a petizione di Alessandro di Francesco liossegli, s. a.,
ma il breve della Signoria è del I.M.">.
(-) Vedi Libri, Catalogne del 1847, n. 12G7. Erroneamente da taluno
se ne vuole autore Joannes dictus Florentinus, il cui nome trovasi dopo il
Finis: ma sembra piuttosto esser costui lo stampatore o editore del li-
bretto, tanto più che il suo nome trovasi allo stesso luogo anche in altri
Poemetti popolari di quell'età. Un altro poemetto scritto sullo stesso ar-
gomento è additato, e in parte riprodotto da H. Harkisse, Excerpta Co-
lonibiniana, Paris, Welter, 18S7. p. 22:ì. Rispetto a questo grande avveni-
mento, vedi anche V. Rossi, Foesie storiche sulla spedizione di Carlo Vili
in Italia, Venezia..., 1887, e A. Medin, / poemetti sulla calata di C. f^JII e
la battaglia di Fornovo, in liass. hibliogr. Ictterat. iial.,y\\, 180. — Per opuscoli
francesi sulla discesa di Carlo e la conquista di Napoli, vedi Hariìisse, op. cit.,
p. V2'A, e J. Blanc, Bibliographie italico-fram;,, Milano, Menaggi, 1880, al capit.
Les franrais en Italie, I. O-Il e segg. : nonché l.a prophecie dit rag Charles Vili
par maitre Guilloche Bourdelois, ed. dal march. Do l,a Grange, Paris, 1809;
e pei tempi inimcdiatamonte successivi E. I'icot, C/iants histoi-iq. frane,
da XVI s., Paris, Colin, 190:).
(3) Giorgio .Sommaripa da Verona, che in un pnenia latiiinnionto in-
titolato Dioae Fortunae Oratio, descrisse in versi italiani la battaglia di
Carlo Vili al Taro, cantò anche i casi di Napoli in altro Poemetto vol-
gare, che mal si potrebl)e collocare fra i popolari, ed è la Cronica delle
cose geste nel liegno napoletano ... . incominzando a l'anno de la salute cin-
quecento trenta sette insinn per tutto el mille quattrocento novanta cinque:
v. Rosmini, Storia di Milano, III, 217. — Vedi poro un canto jxiiiolarc del
tempo in obbrobrio di Carlo, in Imbiìiani. I, é-j.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 79
sono narrati nella Discordia di tutti quanti li fatti
che sono stati in Italia, e si mei di quelli Signori che
soìio distrutti, (^) alludendo con ciò alle imprese del
Valentino contro i tirannelli di Honiagna. E ai fatti
dei Borgia, padre e tiglio, spettano la Istoria di
Ceri, (^) in che si canta Sì coinè Cesar Borgia Valen-
tino Bestruggere voleva el Stato Orsino, e come poi
precipitò di sua grandezza al basso d'ogni miseria;
la Historia del Duca Valentino come fugl tre volte di
2)regione, scritta per mess. Francesco Saccliino da
Mudiana; (^) la. Historia de la morte del Duca Valen-
tino, {*) e la Morte di Papa Alixandro sesto. (") Ai
casi del Moro e alla conquista della Lombardia fatta
da Luigi XII si riferiscono la Istoria nova della rotta
e p>YS« del Moro e Asranio e molti altri baroni; (^)
la Storia conte il stato di Milano (d presente è stato
acquistato .... et in die modo et perchè si fuggì il
sig. Lodovicìio ditto Moro, (') e poi la Morte del Re-
(') Quadrio, St. e Baglone ecc., VI, 137.
(-) Opuscolo rarissimo, s. a. n.. nella Palatina di Firenze.
(3) MoLiNi, Operette bibliocìr., Firenze, 18.58, p. 113. Questo Saccliino
(la Mudiana stampò nel 1.507 a Bologna un Lamento <le la morte deUo il-
lustre et exceìso S. Duca Valentino (v. Medin-Frati, Lamenti, III. 74), con-
tenente poesie di vario metro in lode e rimpianto del Borgia. La Cantiun-
citla, o Lamento, comincia co-si :
Ognun cridi e pianga forte
Cesar Borgia Valentino.
Ch'era in terra un Dio divino ;
Non sperar più, Italia, corte.
Pianga tutta la milizia ecc.
(<) Libri, Catal., n. 1273. Aggiungi il C'apitulo dove si contene tutti li
facti dia facto el D. V. et la sua destructione. Opuscolo rarissimo, s. a. n.,
che trovasi in una Miscellanea dell'Ambrosiana con altri Poemetti storici
del tempo. Per le poesie sui fatti del Valentino, v. i Lamenti raccolti dal
Medin e dal Frati, III. 9, 65.
(5) Ristampato dal March. G. D'Adda wìW Arclt. Storico Lombardo,
anno II, 1875.
(6) RoscoE, Vita di Leon X, trad. Bossi, 11, p. 115 in nota; Rosmini,
op. cit.. Ili, 273.
(") Rosmini, op. c-/7.,p. Ili, 2"2. Forse è una cosa stessa con la Storia
ijiero Cronica come il Signore Lodovico q. duca di Milano si partì di Mi-
80 LA POESIA POPOLABE ITALIANA.
verendissimo Monsignor Ascanio, i^) e la Guerra dèi
populo genovese e gentillìoììiini e del re di Pranza e di
tutto suo exercito e triumpho de la intrata che fece in
Genova. (^) Le imprese di Papa Giulio sono narrate
nel Concilio del re de Francia, (^) nel Lamento e rotta
di Prato, (*) nella Historia come Papa Julia secondo
prese la città di Bologna {") e nella Historia della, bea-
titudine di Papa Julio e del Ducct di Ferrara e de
gran fedii di Bologna e della Bastia e de Brescia e
deBavenna e de Spagnuoli e Taliani e de Francesi e
de Venetiani, e de tutte le guerre e fatti d'arme. (®)
Gran numero di questi Poemetti fu composto e di-
vulgato al tempo della famosa lega di Cambray, (')
ad illustrare gli strepitosi fatti di guerra che allora
accaddero. Tali sarebbero la Liga fatta novamente a
morte et destrutione de tutti colori che scranno contro
la Liga;(^) la Historia di tutte le guerre fatte, et del
laiio e andò in terra tedesca, e come torno con exercito, e 'l paese che con-
quisto, e come al fine è stato preso, e in che modo e dove fu pi'eso Mons.
Ascanio Sito fratello, con motti altri Siijnori, Bologna, s. a.: vedi Panzer,
IX, 217.
(1) Libri, Calai., n. 1272.
{-) Libri, Calai., n. 1271. L'autore è Jacomo Cortonese : g al iwe-
metto segue una Barselletta che comincia : Non dormite, o Taliani.
(3) L'intero titolo è El cocilio del Re de Francia la presa del signore
Prospero Colonna la rotta de Seguieari a Milano e la presa del castello: de
la presa de Orbino et de san Leo. E in fine : l'er lautore perosino de la
rotonda: vedi Harkisse, op. cit., p. 198.
(■») Vedi C. Guasti, Il sacco di Prato e il ritorno dei Medici in Fi-
reme nel MDXII, nanazioui in verso e iti prosa, Bologna, Romagnoli,
ISSO, I, 1.
(5) Libri, C'atal.,n. 1277. Aggiungi: Barzelletta nova in laude di Papa
Giulio composta per frate M. Maria da Rimino del sacro ordine de Serri.
Bologna, Justiniano da Rubiera, s. a.
(0) Ediz. s. a. n. Autore è il ricordato Jacomo de Sorci ditto Cor-
tonese, Che studiò in puerizia a Tecognano. Forse questo Poemetto è una
stessa cosa coU'altro AaWLttoria del Papa contro Ferraresi e de le terre
novamente prese, su cui v. Libri, Calai., n. 1276. Vi è anche un Poemetto
s. a. II., in 81 ottave intitolato La Guerra di Ferrara.
(^) Vedi in proposito A. Medin, XIII Sonetti per la lega di Cambra;/,
Padova, Gallina, 1901.
(8) Libri, Calai., n. 1270.
LA POESIA POPOLARE ITALLVNA. 81
fatto d'arme fatto in Geradadda, con il nome di tutti
gli conduttieri delU Illustrissima Signoria de Venetia; (^)
la Miseranda Botta de' Venetiani a quelli data da lo
invictissimo et chiarissimo Ludovico Be de Pranza, et
triumphante Duca di Milano ;{") la Bellissima historia
del forzo fatto contra Maximiano ; {^) li Mali deporta-
menti de Franciosi fato in Italia; (■*) i Tre Sacchi fatti
in Italia, primo de Genova, secondo de Pavia, terzo
de Boma;{^) le Correrie et Brusamenti che hanno facto
li Todeschi in la patria del Priulo;{^)\^ Memoranda
presa di Peschiera ; (J) la Obsidione di Padova; (^) e
fi) LiBBi, Calai., n. 1283-8.
(2) Libri, Calai., u. 1288.
(3) Libri, Catal., n. 1285.
(4) Libri, Calai., n. 1286.
(=) Melzi-Tosi, Bibliogr. dei poemi cavaliereschi, Milano, Daelli, 1865,
pag. 213.
(6) Libri, Calai., n. 1287; Morbio, Francia e Italia, pag. 79; Medin,
op. cit., p. 513. Alle guerre del Friuli si riferisce la Canzone popolare col
ritornello : Su su su, Vemon Venzon, stampata da V. Joppi liéWArch. Stor.,
nuova serie, IV, 2, 27.
n) Libri, Calai., n. 1293: Medin, op. cit, p. 513.
(8) Libri, Calai., n. 1289. Xella Lettera dedicatoria che precede il
Poemetto in sei canti è detto l'autore essere un tal Cordo, sconosciuto af-
fatto al biografo degli illustri padovani, il Vedova, e nel quale il Fuliii
credette potesse ravvisarsi un Bartolomeo da Cori, veneziano, che al Se-
nato veneto chiese un privilegio per la stampa di un suo poema su la
obsidione appunto di Padova. Però al MEDi>r che riprodusse testé il poema
(Bologna, Romagnoli, 1892) l'attribuzione parve non sicura, ma soltanto
assai probabile. Evidentemente chi lo scrisse non è uno dei soliti canta-
storie, ma una persona più colta: il poema potè tuttavia diffondersi fra il
popolo, specialmente nel territorio venei.iano. Il Libri, il quale aveva os-
servato che il poemetto, se fosse ristampato con cura, poteva leggersi
anche adesso con piacere e con frutto, ne riferì in parte, come noi pure
facciamo, la finale exorlazione a tulli gli Italiani che insieme se uniscano
cantra barbari :
0 miei Italiani, su, ch'el se fazi alto,
Ne siate più di voi stessi ribelli;
Levate via lo adamantino smalto
Che vi cuopre gli cuori, o poverelli;
Insieme uniti omai se fazi assalto
Contro chi guasta d'Italia i giojelli,
E spoglisi ciascun d'ira e rancore,
Ch'el sia un solo ovile et un pastore...
D'Ancona, La poesia pop. ital. — 6
82 LA POESIA POPOLARE ITALL4.NA.
finalmente la Botta e presa fatta a Bresa per li Fran-
cesi; O non che varie descrizioni della celebre Botta
di Bavenna. (^) Coi tempi e le gnerre di France-
sco I e di Carlo V stanno in relazione II fatto d'arme
del Cristianissimo Be di Franza contra Squizari fatto
a Meregnano appresso a Milano nel 1515 a dì 13 di
Settembre; (^) il Poemetto drammatico di Francesco
da Mantova sopra le gesta di Laiitrec;{*) l'Istoria
Xon siete voi de la stirpe italiana?
A che del sangue ver degenerare?
Non siete voi quella gente soprana
Che oltramontani mai non suol curare ?
Or qual cosa vi fa la mente insana
Che per la patiia niun voglia pugnare.
Ma favorir chi cerca con ogni arte
Guastar del mondo la più bella parte ?...
U' son santi costumi e gesti umani?
Dov'è virtù ed ogni gentilezza ?
Dov'è, se non tra voi, cari Italiani ?
S"i che guardate ben vostra ricchezza
Ch'e barbari vi cercan trar di mani.
Et unitevi insieme, che sciocchezza
Più grande non conosco, né pazzia
Che ad altri, essendo suo, darsi in baTia.
All'assedio di Padova del 1509 si riferisce anche la Vitloriof:a Gala de Pa-
dua (v. Libri, Catul., n. 1291 ; non che Rosooe, Leon X, III, p. 90 in nota, e
Fabretti, op. cit., p. 494), che comincia : Su su su chi vuol la Gaia Vengl
innanti al bastione, Dove in cima d'un lamone La vedeti star legata: ed è ri-
prodotta con altre poesie sullo stesso argomento dal Medin nel cit. voi.
p. 311, con copiose notizie intorno al costume guerresco della Gatta: e del
Medin stesso, vedi La risposta alla vittoriosa Gatta ecc., Padova, Kandi, 189.'^.
A. ToLOMEi nel voi. Dante e Padova, Padova, 186.5, p. .348, riporta anche un'al-
tra Canzone del tempo, dal ritornello: Gi è pari ù qui Slanzeman, che è puro
in E. Lovarini, Antichi testi di lett. pavana, Bologna, Romagnoli, 1S94, p. G6.
(1) Libri, Catul., n. 1294.
(2) Libri, Catal., n. 129,5-8. Abbiamo già accennato al Poemetto del-
I'Altissimo : di un altro, secondo il Vermiglioi.i, Opuscoli, Pei'ugia, 1826.
III, .50, sarebbe autore il già ricordato Perosino della Rotonda, e poiché
il componimento sarebbe di sole GO ottave, deve essere altra cosa dal Fatto
d'arme fato in Pomagna sotto Pavenna, con el nome di tutti li Signori e
Capitani morti, feriti e presi de l'nna e l'altra parte, che ne ha ben piìi.
(3) Raro ojruscolo s. a. n. che trovasi nella Palatina di Firenze. In
fondo ci è scritto: Composta per Teodoro harViere.
{■'} Quadrio, Storia e Pag., VI, l.'!7. Diamo più ampia notizia di que-
sto singolare componimento nel 2" voi. dello Origini del Teatro in Italia,
2» ediz., II, 22. Per la parto che manca nell'esemplare da noi descritto,
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 83
della Rotta de' Francesi e Gulzari novamente fatta a
Milano a la Bicocca con la presa di Lodi;{^) la Guerra
di Lombardia con la battaglia di Grellasco, e parte
delle cose bellice successe del 1524 ;{^) Y Historia della
guerra fatta a Pavia con la presa del He di Francia ; i^)
V Assedio di Pavia con la rotta et presa del Be Cri-
stianissimo, (*) e la Rotta dell'armata di Napoli. (^)
Dei fatti non gloriosi di papa Leone (*') ragiona il
poemetto De la presa de Urbino, O che narra l'in-
giusto assalto ai dominj rovereschi ; e delle sven-
ture di Roma durante il pontificato di Clemente,
l'altro intitolato La Presa di Roma. (^)
V. A. Medin, in Rass. Bihl. Ietterai, ital., voi. I, 214. Il poemetto fu ripro-
dotto intero da H. Vaenhagen, Erlangen, 1896.
(1) Raio opuscolo s. a. n. che trovasi nella Palatina di Firenze. Alla
Rotta e Pila Fresa segue un Lumento del Lautrec, che si lagna con la For-
tuna della disgrazia delle sue imprese, che l'ha fatto da poi la ritornata
sua a Milano e della hattaylia perduta di presente: vedi Bkunet, Manuel,
III, 218.
(2) Perugia, Niccolò Zopino, 1524. L'autore è Hieronymo Candelphimo
Aqua viva da calli : ved. Veemicjlioli, Opuscoli, TU, 42.
(3) Edizione rarissima s. a. n. Comincia: Saci-a l'olliìinia, or prego
che m'aiti.
(4) Libri, Catal., n. 1299-1.300. Ristampato nella Raccolta di Cronisti
e Documenti storici lombardi inediti, lì, 234.
{■>) Ristamp. dal De Simoni, in Tre Cantari dei secoli XV e XVI, Ge-
nova. Sordo-muti, 187R.
(6) Riguardano i fatti di Leon X anche questi altri poemetti : El con-
siglio del gran turcho et el preparamento della Armata per terra et per mare
cantra li Christiani et el preparamento della S. de Papa Leone X et delti
Principi Christiani contra el gran Turcho. Composta per il Perosino de la
Rotunda, s. a., ma Roma 1517, in 8" rima. — Hiee. Boedonius de Sermoneto,
La exortatione de la Crutiata a la Sanctità de N. S. Papa Leone et a tucti
li Signori et Principi christiani de la impresa contra Turchi, s. n., ma circa
il 1517, in 3» rima.
(') Opuscolo rarissimo s. a. n., che trovasi nella Palatina di Firenze.
(8) In questo rarissimo libretto, s. a. n., trovasi anche una Romae
Lamentatio in 3'^ rima, un Capitolo sopra la morte del signor Giovanni de'
Medici, e un sonetto alla misera Italia. Autore del poemetto in 8» rima, è
il Celebeino da Udine. 11 poemetto fu ristampato nel 1872 a Roma da
Eneico Narducci per le nozze Masi- Amici, prepostavi una diligente biblio-
graiìa, e con le notate "ggiunte, a Bologna, presso il Romagnoli, 1886, da
F. Mango. Vedi anche, per la bibliografìa, la prefazione di C. Milanesi al
volumetto II Sacco di Roma, Firenze, Barbèra, 1867, p. xlii e pei testi, la
raccolta Medin-Frati, III, 347 e segg., e IV, 181.
84 LA POESIA POPOLARE ITALIAIS^A.
Dice Giuseppe Tigri che " forse anche il prode
Ferruccio ebbe dal popolo il suo nobile inno „. (^)
Non ci è dato registrare un inno, e tanto meno da
dirsi nobile; ma possiamo menzionare un Poemetto
tra il popolare e l'aulico, del quale l'unica copia, pur
manchevole di una carta, conservasi gelosamente
nella Biblioteca di Lucca. E intitolato la Botta di
Ferruccio composta per Donato Callophilo cittadino luc-
chese, (^) ch'è poi un medico Donati. Il poeta narra
le imprese ultime di Ferruccio da per tutto nominato;
ma questi vi è celebrato piìi come ardito capitano,
che come difensore della libertà della patria, e nel
fatto che canta, Gallofilo vede piìi ch'altro una im-
presa bellica degna di memoria. L'autore loda anche
il signor Fabrizio ditto Marimano, Buon, d'alto inge-
gno, valoroso e forte, e piange la morte dell'Orauge:
di qneW invitto Signore Che a tutto il mondo dar pos-
sea terrore, soggiungendo:
0 madre afflitta sua, dogliosa e mesta,
Passato è che noi vedi il settim'anno;
Aspettai or che viene in bianca vesta!
Poi racconta come Ferruccio, fatto prigione da un
capitano del Maramaldo, detto per nome Mezzanotte,
si volgesse a Dio sclamando:
.... 0 Signor del cielo alto e soprano,
Ormai son giunto a l'infelici rote;
Se per mia patria avrò di vita bando
L'alma, Signore, almen ti raccomando ;
indi fosse ucciso dal Maramaldo, del quale il poeta
scusa la ribalda azione, allegando il noto fatto del
(1) 0. popò!. Tose, Prefaz. p. xxvili.
(2) Stampata in Bologna per Justiniano da Rubiera .i' dì 6 di Marzo
dcir.inno 1531. Vedi per maggiori notizie su di esso, C. Sahdi, I Capitani
lucchesi del sec. XVI, Lucca, Giusti, 1902.
LA POESIA POPOLARE ITALL\NA. 85
tamburino. Il Poemetto finisce coli' incontrarsi agli
Elisi le anime dell'Orange e del Ferruccio, il quale
chiede e ottiene perdono dal Principe dell'averlo
ucciso :
Ma '1 feci per salvar la patria mia. (')
E finalmente i fatti di Siena, ultima a cadere
fra le libere città toscane, sono riferiti in parecchi
Poemetti, de' quali citeremo la Vittoria gloriosissima
degli Senesi contro agli Fiorentini nel piano di Ca-
moUìa a dì 25 di Luglio l'anno 1526 : (^) le Bevolu-
zioni della città di Siena, con gli successi della guerra
di quella dal principio della rivolta sino al 1554 : (^)
la Botta della Chiaìia e l'Assedio di Siena, con la
presa di essa e di tutti i castelli, (*) e infine la Botta
che ebbe il signor Piero Strozzi dal signor Marchese
di Marignano. (^)
(1) Letterarj e non popolari diremmo alcuni altri Poemi storici di
quell'età; ad esempio La morte del fortissimo signor Giovanni de' Medici,
composta per messer Giovanni Falugio da Lancisa, in Venetia, per Au-
relio Pincio venetian, ne Tanno MDXXXH del mese di Settembre; i
Quattro Canti de la Guerra di Siena, composti per Lauea Pieri fiorentina,
in Fiorenza, appresso Bartolomeo di Michelangelo S. M., l'anno MDLHII,
con dedica al Marchese di Marignano; lo Assediò e impresa di Firenze,
con tutte le cose successe incominciando dal laudnliile accordo del Sommo
Pontefice e la Cesarea Maestà, et tutti li ordine et battaglie seguite, diMA.il-
BEINO Roseo da Fabriano, Vinegia, Sindoni e Pasini, 1531, con dedica al
Malatesta, ristampato da A. D. Piekrugues, Firenze, Pellas, 1894; la
Guerra di Parma, Parma, Seth Viotto, 1552, il cui autore secondp il
EoNCHiNi, Piefaz. alle Lettere di F. A. Marcili, p. 337, è un Giuseppe
Leggiadei-Gallani ; ecc.
(-, In fondo è scritto: Edidit Joannes liospitalarius. Il MoEENl, Bi-
bliografia Tose, II, 400, ne assevera autore un Giovanni Tondi, ma il Po-
LiDORi {Arch. St., Append. Vili) vuol che sia un 6. B. Gaeghi cavaliere
gerosolimitano. Fu riprodotto da F. Mango. La Guerra di Camollia e la
Presa di Roma ecc. Bologna, Romagnoli, 1886.
(3) Moeeni, Bihliogr., II, 270. Per Siena, vedasi anche la Profezia
sulla guerra di Siena, stame del Perella, accademico rozzo, edita da
L. Banchi, Bologna, Romagnoli, 1868.
(*) Libro assai raro colla data del 1557. Trovasi nella Palatina di
Firenze.
(S) Stampata in Firenze appresso Giovanni Baleni. MDLXXXV.
86 LA POESIA POPOLARE ITALL^NA.
Tutte queste Storie, delle quali sarebbe utile
compilare una esatta e ragionata bibliografia, 0 con-
tinuarono ancora a stamparsi e a leggersi dal popolo
per qualche tempo: poi, sopravvenuta la tirannide
indigena e forastiera, ei dimenticò fin le sventure
e gli eccidj, clie in quelle rozze rime ripetevano gli
antichi fasti d'Italia. (") I ritornelli delle antiche
canzoni :
Mora, mora il re di Frauza;
Via Spagnoli et Alemanni
non pili sonavano sulle bocche del popolo. Ogni ri-
cordo del passato era distrutto. )Soltanto, pochi anni
fa Francesco Silvio Orlandini udiva cantare da un
contadino presso Scannagallo, ove peri la libertà
senese, e precisamente al Poggio delle Donne, questi
versi, che parrebbero non in lode, ma in obbrobrio
del difensore di Siena :
0 Piero Strozzi, 'ndù sono i tuoi bravoni ?
Al Poggio (Ielle Donne in que' burroni.
0 Piero Strozzi, 'ndù sono i tuoi soldati ?
Al Poggio delle Donne in quei fossati.
(') Oltre quelle da noi nicnzion.ito, altre ne ricorda il Medin nella Bi-
bliografia della eit. opera la Storia ili Venezia ecc.
(-) Fra le Storie che fino alla metà del secolo scorso tuttavia si ri-
stampavano ad uso del popolo, noto però le seguenti: Canzonetta alla corsa
sopra le sette galere di Spagna, due delle quali si naufragarono in Corsica
vicino all'isola detta la Giraglia, Lucca, Baroni, s. a., Lucca, Bortini, 1844.
Si riferisce a un disastro marittimo dell'armata di Andrea Doria. — Krudi-
tissinia istoria dell'assedio fatto dalli Turrlii alla città di Malta (nel 1575),
Napoli, Avallone, 1889. — Jìelazione della gran vittoria che hanno ottenuta
le sei galere della Religione di Malta in Levante nella presa della gran Sal-
dano di Turchia e di altri vascelli che portarono il figlio del Gran Turco a
visitare il corpo di Maometto alla Mecca, Lucca, Baroni, s. a., Napoli, Aval-
lone, 1849. — Storia dove si contiene la liberazione della città di ì'ienna e
presa della città di Slrigonia, con la morte che fece il gran Visir {r\c\ 1083),
Todi, s. a., Bologna, alla Colomba, 1807, Bassano, s. a., Lucca, Baroni. 1856. —
Lodi e gloria fatte al Cavalier Tommaso Morosini (nel 1C47), Treviso, s. a.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 87
0 Piero Strozzi, 'ndù son le tue genti?
Al Poggio delle Donne a cor le lenti. (')
Qiial differenza fra il Canto pucciano del 1340
alla Libertà e questa poesia nella quale il popolo,
diventato schiavo, irride a sé stesso e alle proi)rie
miserie !
V.
Non minore differenza corre dalla Canzonetta
amorosa e dalla Ballata del secolo decimoquarto in-
cipiente, alla Canzone a ballo dei tempi del Magni-
ti) Da lettera scrittami dall' Oilandini l'anno 1858. Il Bulgarini nel
suo Romanzo stoico suU'^^Merf/o di Siena riferisce queste poesie, che dice
popolari; ma la seconda almeno non ci sembra tale:
0 Piero Strozzi, percliè ti spogliasti
Dell'arme grosse che a Foian mandasti!
Almen se te ne stavi alla vedetta
Sarebbe costa allo Spagnuol la fretta.
Santa Vittoria con nome più vero
Siena avrìa fatta in fiorentin sentiero.
Meglio dei vili eavalli di Pranza
Le nostre donne fecei'o provanza.
La fame la sete — La rabbia tedesca,
E del Marignano — Per Cosimo l'esca.
Ci fer sparpagliati — In diversi siti,
Pel rombo storditi. — Col ferro, co' piedi,
Caduti nel fosso — Ci vennero addosso.
Che Tacqua non corse — Se rossa non era.
O Piero di Strozzi — Ferito nel fianco
Di palla nemica, — Fra pianti e i singhiozzi
D'amara fatica — Morire volevi
E non il potevi ecc.
Biagio di Monluc nei suoi Comtnentnrj racconta come le donne senesi, al
tempo dell'assedio, si unissero sotto tre bandiere a difesa delle mura, e
soggiunge: Elles avoient fait un Chant à l'/ionneur de la France, lors qu'eìles
tdloyent à leur fortifìcation. Je voudrais aioir donne le meilleur cheval (jue
f àìje, et l'avoir pouf le inettre ici. E noi, che non abbiamo cavallo, daremmo
l'equivalente per ritrovar cotesta canzone.
88 LA POESIA POPOLARE ITALL\KA.
fico. Fra la gentile e casta poesia di Dante alla
gbirlandetta e le velate oscenità dei Canti carna-
scialeschi e delle rime maggiajole della fine del se-
colo decimoquinto sta di mezzo tutta una rivolu-
zione nei costumi e nel gusto. Se la Firenze sobria
e pudica viveva soltanto per l'Alighieri nelle me-
morie degli avi, che avrebbe egli detto della cor-
ruzione, che la grassezza del vivere, l'agiatezza, i
commerci, il lusso, la potenza politica avevano a
poco a poco introdotto nel Comune! Più tardi, gran-
d'eccitaniento a godere strabocchevolmente dei beni
della vita fu la morìa del 1348. " Credettesi, dice
Matteo Villani, che gli uomini, i quali Iddio per
grazia aveva riserbati in vita, avendo veduto lo
sterminio dei loro prossimi, e di tutte le nazioni del
mondo udito il simigliante, che divenissono di mi-
gliore condizione, umili, vìrtudiosi e cattolici : guar-
dassonsi dalla iniquità e dai peccati, e fussono pieni
d'onore e di carità l'uno centra l'altro. Ma di pre-
sente, restata la mortalità, apparve il contradio: che
gli uomini trovandosi pochi e abbondanti per l'ere-
dità e successioni dei beni terreni, dimenticando le
cose passate, come state non fessone, si dierono alla
più sconcia e disonesta vita, che prima non aveano
usata. Perocché vacando in ozio, usavano dissolu-
tamente il peccato della gola, i conviti, taverne e
delizie con dilicate vivande e giuochi, scorrendo
senza freno alla lussuria, trovando nei vestimenti
strane e disusate fogge e disoneste maniere, mutando
nuove forme a tutti gli arredi. E il minuto popolo,
uomini e femmine, per la soperchia abbondanza che
si trovarono delle cose, non voleano lavorare agli
usati mestieri : e le più caro e dilicate vivande vo-
leano per loro vita, e a libito si maritavano, ve-
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 89
stendo le fanti e le vili femmine tutte le belle e
care robe delle orrevoli donne morte. E senza al-
cuno ritegno quasi tutta la nostra città scorse alla
disonesta vita ,. (^)
Speccbio di questa nuova società è il Decame-
rone; ma la lieta brigata che fuggendo la peste, re-
cavasi sui colli fiesolani a novellare, rifiutavasi a
ripetere e a sentire certe Canzoni, che alle orec-
chie del Boccaccio dovevano sonare quando egli
scriveva il suo libro. Noi però diremmo, che, seb-
bene l'autore ponga in scena Dioneo e faccia le Can-
zoni coeve alla morìa, forse queste nacquero soltanto
dalla corruzione morale, che, a dir del Villani, suc-
cesse a quella dei corpi, e fu maggiore che Taltra.
" A Dioneo, scrive il Boccaccio sul finire della quinta
Giornata, a Dioneo fu comandato che cantasse una
Canzone. Il quale prestamente cominciò : Monna Ai-
druda levate la coda Che buone novelle vi reco. Di che
tutte le donne cominciarono a ridere, e massima-
mente la Reina: la quale gli comandò che quella
lasciasse e dicessene un'altra. Disse Dioneo : Ma-
donna, se io avessi cembalo, io direi : Alzatevi i
panni, monna Lupa, o: Sotto l'ulivello è l'erba, o vo-
leste voi ch'io dicessi: L'onda del mare mi fa gran
male?(^) ma io non ho cembalo, e per ciò vedete
voi qual voi volete di queste altre. Piacerebbevi :
Escici fuor, che sia tagliato, Com'un maio in su la
campagna ? Disse la Reina : No, dinne un' altra.
Dunque, disse Dioneo, dirò io : Monna Simona, im-
(1) Cronica, I, 4.
(2) Si credette, prima dal Lami, Novelle letter., VIII, 3, poi dal Pertz
e dall' Hartwio di aver ritrovato in iiii antico cronista un ricordo latino
di questa canzone: ma si tratta invece di uno scongiuro: vedi Giorn. stor.
leu. Hai., IV, 324, 440.
90 LA POESIA POPOLARE ITALIAJfA.
lotta, iììibotta ? E' non è del mese iV ottobre. La Reina
ridendo disse : Deli in malora, dinne una bella, se
tu vuogli : oliò noi non vogliam cotesta. Disse Dio-
neo : No, madonna, non ve ne fate male. Pur qual
più vi piace? io ne so più di mille. 0 volete: Questo
mio nicchio sio no 'l picchio ? o : Deh, fa' pian, ma-
rito mio ? 0 : lo mi comperai un. gallo delle lire cento?
La Keina allora un poco turbata, quantunque tutte
l'altre ridessero, disse: Dioneo lascia stare il mot-
teggiare, e dinne una bella : e se non, tu potresti
provare com'io mi so adirare „. Ov'è degno di nota,
che la Keina rifiutasse siffatte canzoni soltanto per-
chè non belle, e non mica perchè più o meno aper-
tamente oscene; che del resto questo difetto non
poteva scandalizzare la poco schifiltosa brigata. Ma
volevasi che l'osceno non fosse sfacciato e triviale,
e il Boccaccio fu gran maestro nell'arte di arruffia-
nare (e ci si passi il vocabolo che alla materia non
disdice) r immoralità cogli ornamenti che solamente
al buono convengono. Le Canzonette, delle quali ba-
stava ai contemporanei dell'autore, forse più che ai
componenti la brigata fiesolana, rammentare sol-
tanto il primo verso, sono andate perdute ; e, di-
cono i Deputati alla correzione del Decamerone, se
ne ritroverebbe forse qualcuna ; ma noìi porta il pregio
ridurle in vita. Certo, nessuno le desidererebbe come
esempj di poesia o come documenti di morale ; ma
come prove del costume de' tempi sarebbe gran
ventura conoscerne più che qucll'una soltanto, che
i codici ci hanno trasmessa. E questa la Canzone
dei Nicchio, della quale ci restano piìi versioni:
l'una in un codice parmense, l'altra in uno riccar-
diano, alla quale ultima si accosta, pur con qualche
notevole differenza, un altro testo di mano del Ma-
LA POESIA POPOLARE ITALI A\A. 91
gliabeclii. " Ben diverse, dice il Carducci, e nella
dizione e nel numero delle stanze e nel metro sono
le due lezioni, fiorentina e parmense : la fiorentina
più semplice, più breve ha l'apparenza della mag-
giore antichità, ma la parineilse contenuta in un
codice del sec. XV ineunt., ci mostra che la canzo-
netta durò in essere ben oltre il tempo di Dioneo.
E il crescere questa il numero delle strofe e colle
strofe il numero delle sillabe, sino a protendere tal-
volta alTendecasillabo, sono di c(ue' vestigi che il
passaggio di paese in paese non che di bocca in
bocca, e lo scorrer del tempo lasciano nella poesia
veramente popolare „. (') E di questo basti: che
chi vuol più saperne, può cercare le raccolte del
Carducci e dell'Alvisi, (") ove le varie versioni del
Nicchio sono riferite.
Di queste Canzonette, per lo più a doppio senso,
e quasi sempre esprimenti amori sensuali con vena
gioconda di poesia, o, mezzo tra il lirico e il narra-
tivo, riferenti galanti avventure, e, pur com'è della
musa popolare, con qualche sprazzo di malinconia
e soavità dolce di affetti, (^) si compongono le Rac-
colte che ne furono date a stampa nel 1562 dal
Sermartelli, e, senza nome di stampatore, nel 1568.
Alle quali per la massima parte hanno contribuito
coi loro componimenti il Magnifico Lorenzo, il Po-
liziano e Bernardo Giambullari ; ma non poche vi
se ne trovano framezzo anonime, e che forse sono
state colte dalle labbra stesse dei cantori, anzi che
trascritte dalle dotte carte dei clienti di Lorenzo:
(1) Canta, e Ball., p. G2.
(2) Canzonette antiche, Firenze, Libreria Dante, 1884, p. 15.
(3) Vedi, ad es., nell'ediz. del 1568 le Canzoni XXXV, LXXIII, LXXVII,
LXXVni ecc.
92 LA POESIA POPOLARE ITALIAJsA.
e queste, meglio die le felici imitazioni dei poeti
cortigiani, ci possono dare una fedele immagine della
forma schiettamente popolare. Aggiungi, che le piìi
non solo sono evidentemente anteriori ai tempi della
stampa delle Raccolte, ma all'età stessa del Magni-
fico; (^) sicché, sehbene la data delle edizioni sia della
metà del secolo decimosesto, le si devono conside-
rare per la massima parte della fine dell'anteriore,
e alcune anche più antiche. (") Anzi, un chiaro indizio
dell'antichità di queste Canzoni e di altre consimili
dello stesso genere in questo lo abbiamo : che le
poesie devote, le quali si composero in Firenze dai
tempi di Feo Belcari e di madonna Lucrezia Tor-
nabuoni fino a quelli del Savonarola, hanno così nei
codici come nelle stampe l'indicazione dell'aria sulla
quale vanno cantate, che è il più spesso la musica
di una Canzone profana, già tanto universalmente
nota, che bastava menzionarne senz'altro il primo
verso soltanto. {^)
Non è difficile fra tutte riconoscere quelle Can-
zoni che veramente hanno a dirsi popolari ; non
perchè dal popolo fatte proprie cantandole, ma
perchè veramente composte da poeti ignari di studj.
Squisite cose sono le ballate e canzonette del Poli-
ziano ; (*) ma si vede in esse la mano maestra e il
senso squisito del poeta, che imitando la natura, sa
0) Esempio sicuro ne porge una ballata del Boccaccio: lì fior che 7
valor perde, rimasta fra il popolo, che la rimutò a suo Jnodo: vedi Car-
DUCCT, Canili, e Ball., p. 171.
(2) Vedi per queste le raccolte dell'ALVisr e del FERnARi.
(') Vedi in Appendice la menzionata Tavola dei jìrincipj di Canzoni,
la musica defilo quali è stata usurpata dalle Canzoni sacre, e che può ser-
vire a farne incetta noi codici, in che fossero ancora nascoste.
(*) Finora gli si davano le Montanine e la Brunettina: ma la prima è
ora restituita al Sacchetti (v. Carducci, Cantilene e Ballate, p. 214) e la
seconda a Baldassare Olimpo (v. S. Ferrari, Strambotti e Frottole com-
poste per B. O. ecc. Bologna, Zanichelli, 1879).
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 93
rivestire l'immagine che ritrae dal vivo con le
grazie dell'arte. Altre, invece, sono tali, che ninno
direbbe poterle aver composte un poeta colto; e re-
candone qualche saggio, lasciamo pensatamente da
banda quelle più o meno sfacciatamente disoneste.
Odasi questa, ad esempio, in che par di sentire il
ritornello coli' invocazione del fiore, come nei Canti
odierni :
Angiola, tu mi fai
Cantando a te venire :
Le bellezze che hai
Non te le posso dire :
Fior di bontà,
E d'onestà,
Tu se' più bella donna
Che sia in questa città.
0 labbra di corallo,
Zucchero da mangiare,
E d'oro e di cristallo.
Ch'io le vorrei baciare:
Fior di bontà,
E d'onestà,
Ama chi t'ama
E chi non t'ama, lassa.
0 volto di corallo.
Con quello guance belle,
E d'oro e di cristallo.
Che vi vien due mammelle :
Fior di bontà,
E d'onestà,
Tu se' più bella donna
Che io vedessi ma'.
Tu vuoi pur ch'io t'aspetti,
r non posso aspettare :
Ma innanzi eh' io mi parti
Io ti vorrei parlare;
Fior di bontà,
E d'onestà,
Ama chi t'ama
E chi non t'ama, lassa.
94: LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
Donna, tu l'hai pensata.
Ed io SI r ho a pensare :
Tu mi vuoi far morire,
0 farmi disperare :
Fior di bontà,
E d'onestà.
Tu se' piti bella donna
Che sia in questa città.
Ma innanzi ch'io mi parta
Io te lo vo' pur dire :
Tuo schiavo io son per carta.
Infine al mio morire :
Fior di bontà,
E d'onestà,
Tu se' pili bella donna
Che io vedessi ma'. (')
Anche quest'altra è cosa tutta di popolo, e ri-
corda una Canzone moderna, salvo che l'amatore,
in luogo di farsi frate, che non ò più professione
de' nostri tempi, ora si è fatto soldato : (")
Che faralla — che diralla (^)
Quando la saperrà — ch'io sia Fià! (■*)
0 quante volte di farnie Fra
In sua presenzia gli ho giura;
Ma lei rideva — e non credeva
Che mai dovesse tarme Fra,
(1) Canzone a hallo ecc. Firenze, 1568, n. 93.
(2) Alludiamo alla Canzonetta cosi riferita dal Bolza, C. popol. co-
masche, n. 41 :
Cosa dii'à la mia morosa,
Povera tosa, povera tosa!
No gli'ò né pianger né sospira,
.Son requisito, bisogna andà.
(^) Tu musicata da Andrea Antico: v. A. Zf.natti, Andrea Antico da
Montana, ncWArch. star, per Trieste ecc., n. 1, fase. 2.
(■•) Cfr. con la Canzonetta riportata da Widter-Woi.f, n. 52:
Vojo andar fra boschi e fratto
Per finir questa mia vita,
Vói vestirmi da eremita,
Che non voj più far l'amor ecc.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 95
Anzi ogiior si lamentava
Con dir che la beffava :
E pur son fatto Fra.
Quando ho visto — che far acquisto
Di lei non posso, son fatto Fra,
E fraticello — discalzarello,
Che COSI aveva deliberà :
Dove in piccioliiia cella
Faccio vita poverella
Osservando castità.
So chi è colui — qual ambidui
Del nostro amore privato n'ha:
Con sue ciance e lusinghette,
Ch'io venga fuori lei crederà;
Ma s'ella mai m'acchiappa.
Che mi stracci questa cappa,
Che di vita sia priva.
La poverella — senza favella
La notte e '1 giorno se ne starà,
E scapigliata — tutta affannata
Sì strano caso lei piangerà:
Forse poi che il suo pensiero
In un qualche monastero
Alla fin la condurrà. (')
Nella seguente ci sembrano accozzati, e mal sal-
dati insieme, più frammenti di diverse canzoni: l'uno
dei quali va a tutto il decimo verso: poi un altro
da questo al diciassettesimo, e dal diciassettesimo
fino alla fine, l'ultimo. Cosi, come vedremo accadere
assai spesso nella poesia cantata e raccomandata
(1) Ibid., n. 139. Una antica canzone francese pone in bocca alla donna
il proposito di farsi cappuccina:
Puis que Ton ne m'a donnée
A celuy que j'amois tant,
Avant la fin de l'année,
Quoy que disent mas parens,
Je me rendray capuchine,
Capuchine en un couvent ecc.
Vedi J. B. Weckeklin, L'ancienne chanson pn^'itl. en Frutice (XVI, XVII s.ì,
Paris, Garnier, 1887, pag. 405.
96 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
soltanto alla memoria, si sarebbero fusi e confusi
insieme pezzi appartenenti a diversi componimenti :
0 morte dispietata
Tu m'hai fatto gran torto;
Tu m'hai tolto mia donna,
Ch'era lo mio conforto,
La notte con lo die,
Fino all'alba del giorno.
Giamniiii non vidi donna
Di cotanto valore,
Quanto era la Caterina
Che mi donò il suo amore.
La mi tenne la staffa,
Ed io montai in arcione;
La mi pòrse la lancia.
Ed io imbracciai la targa;
La mi pòrse la spada,
La mi calzò lo sprone;
La mi Ulisse l'elmetto;
Io gli parlai d'amore.
Addio, bella sora,
Ch'io me ne vo a 'Vignone,
Et da Vignone in Francia
Per acquistare onore.
S'io fo colpo di lancia,
Farò per vostro amore;
S'io moro alla battaglia
Morrò per vostro amore.
Diran le maritate:
Morto è il nostro amadore;
Diran le pulzellette:
Morto è per nostro amore;
Diran le vedovelle:
Vuolsegli fare onore.
Dove il sotterremo?
'N Santa Maria del Fiore.
Di che lo copriremo?
Di rose e di viole. ( ')
") Ibid, n. ll.l. Il sig. G. DoNciEus, parlando di questa canzone nel
giornale M''liii>ine,\l, 241, vede nella seconda parte di essa, da Addio, bella
LA POESIA POPOLARE ITALLV.XA. 97
Tutta la Canzone è schiettamente popolare : e tutto
proprio alla poesia del popolo è anche quel proce-
dere della narrazione per via di dimande e risposte,
che si nota negli ultimi versi; il che è comune non
solo alla poesia popolare italiana, ma anche a quella
di altri popoli. Cos'i, ad esempio, in Ispagna:
La Marieta es motta,
Deu la perdo.
Ahout li faran l'ensolta?
Sota '1 balco. (M
In Normandia:
— Quel métiei" faisait-elle? —
— Elle était coutmière. —
— Et en quoi cousait-elle? —
— Elle coiLsait en soievie. —
— De quoi était l'aiguille? —
— Elle était d'argentine. —
— De quoi était sa pointe? —
— Elle était dianiantine. —
— Dans quoi la serrait-elle? ^
— Dan.s un coffret d'ivoire. — (')
E in una Canzone veneta:
In cao de nove mesi
Marieta fa un bambin.
Andove lo batiseo?
— In chiesa a San Belin. —
— Cessa ghe metiu il nome? —
— Lorenzo e Batistin. —
— De cossa lo vestiu? —
— De verde e verdolin. — f^)
sorti, una variante della canzone francese della Fernette, da lui studiata in
lioinania, XX, 86, e dal Nigra, C. p. del Piemonte, n. 19.
(1) Mila y Fontanals, Romancerillo catalan, p. 100.
(2) De Beaurepaire, Elude sur la Foés. popul. en Xoriiiandie, Paris.
Diimoulin, 18.56, p. 68.
(3) WiDTER-WoLF, n, 27. Una versione veronese dice cosn
— Che glie raetenti nome ? —
— Francesco, Francescbin. —
D'Ancona, La poesia pop. ital. — 7
98 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
Quest'altra, e sarà l'ultimo esempio che reche-
remo, parmi congiunga insieme le ragioni della po-
polarità e dell'antichità, sebbene pel suo stato fram-
mentario mal possa intendersene intero il senso, e
forse altro non sia se non traduzione od imitazione
dal francese:
E per un bel cantar d'un merlo
La bella non può dormire;
E quando dorme e quando veggliia,
E quando trae di gran sospiri.
E la si leva nuda nudella
Fuor del suo letto pulito;
E poi ne già nel suo giardino,
Sotto il suo mandorlo fiorito.
E lì si calza, e lì si veste, (')
— De cossa l'ai vestito? —
— De verde, verdesin. —
— Cossa girili insegna a fare? —
— Sonar el violin: —
KlGUl, Saggio di C. pojìol. veronesi, pag. 29. Una versione veneziana:
— Indove '1 batizenio? —
— In ciesa a San Martin. —
— Che nome glie metemo ? —
— Costante, Cosfcantin. —
— E ehi sarà el compare ? —
— Bernardo Bernardin. —
Bernoni, Canti popol. veneziani, puntata V, pag. 0. E una del Montale di
Pistoia: (in Aixh. tradiz. popol., II, 5101:
— Come ghi s'hae a po' nomo? —
— Giovanni, Giovanni. —
— Meschie' ghi s'ha a fa' i'are?
— Mugnaio, mugnai. —
Cfr. anche Mazzatinti, C popol. umbri, n. 452, o Fereako, C. p. di Ponie-
lagoscuro, n. 27.
(!) La moglie fedele in una canzono istriana, fa altrettanto ma ad
altro fine:
La mitoìna cu' '1 sul livà,
La se calza, la se vesto,
La se lava lo biande man
E la va ne li su' stalo
Visitare li su' cavai :
IvE, C. pop. ìstr., p. 3,34.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 99
E lì aspetta el suo dolze amor fino.
Venne l'uccello dello buon selvaggio,
E 'n sulla spalla se gli posò.
Méssegli el becco dentro all'orecchio,
Sotto li suoi biondi capelli,
Che gli parlava del suo linguaggio,
E la bella non lo 'ntendeva. (')
Qui, chi abbia conoscenza dell'antica lirica popolare
di Francia, non può a meno di ricordare la Canzone
della Bella Alice, della quale si hanno tante varie
lezioni del principio, mancando a tutte la continua-
zione, sicché anch'essa sia, come la nostra, un sem-
plice frammento. Una lezione così suona:
Main se leva la bien faite Aelis,
Bel se para et plus bel se vesti;
Si prist de l'aigue en un dorè bacin,
Lava sa bouche et ses jex el son vis,
Si s'en entra la bele en un jardiu.
(1) rbicl., n. 98. Propenderei col Carducci, p. 70, a leggere dor-
mir = sospir; pulì = fiorì = amor fi; cape' = 'ntende'. — Che avrà detto
ruccellino selvaggio alla bella? Forse quello che è riferito nel noto Ri-
spetto :
Il primo giorno di Calen di Maggio
Andai nell'orto per cogliere un flore;
E vi trovai un uecellin selvaggio
Che discorreva Ji cose d'amore.
O uecellin che vieni di Fiorenza,
Insegnami l'amor come comincia.
L'amor comincia con canti e con suoni,
E poi finisce con pianti e dolori.
L'amor comincia con suoni e con canti,
E poi finisce con dolori e pianti :
Tigri, n. 322. Invece, in una antica Canzonetta francese: Me levay par un
matinet, Men entrai/ dans mon jardinet, Oh je troitvaij rossignolet; Qui en
sonjoli chant disoit: Belle fille, marie toij: Haupt, FranziJs. Volhslied., pag. 103.
Una moderna canzone popolare nel Bujeacd, Chants popid. de l'Ouest, I, 70;
Je 'm sui leve de hon matin Pour cueillir rose et roinarin: Un rossignol vini
sur ma main; Puis il me dist en son latin: Qice les femmes ne valent rien,
Et les filles encore bien moins ecc. Un'altra : De hon matin me lève, J'entends
le rossignol chantant Qui dit en son langage: Malheureux soni tout les amants
De se mettre en menage. O anche: Me suis levée un beau matin Suis des-
cendue en mon jardin, Un oiseau rola sur ma main Qui me disait en son
100 LA POESIA POPOLARE IT ALLENA.
Una seconda lezione di due soli versi, menziona al-
meno l'usignoletto:
Mail! se leva la bien faite Aelis:
Vons ne savez qiie li louseigiiols dist. (')
E una terza, clie trovasi in un sermone sacro :
Bele Aliz iiiatin leva,
Siin coiz vesti et para,
Enz un verger s'en entra,
Cink flnrettes i truva:
Un cliapelet fet ea a
De rose flurie. (-)
Altra comparazione potrebbesi fare con questa Can-
zonetta del quindicesimo secolo:
Qua faire s'Amour me laisse?
Nuit et jour ne puis dormir.
Quant je siiis la nuyt coucliée,
Me souvient de mou amy.
Je m'y levay tonte nne,
Et prins ma robbe de gris;
Passe par la faulce porte,
M'en entray en noz jardrins;
J'ouy clianter l'alonecte,
Et le rousignol jolis,
Qui disoit en son langaige:
Veez cy mes amours venir. (^)
Nò fan difetto raifronti colla poesia popolare di varie
Provincie di Francia. Così, in Provenza cantasi:
La bello Margarido se lev'avant lou jour,
Nen prend sa ceulougneto et son fnset d'amour;
latin: Tous ìes gar^ons ne riitent rien, Toiiles les femmes je n'en flit rien, Mais
les fìlles j'en dis dit bien: Bi.adk, I^oés. de l'Arniagnac et de ì'Angenais-,
Paris, Champion, 1883,1, 45. Per coiLsimil motivo, vedi Jtev. d. tradii, popul.,
IV, 204; Arc/i. Tradiz. popol., IX, 194 n., e Weckeulin, L'ancien. chans.
popul. en France, 197, 208, 307, 485 eci-.
(1) Jlist. JMtéi: de la France, XXIII, p. 531.
(2) Hist. Littér. ecc. XXIV, 36tì.
(3) G. Paris, Chans. du XV s., p. 95.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 101
Au jardin de soun pero l'y a 'n aubre tout en flour,
La bello Margavido l'y vai ploumar dessous. (^;
E meglio ancora:
Par 1111 dimeiiche de r.iatin
Ai pres les claus de moun jardin
Pour n'en cuihir la vioiileto....
Qiiand lou bouquet es istat facli
•Sabiou pas par qu lou mandar.
L'y agut lou roussignoou sauvagi,
Lou messagier des aniourous. (^)
E in un canto guascone:
De boun maytin s'iiabillo
La hillo de Coustaou,
Dab soun coutilloun naou
S'en caousso, s'en liabillo. (^)
Ovvero :
A miey noueyt s'en era lebade,
Tento nudete descaoussade,
Sen anabe dare u laourè,
En t'aiia attende l'aouillé. (*)
E la mossa almeno del frammento italiano si è
conservata in questa Canzonetta. prol3abilmente del
secolo decimosesto:
E mi levai d'ima bella mattina,
E mi levai d'una bella mattina.
Sol per andar allo bello giardin,
Sol per andar allo bello giardin;
E mi scontrai d'una bella fantina,
E li basciai il suo dolce bocchin;
O D. Aebaud, Ch. popul. (le la Proi:, I, 114.
{-) Ib. II, 13G. Cfr. una Canzone del sec. XV: M'i/ levaij par iiny matin,
Plus matin qite ne soitloye, M'en entrai/ en no Jardin, Pour cuillir la giroii-
flade: Pencontrai le rousiynou, Qui estoit dessoiihz l'ombrade: Eoiisiynou,
beate rousignou, Va moij faire ung inessaige ecc.: Ihid. p. 102.
(3) Cenac-Moncaut, Littérat. popul. de la Gasc, p. 286. Cfr. Pfvu-^
des lang. roma». VI, 252.
(4) Id., ibid., p. 43.3.
102 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
Che la mi prese a dire:
0 dolce amore, caro mio fin,
Quando ritornerai da mi?
Ed io risposi: Doman da mattili.
Ella mi prese a dire;
Caro mio amore, dolce mio fin,
0 dolce amor mio fin,
0 dolce amor mio fin,
Amor mio fin, Amor mio fin.
L'altra mattina, e do' che mi levai,
L'altra mattina, e do' che mi levai,
Sol per tornare allo bello giardin.
Sol per tornare allo bello giardin.
E la bella fantin che jeri lassai
La m'aspettava allo bello giardin,
Che la mi prese a dire:
Sei sta' tardi, amor mio fin.
Quando ritornerai da mi?
Io te ne prego, torna due volte al di.
E lei mi prese a dire:
Ch'a' li miei preghi sia di sì,
Ch'a li miei preghi sia di si:
Torna due volte al di.
Torna due volte al di. (')
Mal si apporrebbe colui che credesse trovarsi
nelle due Raccolte citate tutto il tesoro di Canzoni
popolari dei secoli decimoquinto e decimosesto. Fru-
gando ne' codici si rinverrebbe messe abbondantis-
sima, propria talora a curiosi ragguagli con Canzoni
vive pur al dì d'oggi. Citerò un esempio. Comunissima
è anche al presente una Canzonetta proverbiale, che
(') Opera nova nella quale ^ bellissime Canzoni sopra rarii sogijetti
per intrare in gratta et amore alle vaghe e giovani donne, alla Napoletaiut.
Karo opuscolo s. a. n., che conservasi nella Marciana, misceli. 2213. Vedi
anche in E. Lovarini, Le Cam. popol. in liuzzante, Bologna, Fava e Gara-
gnani, 1888 (estr. dal J'ropugnatore) p. 19. lì. Renier, in Giorn, star. leti.
ital., XXn, :J88, no reca una lezione di poco diversa, tratta dalle Yillanotte
alla padoana, Venezia, Rampazzetto, 1506. Altra simile, si trova in una
stampa di Venezia, 1.520: vedi A. Zenatti, Andrea Antico da Montana, in
Ardi. stor. per Trieste ecc., I, 194.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 103
nella sua forma più breve, dice:
Uno, due e tre:
E lo Papa non è Re,
E lo Re non è Papa
E la pecora non è capra ecc. (')
Eccone, col titolo di Contrarj, (") un esempio più a
lungo svolto, tratto da un codice del Quattrocento : {^)
La salsiccia non è carne.
Né la carne non è salsiccia;
Né bii non è torriccia.
Né la torriccia non é bìi;
Né le tre non son dù,
Né le dù non son tre ;
Né '1 Papa non è Re,
Né il Re non è Papa;
Né la chiocciola non è lumaca,
Né la lumaca non è chiocciola;
Né il palèo non é trottola,
Né la trottola non è paleo;
Né lo scherano non é romeo.
Né il romeo non è scherano ;
(1) Vedi in Lmbkiani, II, 189, una più lunga filatessa; e varie forme
in Bernoni, punt. XII, pag. 7, in Ive, pag. 279, in De-Nino, Usi e costumi
abruzzesi, Firenze, Barbèra, III, 189, in Pigoeini-Beri, Le cantafavole del-
l'Appetì. Marchig. (JV. Antoì., 1 Luglio 1880, p. 45), in Giannini, C popol.
montagli, lucchese, p. 307, e C. pop. tose, p. 54, in A. Giannini, C. pop. pisani,
n. 158, in Percoli, C. pop. romagnoli, n. 144, in Rondini, p. 177, in Nigea,
p. 561, in Molinaei del Chiaro, p. 91, in N. Bolognini, Usi e costumi del
Trentino, Rovereto, 1886, p. 9, e 1889, p. 3, in Dal Medico, Ninne-nanne e
giuochi infant. venez., Venezia, Antonelli, 1871, p. 48-49, in Luciani, Tradiz.
/jopol. albanesi, Capodistiia, 1892, p. 90 ecc. Ommessa la menzione preliminare
del Re e del Papa, vedi esempj italiani di questo Contrario, in Gianandrea.
Giuochi e canti fanriuU. delle Marche, Roma, tip. Tiberina, 1878, p. 27, in
Corazzini, Componim. minori, ecc. p. 14.3 e 351, e in Ferraro, C. popol. di
Ferrara ecc., Ferrara, Taddei. 1877, p. 25. A Modica diventa un curioso e
lungo canto della messe: Guastella, Kinne-nanne del circondario di Modica,
Ragusa, Piccitto, 1887, p. 87.
("} Anche in Provenza queste catene di versi e motti si cliiam.ano
Lous contradicJis : vedine es. in Eev. des lang. roman. Ili, 214; Faradis
n'es jìcis pergatori, Pergatori es pas Paradis; Uno lebre es pas uno perdris,
Uno pierdris es pas tino lebre; Uno coumbo es pas un serre ecc.; e in Montel
et Lambert, Contes pnpul., Montpellier, 1874, p. 32.
(3) Laurenz. della SS. Annunz., 122, pag. 25.
104 LA POESIA POPOLARE ITALL\NA.
Né il pan di miglio non è di grano,
Ne il pan di grano non è di miglio ;
Né il vin bianco non è vermiglio,
Né il vin vermiglio non è bianco;
Né il petto non è fianco,
Né il fianco non è petto ;
Né il solajo non è tetto.
Né il tetto non è solajo;
La farina non é vajo,
Né la rena non é farina.
Io voglio andare a cena,
Che troppo arei che dire,
S'io volessi seguire
Quel eh' è incominciato.
Vive tuttora una Canzone fanciullesca che Se-
verino Ferrari trovò in un codice laurenziano-recliano
col titolo Arietta veneziana, e mise a stampa, (^) nella
quale un bambino chiede alla madre che va al mer-
cato, animali e oggetti, imitando di essi il grido o
il suono :
Madre mia, se ande' al mercà
Conipranien'una
Conipramen'una
Compreme nn polesin la mia speranza
Polesin, pi, pi ecc.
Questa canzonetta dura ancora nella montagna luc-
chese, come attesta la lezione lucchese che me ne
comunica il prof. Giovanni Giannini :
Bella che vai al mercà', compramen'uno
Comprami nn galleitin, la mia speranza!
C allettin, chicchiriclù ;
Sta su bella, sta su bella, che l'è d'i.
Bella che vai al mercà', compramen'una.
Comprami una gallina, la mia speranza!
La gallina, coccodè,
(1) Bihliot. Letto: popol., \, 202.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 105
Galletti II, chicchirichì;
Sta su bella, sta su bella, elio l'è dì.
Bella che vai al nieicà', comprameii'uiio,
Comprami un cagiiolin, la mia speranza!
Cagnolino, hn hii hu
La gallina, coccodè
G alletti n, rhicchiriccìù ;
Sta su bella, sta su bella, che l'è dì.
Bella che vai al mercà', compramen'uno,
Comprami un gattino, la mia speranza!
11 gattino, gnao gnao,
Il canino, ha bn bu,
La gallina, coccodè,
Gal 1 etti n , eh icch iricch) ;
Sta su bella, sta su bella, che l'è dì.
Bella che vai al mercà', compramen'uno,
Comprami un miccino, la mia speranza!
Il miccino, ahi ahi,
Il gattino, giiao gnao,
Il canino, bu bn hu,
La gallina, coccodè,
G ali etti n, chicchiriceli);
Sta su bella, sta su bella, che l'è dì.
Come dal Boccaccio si sono tratte notizie di
Canzoni del secolo decimoquarto, così può farsi da
novellieri e comici e altri scrittori pel secolo decimo-
sesto. Menziona G. B. Gelli ueìV Errore (att. I, se. Il) la
Canzonetta, della quale panni resti tuttavia qualche
vestigio, (^) che dice:
Non è pili bell'amar che la vicina,
Perchè veder si può sera e mattina,
che il Cecchi rxeW Assiuolo (att. I, se. I) muta leg-
germente così :
Non ha il più bello amar che in vicinanza,
(1) Vedi più oltre, al v. 108 della Serenata del Bronzino. Il Giusti
nei Proverbi la dà in questa forma : Non è più hello amor che la vicina, La
si vede da sera e da mattina: pag. 44.
106 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
E nella stessa commedia si trovano questi due versi:
Amor, amor, tu sei la mia rovina
E la mia doglia e la mia passione (')
Nella Zaffetta del Veniero (") troviamo questi due
primi versi di una Canzone popolare, ricordata anche
dall'Aretino nel Mcmesccdco (att. II, se. YIII) :
La vedovella quando dorme sola
Lamentarsi con me non ha ragione.
Dove, se non fosse il secondo verso, ci parrebbe ritro-
vare quel che adesso cantasi tuttavia in Venezia:
La vedovela co' la dorme sola
La pianze '1 morto e '1 vivo la consola:
La pianze '1 morto, percli'el glie riiicresse,
E la ga '1 vivo che ghe fa carezze; (^)
0 la primitiva forma di quest'altra poesia diffusa in
tutta Italia, e che così suona nei dialetti meridionali:
La vedovella quanno 'u ffa hi lietto,
Co' gran sospiro vota le lenzola :
Po' sse mena la mane pe' hi pietto :
— So' carni cheste de dormire sola? {*)
Nella Santa Agnese del Cocchi Q si cita un fram-
mento della Canzone àoìV Anitra:
( ') Anche per questa canzone, verli pin oltre il v. 12 della Serenata.
("-) Parigi, MDCCCLXI, pag. 32.
(s) Dal Medico, pag. 159 ; Bernoni, iJimt. X, n. SO ; Gaklato, pag. -iO-l ;
Marsiliani, 121.
(■1) Imbiìiani, II, 211 ; cfr. Ticri, n. 550-551; Gianandeea, pag. 192;
Tommaseo, pag. 383; Vigo, n. 549; Ai.veeX, n. 37; Dal Medico, pag. 161;
Alburno, Villotte l'eHfs., Venezia. Orlanrlini, 1902, p. 35; Ive, pag. 114;
KoNDiNi, in Arch. tradiz. popol., VII, 173; Finamore, n. 621; Mabsiliani,
108; Marcoaldi, Guida ecc., 60; Nigra. pag. 579, ii. 112. E diretto non a
vedova: 'l'ulti m'han detto che dontiite sola ecc. vedi in Gianandrea, 1G7-171 ;
in Arhoit, pag. 156, nota al n. 158. Nella l'iovana del Kuzzante suona:
Stalo m'è ditto che ti dniomi sola ecc.: vedi E. Lovarini, Le Canz. popol.
in liuzzante, Bologna, Fava e Garagnani, 1888 (estr. dal Fropitgnatore),
pagg. 8, 29.
{j>) Drammi spirituali inediti, Firenze, Le Mounier, 1895, I, 194.
LA POESIA rOPOLAEE ITALIANA. 107
Chi mangerà, clii mangerà lo piede
Dell'anitroccolo?
che per intero, come mi attesta il prof. Gio. Giannini,
si conserva e si ripete nella montagna lucchese, enu-
merando, come per giuoco mnemonico, tutte le parti
dell'animale, cominciando dal capo:
Chi l'ha mangiata la testa
La testa dell'anitra mia? —
— E l'ho mangiata io —
— Testa con testa,
Facciamo la festa.
Oh bene mio, tirati in qua!
E aìi!
E dell'anitra' un ce n'è più ecc.
Vivente tuttavia è la Canzonetta del soldato,
rammentata dal Lasca nella Strega (att. IV, se. Ili):
Il soldato va alla guerra,
Mangia male e dorme in terra. (')
Lo stesso autore neW Arzigogolo (att. I, se. I) cita,
come fa pure Andrea Calmo, il principio della Can-
zone:
Tornando da Bologna
La scarpa mi fa male. (^)
Certamente popolare è pure anche ciò che canta
(ij I. NiEKi, ì'ita infantile e puerile lucchese, Lucca, Giusti, 189S, p. 61.
(2) Vedi V. Rossi, Le lettere di A. Calmo, Torino, Loescher, 1888, pa-
gina 437. Il Ricchi nei Tre Tiranni cita con qualclie diversità questa Can-
zone, ed altre due per giunta : " Anzi vo' dir:... 0 pecorar quando anderastù
al monte, o vero il: Ritornando da Bologna La scarpa mi fa male in punta.
0 pure: La vedovella quando dorme sola. Mi vien voglia di dire ad alta
voce II mal francioso di Stracin da Siena ecc. „ La canzone del Pecoraro.
ricordata ancbe, come piìi oltre notiamo, dall'ARETiNO, Ipocrita, III, 10
vedila in N. Boloonini, Usi e costumi del Trentino, Rovereto, Sottocbiesa.
1888, pag. 41; in Giannini, C. moni, lucch., pag. 203, in NEKrcci, in Ardi,
tradiz. popol., 11, 527, in Percoli. C. popol. roniayn., n. 13, in Xieri. C. popol.
lucch., n. 750. E vedi anche L. Frati in Giorn. Star. Lett. Ital., XX, 187,
11. 7 ; e LovAEiNl, Suzzante, pag. 31, e Aggiunta, pag. 14.!
108 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
Giaiiiiicco nel Manescaìco (att. II, se. YIII) dell'Are-
tino:
— Deh, averzi, Marcolina. ~
— Va' con dio, scarpe puntie. —
— Dell, aveizi, Marcolina. — (')
E poi segue con quest'altra:
Cara madre, maridemi.
Che non posso più durar ;
Caro pare, maridemi,
Ch' io la sento ....;(-)
che è una delle comunissime Canzoni di ragazze im-
pazienti della verginità loro. (^)
ìseW'lpocrito (att. Ili, se. X) entra cantando
Guardabasso ;
Tempo fu che bene andò,
Vissi lieto senza pene ;
Bene andò, che l'andò bene :
Or va mal quanto la può :
e Toltosi a Malanotte : Spiccane tu nndltra, Mala-
notte. E costui: Fara rirunfera, farà rirunfà. E Guar-
dabasso di nuovo : E quando e quando andrasiù al
monte, eli' è la citata Canzone del Pecoraro.
Negli Ingannati, commedia degli Accademici In-
tronati di Siena, la fante Pasquella canta (IV, 6) allo
Spagnuolo elie le vorrebbe entrare in casa, una Gan-
ci) Fu stampata nel sec. XVI ila Giovanpiero stampatore (v. H. Har-
RISSK, Excerpta Colombiniana , pag. 194). È riprodotta da V. Rossi, Lettere
cit. del Calmo, pag. 441.
(-) La Canzona si trova in una st.ampa del Vavassore di Venezia (mi-
sceli. Palatina E, 6, 5, 3, voi. II). Vedine mia antica versione in S. Ferkaki.
Documenti ecc. (in Propugnatore, XIII, 4.53) e altre pareccliie in Jiibliot. Leti.
popol., I, 333 e seg. e 371, nonché in Lovakini. Buzzante ecc., pag. 30.
e in Casini, Vn ì'eiìertorio giullaresco del sec. XIV, Ancona. 1881, p. 19. Per
versioni viventi, vedi Ferkako, C. ìuonferriniipag. 38 e C. di Ferrara ecc.,
pag. 100; Gianandrea, pag. 26G ecc.
(3) Per i consimili canti stranieri, vedi le indicazioni in Ferraro, C.
monferrini, p. 38. Altro indicazioni su questo tema abbiam dato a p. 19, n. 1.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 109
zone, la cui prima metà trovasi, com'è noto, nel
Docamerone :
Fantasima, fantasima
Che dì e notte vai
Se a coda ritta ci venisti
A coda ritta te n'andrai.
Tristi con tristi,
In mal'ora ci venisti
E me coglier ci credesti
E 'ngannato remanesti;
e prosegue:
Che fa lo mio amor ch'egli non viene ?
L'amor d' un'altra donna me lo tiene.
Le Canzonette del tempo sono ricordate anche
nelle sacre Rappresentazioni. Una Canzone a ballo: 0
cacciator che tanto cacciato hai, e che è pure nelle rac-
colte a stampa, (^) trovasi wqW Àbramo ed Agar, ed
altra consimile nella Santa Uliva: Su su alla caccia;
e Rispetti e Strambotti sono inframessi o richiamati,
come nel Miracolo del monaco. Un canto evidente-
mente poj)olare in lode di Zanella dal viso rosato è
introdotto nella Passione di Revello. (")
Copiosi richiami a Canzoni comunemente can-
tate si hanno nelle Commedie pavane del Ruz-
zante, e tutte sono state rilevate e illustrate dal
signor Emilio Lovarini, C) al cui diligente lavoro ri-
mandiamo il lettore. Ma se in queste commedie
destinate al popolo frequentemente sono citate Can-
zoni ch'esso conosceva e ripeteva, e così, come ve-
ci) Ediz. cit., 20.
(2) Origini del Teatro^, I, 319.
(3) Le Cam. popol. in Ruzzante e in altri scrittori alla. Pavana del se-
colo XV'I: estr. dal Propugnatore, N. S. I, 1 (1888 , e Aggiunte, ih., l, 2. Vedi
anche per altre citazioni in commedie, L. Stoppato, La commedia popol. in
Italia, Padova, Draghi, 1887, pag. 172.
110 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
demmo, anche in quelle dell'Aretino, weìBagionamenti
di questo bel soggetto, mescolati ai canti popolari,
troviamo in bocca di quelle etère, che sfoggiavano
conoscenze letterarie e si accompagnavano col liuto,
Strambotti anche e Ariette della società colta del
tempo. Popolare è la canzone, già sopra ricordata:
Che fa lo mio amore che non viene,
ma ad altro genere appartengono :
Divini occhi sereni
e così anche i canti figurati e i madrigali. O Altre
spigolature di tal fatta potremmo mettere innanzi: (')
ma basti il già posto in mostra. (^)
(1) I lìagionamenti, Firenze, libreria Dante, 1892, pagg. 15, 69; vedi i
madrigali a pag. 284-7, SO-t-T, 312 ; e perfino rime del Petrarca, pag. 141.
La canzone Che fa lo mio amore che non viene è ricordata anclie nella Xo-
veìle di P. Fortini. II, 13.
|2) Debbo al prof. V. Cortese l' indicazione di questo passo della
Maccaronea XV del Folengo (ediz. mantov. del 1882, II, 29):
Cingar cantabat lingua frifolante vilottas,
Quas toties nostros sensi cantare bretaros :
Gamhettam, Brorcam, rassandoque per 'na rigiolam.
Ma non ci riesce trovare le canzoni qui ricordate, e che almeno nel man-
tovano, dovevano esser notissime.
(3) Relegliiamo qui in nota qu.alche altra notizia. Il Sanudo nota nei
suoi DiarJ (III, 392) l'apparizione di un giovane che ne! 1501 andava per
Venezia cantando una canzone bela da udir, e ne reca il principio: Torela
nio, villan La pitta dil guarnel. Tu la farà stentar Con la zapa col restel. —
Dalla lettera di G. Vittorio Sodehini sulla morte del Duca Francesco I
(vedi GuEnRAZxi, Isabella Orsini, Firenze, Le Mounier, 1805, pagg. 185-191)
si apprende che verso la fine del sec. XVI v'era una forma particolare di
poesie popolari che si chiamavano Caterine, dall'invocazione fatta a una
Caterina, le quali dai due esempj arrecati sembrerebbero essere state di
genere satirico. — Il Manni nella Fi7a del l'accetti (Veglie Piacevoli, Firenze,
iliaci, 1815, III, 92) ricorda una Canzone, che verso lo stesso tempo correva
in Firenze per le bocche dei fanciulli sopra Sajone, oste dell'Inferno, e che
principiava: Sajone i sul tetto Che tira ai rondoni ; Gli casca i calzoni. Gli
casca i calzoni: il Ferrari nel giornale il Preludio (ann. V, n. 7) ne pub-
blicò due versioni antiche, e la canzona di .S.njone è a brani ancor viva nel
lucchese, o almeno ve n'è come un ricordo: Don, don È morto Saglion ecc. :
NiERi, Vita infantile e imerile lucchese, Lucca, Giusti, 1898, pag. 59; e vedi
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. IH
Non vogliamo tuttavia ommettere il ricordo che
in un libro del Cinquecento si trova di una specie di
lamento, che trasformandosi sempre piìi, fino a per-
dere il nome dell'eroina, e fin dal secolo XV lar-
gamente spargendosi in tutta Italia, offre prova
indiscutibile dell'antichità sua e della sua nobiltà.
Nel libro di Giovanni Sabadino degli Arienti inti-
tolato Ginevra de le dare donne, parlandosi di Isa-
bella di Lorena moglie di Renato d'Angiò, che mentre
il marito era prigioniero in Borgogna, nel 1435 fece
qualche cosa di simile, in Rondini, pag. 19-3. — II Redi nelle Annotazioni
al V. 417 del Ditirambo ricorda la Canzone dei bevitori fiorentini, detta
il Bombahahà, che comincia: Con questo calicione Si cavea la balestra: Chi
ha 'l bicchiere in mano Al suo compagno il presta, E mentre ch'ei dirà, Xoi
direm: Bombababà. Su questa canzona bacchica, vedi A. Zenatti, in Arch.
Stor. Trieste e Tr.,\, p. 67, F. Novati, ivi, I, p. 206, e Villanis, Sa^firéo ecc..
pag. .32. Una lezione moderna vivente nel lucchese, è in Giannini, p. 248.
\In Bombabà del Lasca è nelle sue Rime, ediz. Verzone, Firenze. Sansoni.
1882, pag. 1.39. — Nella annotazione al v. 720 lo stesso Redi ricorda que-
st'altra Canzone dei bevoni: Il buon vin non fa mai male A chi 7 beve allo
boccale. — Il Vai nel Lamento di Cecco da Montui fa menzione della Cuccn-
rucìt (ricordata anche dal Redi nell'annotazione al v. 855 del Ditirambo, e
riferita frammentaria dal Ferrari, Bibliot. ecc., I, 2.53) e della Bemaccalà,
Canzoni del tempo. — E pur sempre il Redi nel Dialogo con Apollo (pubbl.
da G. Imbert, Bacco in Toscana, Città di Castello, 1890, p. 194) menziona
oltre la Cuccurucù, anche altre due Canzoni: YAnturutìi e il Maestro Ber-
nabò. — Kon so se veramente sieno Canzoni popolari o inventate dall'autore,
queste di che si parla nell'att. 2» se. 2» della Tancia:
Cantiamo in questo mentre uno Strambotto.
Di que' che no' cantammo all'Impruneta. —
— Deh diciam quel che dice : Non far motto.
Bercili tu se' fanciulla, e statti cheta. —
Mainò, quel che comincia : /' ho diciotto
Bacili alla frasca, e vo' far della seta. —
— Ko, no. questa canzona sì, ch'è nova.
Che principia cosi: Chi Amor non trova. —
Il Doni nei Marmi, p. Ili, Sagionam. dei Sogni, riferisce questa Canzone
che " si dice in Firenze „ :
Rosso mal pelo
Che schizza il veleno,
Di di e di notte.
Che schizza la botte. —
Il Berni, Capit. sul Diluv. di Muggello rammenta " quella Canzona che dice:
112 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
vela per Napoli, combattè contro Alfonso d'Aragona,
e solo nel "41 tornò oltr'Alpi, così è detto : " Guere-
zando dnncba la regina Isabella come fusse stata usa
e perita ne l'arme, et in molti locbi prospeciendo,
in fine, come Fortuna volle, cbe a' belli principii vo-
luntier contrasta, il re Alfonso prese la Puglia cum
Basilicata; per il cbe allora si cominciò a cantare
quella cantilena :
Per Dio, non mi cliianiate più Regina,
Chiamateme Isabella sventurata ;
O ve' haja ! „ E nel Capii, della Piva dìi il principio di due brillate: Cavalra
SII, cfiral B((Jardo, e II Marchese. E nel Mogliazzo: Chi seiniita il basilico. —
Nel Lasca, Mime, pag. 649, è ricoi'data la Canzone AeWa. Bella Franceschina,
riportata per intero da V. Eossi, Lctt. di A. Calmo, pag. 415; vedi anche
LovAEiNi, Russante, pag. 35 e Aggiunte, pag. 17. — Copiosa mèsse di canti
napoletani del secolo XVI ci dìi G. B. del Tufo in qnel suo Ritrailo o mo-
dello delle grandezze, delizie e maraviglie della nol/ilissinia città di Xapoli,
del quale un largo sunto lia dato G. Voi.picella (G. B. del Tufo illustra-
tore di Nai>oli del sec. XVI, Napoli, St. Università, 1886). A pag. 41 tro-
viamo una Ninna-nanna: O suonno, o suonno, igieni da lo monte, tuttora
vivente (v. Molinabi-Del Chiaro, p. 13), ed altre ora sparite. A pag. 68
si riferiscono Canzoni di Natale e Capo d'anno; e fra queste, quella Che possi
fa no figlio imperatore, ricorda l'altra die riferimmo qui addietro. A p. 171
e sgg. si menzionano varie canzoni del tempo, come Garzonarella mia, gar-
zonarella, ricordata anche dal Galiani: Non ti ricordi quando con gli sguardi;
Xon so, faccia mia bella, la cagione: Se vai all'acqua, chiammame, commare;
Ora che ogni animai riposa e dorme; Xon veggio al mondo cosa; Ombrosa
ralle; Ha preso moglie, fate ben per voi ; Poco promette chi n'attende mai;
Xon per viver da lunge ; Mentre l'aquila sta mirando il sole; Fuggendo il
mio dolore; Tosto che il sol si se uopi ra in oriente; Datemi pace o duri miei
pensieri: Amor, deh dimmi come; Mentre campai contento; Tu si' di Xola
e. io di Marigliano; Guarda di chi m'iette a 'nnammorare ; Sciosame'ncanna
lo napolitano; Donna solo mio core; Chi mira li occhi tuoi ; Occhi dell'alma
mia vivaci soli ; L'inverno quando fiocca; Donna mi fuggi ognora; Tu se'
la calamita; Quella catena ond'io legato fui; Porsi morir volea ; Empio cor,
rruda voglia e fera mano; ^'estiva i colli e le campagne intorno; Che fai,
alma, che pensi?; Aura soave più d'ogni altro vento; O bella, bella, menarne
no milo. Ma sebbene il Del Tufo le dica cantate da cositori e artigiani, le
più sono senza dubbio di carattere letterario; veramente popolari saranno
soltanto quelle vernacole. Vedi sulla i^oesia popolare napoletana dei tempi an-
dati, S. Ferrari, Antiche canzoni napoletane, nei Xuovi Goliardi, agosto 1RS4;
B. CapaSSo, Sulla p. p. napolel,, in Arch. stor. prov. meridion., Vili, 316;
>I. ScHERli,LO, / C. pop. nelV Opera buffa, in G. B. Basile, I, passim, e in
Appendice alla Stor. letter. dell'Opera buffa, Napoli, tip. Università, 1883,
e B. Croce, Appunti di Ietterai, popol., in Arch. tradiz. pop., XIII, 103 ecc.
LA rOESIA POPOLARE ITALIANA. 113
Hajn perduta Capua gentile,
La Puglia piana cum Basilicata. (')
Nei canti napoletani restò donna 'Sabella :
Nu 'nime chiamati ccliiui donna 'Sabella
Chiamatemi 'Sabella spentuiata :
Foi patruna de trentatrè ca.stella
De Puglia chiana e de Basilicata; ('^J
e furono fatte molte congetture per sapere di chi
si trattasse: se d'Isabella d'Aragona, come proposo
rimbriani, o d'Isabella Villamarina, come pensò il
Minieri-Riccio, o d'Isabella di Cliiaromonte; ma l'at-
testazione dello scrittore bolognese determina la
persona. Se non che anche a Napoli si era andata
obliterando la memoria della lorenese: e in un li-
bretto di opera buffa del Lorenzi, musicato dal Pic-
cinni, essa cantava :
Non songo Aurora chiù, non so' più chella
Songo na pellegrina sfortunata ;
Non me chiammate chiù donna Sabella,
Ah menicò, menicò, nienicò,
Chiammateme Sabella sbenturata.
E in Toscana, perduto ormai ogni vestigio di dignità-
regale, non fu pili che la biondina bella:
Non mi chiamate più biondina bella
Chiamatemi biondina sfortunata. (")
Anche pel secolo decimosettimo abbiamo qual-
che notizia da raccogliere negli scrittori. Così Ales-
(1) Pag. 98 della Ginevra pubbl. da C. Ricci e A. Bacchi della Lega
Bologna, Romagnoli, 1888.
(-) Imbriani, 11,428-429; Molinari Del Chiaro, p. 2;3(); Congedo, p. -SI.
(^) Vedi il G. B. Basile, Ai-ch. di leltei: popò!., VI, (34; S. Di Giacomo,
Cronaca del Teatro di S. Carlino, Napoli, Bideri, 1891, pag. 129. Ho trat-
tato più ampiamente di questa Canzone di Donna Isabella nel FanfnUa
della Domenica del 29 gennaio 1888, e nella Strfnna genovese }ìei Baclii-
tici, anno VI (1889), pag. 33.
D'Ancona, La poesia j^op. ita!. — 8
lU LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
sancirò Tassoni nel canto IV della Secchia rapita pone
in scena la squadra del Fontanella, che si udiva (ma
la Canzone, ricordata anche dal Folengo e dal Doni,
era ormai vecchia):
Cantar non lungi la Rossina bella. (')
Ove il Salviani annota : " La Piossina è una Canzone
triviale che si canta in Lombardia, e cominciando
dalle chiome dice: Che beile chiome ch'à la mia lios-
sina ! Bossina bella, fa lì là là là: Viva l'amor echi
morir mi fa, e cosi va seguendo „. E si canta anche
adesso; salvo che il nome dell'eroina è mutato, e il
primo verso oggi suona: Cìie bei capelli ch'à la mia
Marianna. (")
Ma una maggior copia di Canzoni popolari can-
tate nel Seicento ce l'indica l'Opera nova nella quale
^i contiene una incatenatura i^) di pili Villanelle ed altre
cose assai ridiculose, data in luce il 1G29 a Verona
per me Cammillo detto il Bianchino, cieco fiorentino. È
dunque questo il repertorio di un giullare da piazza,
di un cantastorie, di uno di quei poveri ciechi, che al
suono del violino attraevano, e ancora attraggono la
plebe intorno a se nelle piazze. Se tanto caso, e giu-
stamente, si fa dagli eruditi delle Canzoni provenzali
di Guiralt de Calenson e di Girauz de Cabrena e del
favolello francese des deux Troveors ribauz, dove si
enumera il patrimonio poetico di un giullare del se-
colo decimoterzo, vorrà farsi certamente buon viso a
(1) Vedi V. Rossi, Lett. del Calmo, pag. 413.
{-) Vedi una versione romagnola in Fekuoli, n. 29. Cfr. colla enume-
razione delle bellezze AeUa. Margariciou, in Jieviie rles lang. roman.,\y , llii.
o 11^ Sèrie, II, 289.
(3) In Francia lo pelitea pifces componeés des 2»'ein%cr.i vers oii de re-
frain des chaitson en vogue furono dette: fricassde: vedi E. Picot, La sottie
en Trance, extr. da la Jiomania, pag. 7.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 115
questo componimento del cieco italiano, C) che ci fa
sapere quanta ricchezza di Canzoni popolari potesse
egli spacciare agli amatori del genere. Delle quali
molte risalgono al secolo anteriore o più oltre: salvo
che, laddove già erano insieme sonate, cantate e bal-
late, O adesso, mutati i tempi e i costumi, andavano
soltanto sul suono e sul canto. Ecco intanto la Can-
zone del cieco : C)
Molte Canzone, burle e bagattelle
Io vi voglio cantare,
Di vecchie e nuove, delle brutte e belle.
Se mi state ascoltare.
Or io vi vo' pregare.
Tutti, per cortesia.
Vi prego udire questa bizzarria,
Per vita mia,
Che si canta per Milan
(1) Riprodotto auclie uel Muellek-Wolf, Egeria, pag. 53.
(-) Ciò si rileva da parecchie Canzoni a ballo: Ciascuna halli e canti
Di questa schiera nostra (Canz. 72)— Ballerò con voi cantando Poi cJie cos'i
vuole Amore (Canz. 83) — Lasciam ir maninconia Da poi che di Maggio
siamo: Canti e halli noi facciamo; Quel ch'à esser convien sia (Canz. 134i —
Chi non è innamorato Esca di questo ballo, Che sarta fallo — a stare in s'i
bel lato fCanz. 109), che ricorda una Canzone maggiajola provenzale : Tuit cil
qui sunf enamourat Viegnent dancar, li autre non (Romania, I, 405). Le an-
tiche stampe delle Canzoni hanno sul frontispizio. 1" una un ballo di do-
dici donne davanti al palazzo Mediceo, e in faccia Lorenzo e un po' dietro
il Poliziano : due donne sono inginocchiate davanti al Magnifico, e una di
esse togliesi di testa la ghirlanda porgendola al Signore, che mostra di
ricusarla; e questa è riprodotta nel frontespizio delle Canzonette antiche
dell'ALVisi. L'altra stampa rappresenta il Magnifico, sempre davanti al suo
palazzo; e gli occhi delle donne danzanti sono fìssi su di lui, che il po-
polo mascherato da carnevale attornia, presentandolo di qua' bericuocoli e
confortini da lui cantati ; e questa è riprodotta in alcune copie delle Can-
tilene e Ballate del Caeducci. Altra bella silografia antica, tolta dalle Can-
zone 2)er andare in maschera lìer carnesciale, rappresenta personaggi ma-
scherati, uomini e donne, che cantano e suonano davanti al palazzo Mediceo:
alle finestre molte donne, Lorenzo per la via; e fu riprodotta da E. Levi,
Lirica ital. antica ecc. Firenze, Olschki, 1905, pag. 201.
(3) Per identificare le Canzoni dell" incatenatura mi sono giovato spe-
cialmente di due scritti di S. Fere ahi. Canzoni ricordate nelV incatenatura
del Bianchina (in Giorn. Filol., Romanza, III, 51) e L'incatenatura del B..
Xuoae ricerche, in Giorn. Ligustico, XV, 1888. Altre incatenature sono ad-
ditate dal Fereaki in Propugnatore, XIII, 432 e in Bibliot. Lett. popol., I, 115.
116 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
D'un certo gobbo Nan :
Qìian, quan,
Asta visto lo gobbo Nan? (^)
Perchè questa Canzona è un poco antica
Io la vo' qui lassare :
Io non ci starò a fare altra replica,
Altra ne vo' trovare ;
Se mi state ascoltare,
Dirò ben volentieri:
Vola, vola, pensier, fuor del mio petto,
Valine veloce a quella faccia bella
Della mia chiara stella.
Dille cortesemente con amore:
Eccoti lo mio core. {-)
Se la prima fu antica, questa è passa:
Or sì ch'è graziosa !
Bisogna andar nel fondo della cassa
Per trovar qualche cosa.
Oh quest'è dilettosa,
Ch'io vi vo' far sentire :
E di qual volem dire?
Eh direm della Violina,
Re, mi, fa, sol, la. (^)
(1) A questa canzone si riferiscono Le tremende hrarafe fatte dal Gobba
Xeni contro coloro che van gridando per Milan Quan, Quan astu vesto lo
Gobbo Kan, di G. C. Croce; vedi Guerrini, La vita e le opere di G. C. Croce,
Bologna, Zaniclielli, 1879, pag. 434, ed il Ferrari (Giom. Filol. lioin.,
pag. 54) e Bibliot. ecc., p. 211, che la riferisce per intero.
(2) Vedi in Ferrari, <?. FU., 56, e G. Lig., Nuove ricerche, pag. 2. Ebbe
parecchie tramuta/.ioni, additate dal Ferrari e si riproduce ancora nella
raccolta popolare: Ardor d'Amore. Fu attribuita al Tasso, e non è impos-
sibile che sia di lui, secondo A. Solerti, Giom. Stor., XII, 30S, XIII, 458. Si
trova con .altri canti musicali del tempo in un nis. della biblioteca di Vienna,.
Vedi HuRCH, Italien. Volkslied. d. XVI, J., in Herrig'S, Archiv, LXXXVII, 446.
(3) Il Ferrari ((?. FU., 58) ne conosce due rimaneggiamenti ed una
tramutazione: dei primi l'uno è eertamente del Croce (vedi Guerrim, pa-
gina 376), l'altro, forse anche: della seconda, l'autore è il Sivello : e sono
tutti comparsi a luce dal I.'jSO al 1620. Violina divenne nomo di un genere
(li contrasto fra padre e figlia per la scolta del marito. Un'ultima eco ve
n'è nella canzona popolare toscana:
0 Violina tu hai le gote rosse;
O babbo mio, me l'han tinte le more ecc. :
della quale una varia lezione è da vedere in Nieri, p. 64. Un canto antico
della Viola è in Casini, Due antichi repertorj poetici {Propugnatore, N. S.,
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 117
Questa la san per infino alle putte,
Ma è bella da cantare :
Che la piace alle donne belle e brutte,
Che si von maritare.
Una ne vo' trovare,
Ma questa va in sull'arpe :
Chi t'ha fatto le belle scarpe,
Che ti Stein sì ben,
Che ti stan sì ben, Giroìuetta.
Che ti stan sì ben ? ( ')
Mi risponde il meschino innamorato
Che amore è in lui possente :
— Vorrei qualche versetto appassionato,
Che mi allegri la mente. —
II, 259). Nelle Xuot^e ricerche, pag. 4. il Feeraei riferisce il modo ii-sato
anche dal Lippi {Malm., IV, 69) Dir della Violina, che il Vocabolario spiega :
Dire 2'cirole d'impi-ecazione. T. Cannizzaeo nel Glorn. FU. Hom., IV, 184
reca una lezione .siciliana della Violina, con.simile alla toscana citata.
(1) Della Girometta (o delle Giromette, perchè fin'i coll'esser designa-
zione di un genere) parlò S. Feriìaei in Un cenUme (Propugnat., XIII, 1.
pag. 438) e poi nel Giorn. FU. Boni., IV, 85, e nel Giorn. Ligust., XV, estr.
pag. 8, addiicendo di essa parecchi testi, e parecchie testimonianze della sua
notorietà. A queste ultime si aggiunga un passo di S. Amjiieato (NorelU,
Bologna, Volpe, 1856, pag. 10): E che direte voi del mio cane, il quale canta
la Ghirometta?; e uno di un sonetto del secolo XVIII (v.V. Rossi, Calino,
pag. 410). E lo stesso Ammieato ne fa sapere il luogo d'origine, scrivendo
che ai tempi di re Francesco di Francia era uscita allor per Venezia questa
Canzone in campagna e cantavasi da jiiccoli e da grandi, di giorno e di notte,
per le piazze e per le ine, sì fattamente che ciascuno aveva di continuo gli
orecchi intronati dal tuono di questa Canzone (Ojniscoli, Firenze, 1637, II, 176).
Altre testimonianze sono raccolte dal Lovaeini, Buzzante, pag. 33 e Ag-
giunte, pag. 12, nonché in nota ai Trionfi nel dottorato di Marcìiion Settnla
del Croce, ristamp. per laurea Battistella (Padova, Gallina, 1898, pag. 22);
e fra queste è notevole quella di C. Spontone nel dialogo il Botrigaro, dove
ricorda come comunemente cantata in Bologna da fanciulli quando su V
lauto e su la viola e quando su l'arpicordo, or con le pive a hallo e final-
mente ridotta a ragion di musica... con tromboni, cornette e cornamuse du
sonatori eccellentissimi alla ringhiera di Palazzo maggiore e con soddisfa-
zione grandissima del popolo ascoltante, sonata in alcuni tempi festevoli, la
Canzone : Chi t'ha fatto quelle scarpette che ti stan si ben, Girometta ? La
ricordano più tardi il Malispini (v. Rqa, in Arch. trad. xiopol., IX, 490} o
il Fagiuoli, dicendo: Alla cetra talora il capo gratta E poi vi canta su la
Girometta (Biine piacevoli, VI, 226}. In Piemonte re.sta un probabile fram-
mento dell'antica canzone (v. Nigra, 123); ma di essa in altri canti (ibid. lor.
e Fekeaeo, C. pop. del basso Monferrato, 27) non rimane che il solo nome di
Girumetta. Sembra vivente ancora nel Vicentino: vedi F. Lampeetico, Scritt.
star, e letter., Firenze, Le Mounier, 1882, pag. 400.
118 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
Se Amor ti fa dolente
Comincia meco a dire:
Qnal più cvudel martire
Dar mi potevi, Amore,
Che farmi schiavo d'un ingrato core!
Di te, Amore, mi son lamentato
Cieco e f anelili coti l'ale;
Perchè chi è innamorato
Lo strtiggi e lo fai tale? (^)
Or questa pasturale
Volete eh' io vi scriva ?
Lnngo està verde riva
Viviam lieti e contenti,
Vagheggiando la Diva
E pascendo gli armenti.
Ognun canta l'ardore
La pena ed il dolore — ch'Amor dà,
E i sollazzi che porge
A chi seco si sta. (")
Or queste pastoral piacciono assai,
Che sono arie galante:
Dissi la prima parte, e poi restai,
Perchè su questo stante
Mi soYvien d'un amante,
Che cantò in sulla lira:
0 trecce, die intrecciate a chi vi mira
Con un legame che mai non s'astoglie.
S'io v'amo e se v'adoro, a voi che toglie ?
Oh vo passando il tempo allegramente
Con queste canzoncine.
Per dare spasso a tutta questa gente !
Le fo corte o piccine :
'Naiizi ch'io venga al fine.
Dell'altre io te n'arrivo:
Perchè in tìdto mi hai privo
Di que' begli occhi ond'io giojoso vivo?
(1) Il Ferrari, Giorn. FU., pag. 79, ne addita una lezione un po' di-
versa nel cod. ricc. del sec XVII, 28-19.
{-) L'intera pcistoraìe è in FnitRAUi. Giorn. Fiì.,\ìng. 80, dal cod. 28C8
liccard.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 119
Lasso, che farò io ?
Morrò, morrò, cor mio. (^)
Una me ii'è venuta in fantasia
di' io non la vo' lasciare :
Al mio giudizio par che bella sia,
Io ve la vo' sonare.
Questa si può cantare
Innanzi e dopo cena:
Ora che a noi rimeiia
L'alma Primavera
E con Sila bella schiera
La stagione serena,
Oh giovanetti amanti
Intrecciate gli onori,
E con soavi canti
Raddolcite i cuori.
Adesso m'è venuto un certo umore
Da far tutti stupire ;
Ma per mostrar eh' io vi son servitore
Ve la vo' far sentire.
Mi vien voglia di dire
Questa, che ognun la chiede:
Se mia sincera fede
È degna di mercede.
Perchè siete. Signora, sì crudele
A un amante che v'è s) fedele? (^)
Una Canzona beila e capricciosa
Or mi vien per la testa ;
Chi vuol sentire una vita giojosa
Di grazia senta questa;
Poi che m'è stata chiesta.
Di cantarla fo patto :
Esser giovan, ricco e inatto,
Fa là là, lì là, lì là ;
Non è piti bel mestiero
Che non aver pensiero:
Fa là là, lì là, lì là.
(1) Una consimile villanella ytapolitann è riferita dal Fekeaei, Gion>.
FU., 81, dal cod. riccard. 2868.
(2) Riferita per intero dal Ferrari, Giorn. Lìg., 22. da un cod. uia-
gli.ib. Vn, 7, 218.
120 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
Già una volta Amor mi fé' infelice
Ox" più non mi tormenta ;
Non canterò d'Orfeo o Doralice,
Che piìi non mi talenta:
D' una sposa contenta
Io vo' cantarvi or ora :
Tir idolo, vieni a letto.
Sentirai sonar l'archetto,
Dolcemente la viola:
Vieni a letto, Tiridola. {')
Passando a caso da una certa strada
Dov'io sentii sonare,
Io mi fermai alquanto e stetti a bada.
Cominciorno a cantare
Un certo lamentare
D' nn, che così diceva ;
AiìiariUi piangeva
La morte d'tin pastor, che le preì>ieva ;
Essa V chiama con viso malinconico.
Jonico, jonico, jonico. (^)
L'altr'ieri io mi venni a dimandare :
Che volontà è la tua?
Per cortesia state ad ascoltare,
Ch'è ben cantar la sua.
Questa va bene in dna,
Ma che sien voci tremole :
E quando Cahalao vendeva menole,
Adesso va gridando: aghi da poniole.
Agucchie da Lanzan per le pettegole. (^
Chi va sentendo questo mio umore
Par che sia cosa strana;
Ma per mostrar ch'io vi son servitore,
Cantar vo' alla A^eneziana.
Oh, questa è a la romana,
Va ben col violino :
(1) Fu musicata da Orazio Vecclii (Selva eli ravia ìicreazione, Venezia,
Cardano, 1.590) ed è riferita per intero dal Fickiìaiìi, Giorii. Ligust., p. 2'!.
(-1 Tratta dalla raccolta di bellissime canzonette musicali modevne,\ì-
cenza, Salvadori, 1G22, è riprodotta dal Fekrari. Giorn. Lig., 2.5.
(3) La canzone di Gabalao, forse originariamente veneziana, fu rifatta
dal Croce : vedi Febeari, Giorn. FU., 83.
LA POESLl POPOLARE ITALIANA. 121
Fra Giacopìno, fra Giacopino
Da Roma si partita. (')
Noti posso più cantar, ch'lio detto assai,
Io ri bacio la mano :
Così cantando d'Amor mi biulai,
Per eh' io ne son lontano.
E questa ancor pian piano
So che l'avrete a caro :
E tre donne mi riscontraro
Per la via dello casteìlu,
L'una e l'altra mi domandaro
S'io portavo moscatellu :
L'ita mi fece : eh !
L'altra mi fece: ah!
L'altra mi fece: iih !
Ed erano assai galanti,
Tutte e tre hallacano.
E per usare termin di creanza,
10 vi voglio pregare
Se nel mio dire ho fatto fallanza
Mi abbiate a perdonare.
Questa io vi vo' insegnare
Per quando andate al ballo :
Caterina dal corallo,
Lievu su, che canta il gallo,
11 gallo e la gallina, là là dirndon. (-)
Innanzi che di qui faccia partenza,
Ne vo' dire una ancora :
Per cortesia abbiate pazienza,
Che mi ricordo or ora
Che una bella signora
Me la insegnò in Livorno:
TJna gatta e una cornacchia l'cdtro giorno
Facendo a una gallina un malo scherzo
TJna co' graffi e l'altra con lo becco,
(1, Vedi questa canzone, tratta dal cod. ricc. 2849, in Feekaei, Giorn.
Filoh, 84.^
^•-) È nella Selea del Vecchi come Margarita dai corai, e di là l.i
trasse il Fekkaei, Giorn. Lig., 20. Si canta ancora nel veronese e nel tren-
tino : vedi Ferrari, Giorn. FU., 8.5, e X. Bolognini, Fiabe e legg. del!"
Valle di Se.idena, Eovereto, Sottochiesa, 1881, pag. 8; e nel trevisano: vedi
I. XiNNi. Feste tradizionali nella Trevisana, Venezia, Longhi, 189-3, pag. 10.
12'2 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
Cro, ero, ero,
Gnau, gnau, gnau,
Cornacchia e gatta
E lo Spagiinol gridava: maranìatta, malta. (^)
Statemi ad ascoltar per cortesia
Se vi pare il dovere :
Ne ho dette tante per la compagnia,
La mia non vo' tacere.
Voletela sapere
Quale Canzon la sia ?
La hnmettina ìiiia
Con l'acqua della fonte
La si lavò la fronte,
E 'l viso e 'l petto. (^)
Ormai, Signori, dette tante e tante.
La mia voce è straccata :
Io vo' finir con questa d' un amante
Tradito dall'amata.
Oh che l'è SI garbata
A cantarla in ischiera :
Dov'andastii, jersera,
Figliuol mio ricco, savio e gentil ?
Dov'andastii jersera ?
Quant' io m'avveggo, questa è troppo lunga,
Doveva esser la prima:
Non aspettate che piti ce ne aggiunga,
Che mi manca la rima ;
Con questa che si stima,
Adesso io vo' iinire ;
"Noi ci vogìiam juirtire
Da voi, lieti e contenti.
(^1; È evidentemente ima Canzone fanciullesca, come quello recate
iieiriMBRiANi, II, 199, segg.
(■-) Fu già attribuita al Poliziano e voramcnto dice: Sì tara il d'i la
fronte E 'l seren petto. Ora, come piìi addietro dicemmo, è stata rivendicata
a Baldassar Olimpo da Sassoferrato, da S. Fkriìaki, A proposito di 0. da S.,
(Bologna, Zanicliclli, 1880) contro A. Luzio, La brunettinn del Polis, e 0.
da S., in X. Anlol., 30 sett. 1880. Anche il Cecchi ne fa menzione negli
.Sciamiti (Att. Ili, se. 2"), non che il Bkacciolini nel liavanello alla Nen-
ciotla: " JN'è cantar Cor mio las.so, o la Brunetta „ ; o continuò a ripetersi
sino ai nostri giorni; anzi si ripeto ancora, ballando, l'ultimo giorno del
Carnevale in Casentino: v. Jetta-Giannini, in Arc/t. trad. popol., XX, 20'J.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. " 123
Perchè il nostro desire
È di seguir gli armenii,
E voi con passi lenti
Seguite Amor cantando. (')
Di queste Canzoni la maggior parte è caduta
dalla memoria dei volghi: (') diciamo la maggior
parte, perchè, oltre quelle via via notate come ancora
(1) Riportata dal Fekkaki, Giovn. Lig., 26, dal coil. riccard. 2398.
(-) Molte di queste vecchie Canzonette narrative e descrittive sono
state riprodotte negli nltimi tempi, spesso con accurate illusti'azioni ; e ri-
cordiamo, fra le altre, le seguenti stampe :
T. Casini, Vn Canzoniere popolare, in Hass. Setti)ìì.,Yll, 313, 15 mag-
gio 1885, e Un repertorio giullaresco del secolo XIV, Ancona, Sarzani, 1881
(estx*. dal Preludio).
B. WiESE, Poesie edite ed inedite di L. Giustiniani, Bologna, Roma-
gnoli, 1883.
E. Alvisi, Canzonette antiche, Firenze, libr. Dante, 1884. Contiene le
Canzonette menzionate dal Boccaccio, la Canzone di Lisabetta di Messina,
e Canzonette popolari diverse, più un Indice di capoversi di canzoni po-
polari profane, citati per la musica in capo alle Laudi.
F. NovATi e F. C, Pellegrini, Quattro Canzoni popol. del sec. XV,
Ancona, Morelli, 1884 (per nozze Ventuii-Fanzago),
B. WiESE, Keunzehn Lieder L. Giustiniani's nach den altern drucken,
Luddwiglust, 1885, e in Miscellanea Caix-Canello: Einige Dichtungen L. G.,
pag. 191.
F. NovATi, Malmaritata, Canzono a ballo lombarda del secolo XV,
Genova, Sordo-muti, 1890.
M. Menghini, Canzoni antiche del popolo italiano, riprodotte secondo le
cecchie stampe, Roma, Forzani, 1890. La raccolta rimase interrotta a pag. 15(5.
Contiene: Tre Canzone di Fortunato (la figliuola die chiede marito alla
madre, la risposta della madre, il lamento della mal maritata), una Esorta-
zione ai padri di famiglia: la Canzone della congiura delle Massaie, e la
Risposta, la Canzone sopra le malizie e pompe delle donne, la Canzone di
Giambrunaccio col Maciulla, la Barzelletta contro le Massarette, la Canzone
del sig. Hieronimo, il lamento del Moro appiccato a Ferrara, il lamento di
Bastiano detto il Garrotta, il lamento dell'ebreo battezzato, le Frottole e le
ottave per la questua di San Martino, la Canzone alla schiavonesca di
S. Martino, l'Omo pizinin, la Frottola sull'abolizione della tassa sul maci-
nato, due zingaresche, il Contrasto di un massaro, ecc.
L. F. Valdeighi, Il Lihio di Canto e di Liuto di C. Bottegari, Fi-
renze, Orlando, 1891.
C. Volpi, Poesie p>opol. ital. del seeolo XV, Verona, Tedeschi, 1891.
V. CiAN, Le Hiine di Bartol. Cavassico notaio bellunese della prima
metà del secolo XVI, ecc. Bologna, Romagnoli Dall'Acqua, 1894 (2 voi.).
M. Menghini, Cantilene e Canzoni antiche (per nozze Gnoli-Parisani).
Roma, tip. Sallnstiana, 1894.
V. CiAN, Ballate e Strambotti del secolo XV, in Giorn. Stor. Letterat.
Ital., IV, I.
124 LA POESIA POPOLARE ITALL^XA.
superstiti, di una intanto jiossiamo dire che è tut-
tavia fresca e viva, ed è la penultima menzionata.
Sappiamo infatti dal nostro cieco che essa cantavasi
nel 1629 : da nn accademico fiorentino, il canonico
Lorenzo Panciatichi nella sua Cicalata in lode della
Padella e della Frittura, recitata alla Crusca il 24 Set-
tembre del 1656, ne abbiamo conferma in questo
passo : " Ricordatevi a questo proposito di cpel no-
stro accademico che fece quella bella osservazione,
che è tanto piaciuta, sopra quella Canzone:
Dove aiulastù a cena, fìgliuol mio,
Ricco, savio e gentile ?
dove dicendo il figlio alla madre, ch'egli era stato
avvelenato con un'anguilla arrosto, e domandandogli
la madre dove la dama glie ne aveva cotta, rispose:
nel pentolin dell'olio. Ora avvedendosi questo gran
critico dell'errore preso in dire anguilla arrosto e
cotta nel pentolin dell'olio^ mutò quella parola arrosto,
e disse in guazzetto :
Madonna madre.
Il cuore sta male
Per un'anguilla in guazzetto „. (')
Ma se alcuno avesse vaghezza di conoscere questa
Canzone, che anche adesso si ripete, e che ha indu-
bitatamente due secoli e mezzo, se non più, sulle
spalle, e che si è perpetuata per sola tradizione orale,
eccola qua, come l'abbiamo raccolta dalla viva voce
di un cantore giovanetto del contado pisano:
— Dov'eri 'ersera a cena.
Caro mio figlio, savio e gentil?
Mi fai morire
Ohimè !
(1) Scritti varj, Firenze, Le Momiier, 1856, pag. 32.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 125
Dov'eri 'ersera a cena,
Gentile mio cavalierV —
— Ero dalla mi' dama ;
Mio core sta male,
Che ]nale mi sta !
Ero dalla mi' dama :
'L mio core che se ne va —
— Che ti diènno da cena,
Caro mio figlio, savio e gentil ?
Mi fai morire,
Ohimè !
Che ti diènno da cena,
Gentile mio cavalier? —
— Un'angailletta arrosto.
Cara mia madre ;
Mio core sta male,
Che male mi sta !
Un'angailletta arrosto,
'L mio core se che ne va. —
Se non che a questo punto v'è una lacuna, e si
viene quasi subito al testamento; cosicché sarà piìi
opportuno dare una lezione non toscana, (') ma piìi
compiuta: quella comasca, raccolta dal Bolza: anche
perchè il paragone fra tutte le versioni, del cieco,
(1) Vi è ora la lezione pistoiese del Montale pubbl. dal Nertjcci, ia
Avch. tradiz. popol., II, 526, e la lucchese in Giannini, p. 199. Nel Leccese
questa Canzone, che va col nome de Ih cavalieri e fiylìii de re, comincia
a questo modo :
— Ca te mangiasti iersira,
Cavalieri e figliolo de rre ?
— Me mangiai 'na nguilla .nll'oglio;
Signnra mia madre, mi seiitu muTi. -
— A dhu la cuceuasti,
Cavalieri e figliuolo de ne ? —
— Intru a nu stami d'oru.
Signura mia madre, mi sentu muiì ecc.
Vedi A. Trifone Nutricati Briganti, Intorno ai Canti e Baccanti popol.
del Leccexe, Victor Thaler und Geselshaft-Wien (sic!;, 1873, pag. 17. Due
diverse lezioni del giovane tradito dalla dama, e di una giovane avvelenata
dal cognato, riferisce V. Labate Caridi nel voi. XVI, l-_'9, iìcW'Arcli. per le
tradii, popol., e una lezione di Acri è riferita nel giornale La Calabria, I,
126 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
del canonico, del contadino toscano e del lombardo,
faccia vedere come una stessa Canzone attraversi
i secoli, modificando talvolta linguaggio, parole e
metro, e fors'anco musica, ma pur rimanendo sempre
sostanzialmente la stessa. Ecco la versione comasca,
forse originariamente toscana, lunga ma bella :
— Dóve si sta jersira.
Figliuol mio caro, fiorito e gentil ?
Dóve sì sta jersira? —
— Sòn sta dalla mia dama:
Signóra mama, mio core sta mal !
Són sta dalla mia dama:
Ohimè, eli' io moro, ohimè !
— Cossa v' halla dà de cena,
Figliuol mio caro, fiorito e gentil?
Cossa v' halla dà de cena?
— On inguilletta arrosto:
Signóra mama, mio core sta mal !
On inguilletta arrosto;
Ohimè, ch'io moro, ohimè! —
— L'avi mangiada tiitta,
Figliuol mio caro, fiorito e gentil?
L'avi mangiada tiitta?
— Non n'ho mangia che mezza:
Signóra mama, mio core sta mal !
Non n' ho mangia che mezza :
Ohimè, ch'io moro, ohimè! —
— Coss'avì fa dell'altra mezza,
Figliuol mio caro, fiorito e gentil?
Cossa avi fa dell'altra mezza?
11. del 1.5 ottobre 188C. Duo lezioni veneziane sono recate dal Bernoni, Xiwvi
Canti lìopol. venes., li. 1,2; e la seconda comincia così:
— E (love xestu sta gieri sera,
Figlio mio rico, sapio e gentil ?
E dove xestu sta gieri sera,
Gentil mio cavalier?
— E mi so' stato da la mia bela :
Signora madre, el mio cuor sta mal !
E mi so' stato da la mia bela :
Oh Dio, che moro, oliimò ! —
LA POESIA POPOLARE ITALIAXA. 127
— L'ho dada alla cagnòla :
Signóra mania, mio core sta mali
L'Iió dada alla cagnòla;
Ohimè, eh' io moro, ohimè '■ —
- Cossa avi fa della cagnòla,
Figliuol mio caro, fiorito e gentil ?
Cossa avi fa della cagnòla?
— L'è morta drè la strada;
Signora maina, mio core sta mal !
L'è morta drè la strada:
Ohimè, eh' io moro, ohimè ! —
- L'ha va gilist dà '1 veleno,
Figliuol mio caro, fiorito e gentil :
L'ha v'ha giiist dà '1 veleno. —
— Mandò a eianià 'I dottóre.
Signóra mania mio core sta mal !
Mandè a ciamà '1 dottóre :
Ohimè, ch'io moro, ohimè! —
- Perchè vorì ciamà '1 dottóre,
Figliuol mio caro, fiorito e gentil.
Perchè vorì ciamà '1 dottóre ? —
— Per farmi visitare;
Signóra mania, mio core sta mali
Per farmi visitare:
Ohimè, ch'io moro, ohimè I —
- Mandè a ciamà '1 ciUato ;
Signóra mania, mio core sta mal!
Mandè a ciamà 'I curato.
Ohimè, ch'io moro, ohimè! —
- Perchè vorì ciamà '1 eiirato :
Figliuol mio caro, fiorito e gentil,
Perchè vorì ciamà '1 eiirato? —
— Per farmi confessare :
Signóra mamma, mio core sta mal !
Per farmi confessare :
Ohimè, eh' io moro, ohimè !
128 LA POESIA POPOLAKE ITALIANA.
— Mandò a cianià '1 notavo :
Signora mania, mio core sta mal!
Mandò a ciamà '1 notavo :
Ohimè, ch'io movo, ohimò! —
— Perchè veri ciamà '1 notavo,
Figliuol mio cavo, fiorito e gentil,
Pevchò vovì ciamà '1 notavo ?
— Pev fave testamento :
Ohimè, eh' io movo, ohimè! —
— Cessa lasse alla vostva marna,
Kigliiiol mio cavo, fiovito e gentil?
Oossa lassò alla vostva mania? —
— Ghe lasso '1 mio palazzo:
Siguòva marna, mio cove sta mal !
Ghe lasso '1 mio palazzo :
Ohimè, eh' io movo, ohimè ! —
— Cossa lasse alli vostvi fvatelli,
Figliuol mio cavo, fiovito e gentil,
Cossa lassò alli vostvi fvatelli? —
— La carrozza coi cavalli :
Signora marna, mio cove sta mal!
Lt, cavvozza coi cavalli,
Ohimè, ch'io movo, ohimè! —
— Cossa lassò alle vostve sovelle,
Figliuol mio cavo, fiovito e gentil,
Cossa lassò alle vostvo sovelle ? — •
— La dote pev mavitavle :
Signuva mania, mio cove sta mal !
La dote per mavitavle :
Ohimò, eh' io movo, ohimò ! —
— Cossa lassò alli vostvi sevvi,
Figliuol mio cavo, fiovito e gentil,
Cossa lassò alli vostvi sevvi? —
— La stvada d'andà a messa :
Signóra mania, mio cove sta mal !
La strada d'andà a messa :
Ohimè, ch'io moro, ohimè! —
— Cossa lassò pev la vostra tomba,
Figliuol mio cavo, fiorito e gentil,
Cossa lassò pev la vostva tomba? ■
— Cento cinquanta messe:
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 129
Signóra maina, mio core sta mal !
Cento cinquanta messe ;
Ohimè, ch'io moro, ohimè! —
— Cossa lasse alla vostra dama,
Figliuol mie caro, fiorito e gentil,
Cossa lasse alla vostra dama? —
— La fórca da impiccarla.
Signora maina, mio core sta mal !
La fórca da impiccarla:
Ohimè, ch'io moro, ohimè! — (^)
Per molte altre Canzoni eli soggetto narrativo
od elegiaco il caso potrà far scoprire qualche men-
(1) BoLZA, n. 49. — Una versione romana, in Sabatini, Il volgo di
Roma, Roma. Lux, 1901, pag. 180. Vedi La lezione romagnola iu Rondini,
p. 138, e in Percoli, p. i7, la piemontese in Nigea, n. 26, e tre sarde in
Ferbaeo, C. pop. logoduresi, I. 11 rimpianto letterato J. Addington Symonds
quando il mio libro fu pubblicato la piima volta, mi comunicò gentilmente
una ballata inglese da lui tradotta per me, cbe dice cos'i :
— " Dove sei stato, Lord Renald, figliuolo mio ?
Dove sei stato, bel giovinetto mio? —
— Sono stato al bosco; madre, fammi presto il letto.
Sono stanco della caccia, vorrei liposarmi —
— Dov'eri a cena. Lord Renald, figliuolo mio ? —
— Ero dalla mia dama; madre fammi il letto —
— Cosa avesti da cena ecc. —
— Ebbi un'anguilla all'olio ecc. —
— Temo che tu sia avvelenato ecc. —
— Sì, sono avvelenato ecc. —
In una lezione di questa ballata segue il testamento :
— Cosa lasci a tuo padre ecc. ? —
— La casa e i miei poderi; madre, fammi il letto,
Perchè sto male al cuore, e vorrei coricarmi —
— Cosa lasci a tuo fratello ecc. ? —
— Il mio cavallo colla sella ecc. —
— Cosa lasci a tua sorella ecc. ? —
— Il mio cassone cogli anelli d'oro ecc. —
— Cosa lasci alla tua dama ecc.? —
— La forca e la eorda per impiccarla. —
11 signor Symonds mi dimandava s' io credessi che nella Canzone dell'an-
guilla si trovasse "l'ultimo resto di un mito ario-germanico „. Questo non
credo; ma l'identità dei due componimenti è strana. Mancano però gli
anelli intermedj per ricongiungere la ballata inglese colla canzone italiana.
D'Ancona, La poesia pop. ita!. — 9
130 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
zione, che ci assicuri dell'antichità loro ; ma in ge-
nerale potrebbe dirsi che tutta la massa delle poe-
sie cantate dal popolo italiano è un patrimonio
avito, posseduto da cinque secoli almeno, e via via
trasmesso di padre in figlio. Certo qualche più o men
lieve aggiunzione vi si è venuta facendo di tempo
in tempo, più spesso col rimescolare e variamente
combinare ciò che già si possedeva; ma come è per
noi chiaro che ninna delle Canzoni secolari si è
mantenuta integralmente nella primitiva sua forma,
così è anche indubitato che non molto si è prodotto
di nuovo. La facoltà poetica del popolo nella forma
epico-narrativa soprattutto, non che pur anche nella
drammatica e nella lirica, sebbene in minor misura,
si è venuta esaurendo: sicché anche quando e' crede
di far di suo e creare qualche cosa di nuovo, non
fa altro, se non rimaneggiare, rimpastare, contami-
nare variamente elementi vecchi, custoditi quasi
senza avvedersene entro i recessi della memoria.
Né mancano, a buon conto, altri modi indiretti di
affermare la lontana origine delle Canzoni popolari,
specialmente narrative. Nelle quali tutte del resto si
scorge, chi ben vi guardi, il segno evidente di altri
tempi e di altri costumi, di un viver sociale e pri-
vato, di sentimenti e di opinioni, che nulla han che
fare col mondo moderno. Ma, senza ciò, parecchie
Canzoni hanno in sé qualche cosa di più particolare,
che permette di determinarne con fondamento l'an-
tica origine. Certo, per rispetto all'origine di alcuni
Canti si è caduti in esagerazioni non accettabili,
specialmente dai collettori e critici siciliani, pe' quali
la più fuggevole menzione od allusione ad un fatto
o ad un personaggio storico sembra sufficiente a
fissare il nascimento del Canto al tempo stesso, cui
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 131
appartiene ravvenimento o l' individuo menzionato.
Noi non possiamo a cliins' occhi accettare la sen-
tenza così formulata dall'egregio amico nostro Giu-
seppe Pitrè, che " il poeta letterato scrive di un
fatto quanto gli pare e piace, ma il poeta rustico,
se non lo canta subito, non lo canterà più „. (^)
Qui intanto si darebbe per già risoluto un fatto, sul
quale fra poco dovremo intrattenerci a lungo, par-
lando delle relazioni fra la poesia eulta e la plebea:
si escluderebbe, cioè, il caso, che poesie letterarie
0 semi-letterarie fossero mai divenute popolari.
Prima, adunque, di accettare la teorica del Pitrè,
converrebbe sapere se il popolo non abbia fatto sue
molte composizioni di poeti non nati in mezzo ad
esso, e fra queste talune di contenenza storica.
Ad ogni modo, anche negando o attenuando queste
relazioni fra la poesia dotta e la plebea, che pur
nel corso del nostro lavoro metteremo in chiara
luce, dovrebbesi, seguendo la dottrina del Pitrè, ri-
nunziare al valore della tradizione, e all'efficacia
della memoria. Vi sono invero certi fatti e certi
personaggi, de' quali il ricordo resta indelebile nelle
menti delle successive generazioni, sicché la com-
memorazione poetica ne avvenga soltanto dopo anni
e secoli di orale tradizione: (") anzi appunto col pas-
sare degli anni e dei secoli, la materia si cangia di
(1) Studj di poes. popoL, Palermo, Pedone, 1872. p. 28.
-) Nel Vigo, n. 2<)4, v' ha un'ottava che finisce :
Pri tia foni chiamati li pitturi
Nun pottinu sta bedda arritrattari :
Lu dissi Fidiricu imperatori.
Si piccati luui lia 'n'ancilla pari !
Non veggo che anche questa poesia sia fatta risalire ai tempi svevi; ma
vi sarebbe la stessa ragione che per le altre, ove è ricordato qualche
132 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
storica in poetica, e il più naturale ricordo diventa
quello che n'è fatto_ col verso.
Citerò a conforto di quanto dico, un fatto ap-
partenente alla storia dell'isola: il famoso Vespro.
Havvi, adunque, nelle raccolte siciliane di poesia
popolare una ottava che dice:
Nun v'azzardati a vèniri 'n Sicilia,
Ch'iiannu jinatu salarvi li coria:
E senipri ca viniti 'ntra Sicilia,
La Francia sunirà sempre martoria.
Oggi a cu' diclii chichiri 'n Sicilia
Si cci tagghia lu coddu pri so' gloria:
E quannu si dirà : Qui fu Sicilia,
Finirà di la Francia la memoria. (^)
Or qui io sento veramente un che di letterario, che
mi vieta scorgervi col Pitrè un frammento " di
qualche poemetto nato immediatamente dopo il Ve-
personaggio o fatto di quo" tempi, o degli anteriori. Ma al Canto n. 37-,
che dice :
Lu Papa fu ppi tia di l'oggliiu santu.
Vinni lu iniperaturi Custantinu.
Ti vasau 'n frunti, e ti sparmau lu niantu;
il Vigo annota: " L' Imperator Costantino? e di qual epoca è questo
Canto? „ E noi dimanderemo: Chi avrebbe proprio il coraggio di farlo
risalire al quarto secolo? Sarebbe invece più nel vero chi a questi nomi
che si trovano qua e là addotti nelle Canzoni, a cagione di lode o di
vanto, desse il medesimo valore che alle feste fatte da Palermo e Mes-
sina per il nascimento della bella (Vigo, n. .353), alla dote di Napiili,
Spagna, Falerinu e la Vana (In. not. al n. 353). al comparatico battesimale
del re e della regina (Il>. ibid.), al battesimo noi sriumi Giordanii (In.
n. 377), e simili. Leggendo che lu pafrinedtUi fudi Munsi gnuri, Lu sagri-
stami fudi Cardinali (n. 378), chi vorrebbe fare una ricerca storica per
trovare quando un porporato fu sagrestano? E finalmente quando è detto :
Tridici Cunti 'n chiesa ti porlaru, Quaturdici Bariina cu tia foru, Quinnici
Cardinala ti spusaru (n. 2171), ovvero, lu lire di Francia vi voli ppi nova
'n. 2566), chi non vedo una forma meramonte epifonemica. nella quale )e
designazioni di nomi o dignità celebri nella storia o nella tradizione non
significano nulla di storico?
(1) Pitrè, Canti popol. sicil., I, 102. Ma chi ammetterà che la voce os-
zardare ch'ivi si trova sia del sec. XIII?
LA POESIA POPOLxiRE ITALIANA. 133
spro „. Ma concedasi anche che l'ottava sia schiet-
tamente popolare, cioè non solo cantata e diffusa
fra il popolo, ma di sua propria fattura: dovrà però
dirsi che la memoria del Vespro così presto illan-
guidisse nelle fantasie popolari, ch'e' si debba opi-
nare non essersi potuto comporne questo breve ri-
cordo in altro tempo, salvo sulla tìne del secolo
decimoterzo ? E chi credesse che fosse di tempi non
tanto remoti, quando la Francia, immemore del Ve-
spro, novamente agognava il possesso dell'isola,
direbbe davvero una cosa degna di esser accolta col
riso?
Medesimamente, del re Guglielmo detto il buono,
restò memoria affettuosa fra il popolo : or perchè
dovremo dire che un Canto in ch'egli è ricordato, (^)
debba esser appunto del tempo suo, e non poste-
riore? C)
(1) Id., ihid., p. 99.
i") Così, ognun sa quanto in tutti gli ordini della popolazione insu-
lare sia rimasta tenace la memoria dell'antica Costituzione. Perciò non
è necessario riferire a tempi antichissimi la seguente ottava (Vigo, n. 5381)
che forse altro non è, al più, se non un frammento di narrazione perduta,
a cui da mano letteraria sia poi stato artificiosamente accodato il secondo
tetrastico :
Di la ran turri sona la campana,
Prestu a Palerniu, Sinniclii e Baruna ;
Terri e cittadi, vicini e luntana
Eispunninu: Ubbidemu, Sacra Cruna.
Accussi, figghia, chistu cori chiama
Ccu sti canzuni la vostra pirsuna ;
La donna ca daveru a l'omo l'ama
La servi cumu fussi Sacra Cruna.
Qui è curiosa la nota dell'editore: " Il comento di questo Canto riusci-
rebbe lungo. Così scrissi nel 1857. Ma oggi ? La libertà della parola l'ab-
biamo, quantunque a patto di succliiarci il sangue, e mangiarci vivi una
consorteria d' insaziabili volponi „. Il lettore badi bene che la consorteria
ecc. è, con reggimento grammaticale alla sicula, il soggetto : chi succìiia
e mangia, Dio ce ne liberi tutti, è la consorteria; e né il Vigo ne i suoi
compaesani sono obbligati dall'iniqua consorteria a cangiarsi in vampiri ed
antropofagi 1 Del resto, oltre la "libertà della parola „ è chiaro che l'Italia
134 LA POESIA POPOLAKE ITALIAXA.
Ognuno vede come attenendosi a siffatti criterj
sia facile cadere in anacronismi (') ed in errori non
lievi. Vi ha in Sicilia un Canto C) — niente più che
una ottava — in che trovasi allusione ad un fatto
religioso della metà del secolo IX: la ripristinazione
del culto delle immagini. A noi sembra che — delle
due cose l'una — o del fatto restò durevole ricor-
danza nella religiosa fantasia del popolo siciliano,
ovvero il popolo si piacque di far suo un componi-
mento di poeta culto ; ma ad ogni modo, l'una cosa
e l'altra dovettero avvenire in età ben lontana dal
nono secolo. Impossibile assolutamente stimiamo
un'ottava dell'ottocento, quando e siffatta forma di
versificazione e l'uso stesso letterario del volgare,
appena uscente dall'involucro del basso latino, erano
cose di là da venire. (^)
Cosi' anche, secondo i dotti siciliani, sarebbe
dell'età saracena un altro Canto, ove è ricordato il
Gaito 0 Kaid^ che ognun sa essere il giudice crimi-
nale dei musulmani:
tutt.a. e la Sicilia in particolare, possiedono anche, ad onta degli sforzi
del Manzoni, la libertà, anzi l'autonomia locale e regionale della sintassi.
(1) E vi è pur caduto il mio bravo Pitkè, Canti pojMl. sicil., Pref.
p. 11.3, riferendo al 1678 un Canto nel quale dei messinesi dicesi:
Ca Giaciibina su' li Missinisi.
Chi avrebbe creduto che la denominazione di Giacobino risalisse cos'i ad-
dietro e fosse siciliana ! Nella 2" ediz. dei Cauli il verso è almeno dato
come variante di Capi ribbelli su' ecc.
(2) Vigo, n. 3289.
(3) Il PiTEÈ, StitdJ ecc., p. 45, conclude col diro che "i Canti storici
siciliani, salvo le modificazioni fonetiche apportate dal tempo e dai luo-
ghi, si ripetono adesso nella medesima forma idiomatica, che dovettero
avere ne" tempi a' quali si attribuiscono. Ho bene che il Prof. D'Ancona
non farìi plauso a questo criterio „. L'egregio amico mio vedrà che ap-
punto, com'egli sospettava, rimango nella mia opinione, rispettando sem-
pre le altrui. Anche il Nigiìa, C. p. pieni., XXVI, in nota, parlando di
queste poesie storiche siciliane, dico che " presentano i caratteri di com-
pilazioni posteriori, più o meno recenti, e letterarie o semi-letterarie „.
LA POESIA POPOLAKE ITALIANA. 135
C'è lu Gaitu e gran pena mi duna
Voli arinunziu la fidi cristiana;
Non vi pigghiati dubbia, patruna,
L'amanti chi v'amau v'assisti e v'ama. (')
Quest'amante, dice il Pitrè, è " dell'epoca dell' in-
vasione araba „ ; ma si potrebbe osservare clie dei
Gaiti durò il nome e l'ufficio anche nel secolo deci-
moterzo, ai tempi della denominazione normanna, O
cosicché, almeno, non sarebbe inevitabile risalire
tanto addietro.
Ma per conchiudere queste osservazioni, citerò
un fatto assai notevole. Come prima e più antica
nella serie delle Canzoni storiche, il Vigo stampò
nella sua raccolta una ottava menzionante il Conte
Ruggero, (^) la quale avrebbe fatto parte di un poema
sul fondatore della monarchia sicula: poema, s'in-
tende, coetaneo ai fatti. Quand'ecco che il Vigo stesso
si accorse di aver alle mani non già un frammento di
remota antichità, ma la composizione di un Mira-
bella tuttora vivente. Nella Licenza del volume, il
Vigo onestamente confessa l'errore in che era ca-
duto, aggiungendo però che la memoria del Conte è
tenuta viva fra il popolo da certe Rappresentazioni
mimiche e drammatiche che si fanno a Mazara,
donde gli era venuta la poesia. " Quando, ei pro-
segue, la memoria di un antico avvenimento si
rinfresca nell'attiva ricordanza popolare con monu-
menti, pitture, feste e sceniche rappresentazioni,
l'estro dei poeti si accende e idealmente si fa ad
(1) Amabi, St. dei Miaidmani di Sicilia, Firenze, Le Mounier, III.
pagg. 27.3-66 e 586.
(2) Pitrè, Canti popol. sicil., I, p. 104. Il Gciito e menzionato anche
nel Canto n. 2640 del Vigo, che probabilmente, come il n. 2686 ed altri
assai, è frammento di narrazione storica di origine più o men letteraria.
(3) N. 5150.
136 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
essi coevo „. (^) Più e meglio non sapremmo dire
noi, scettici ed eterodossi.
Fra le Canzoni narrative, generalmente, secondo
è provato dal Nigra, diramatesi dall'Italia superiore
nelle altre provincie della Penisola, antichità mas-
sima avrebbe quella della Donud Loìiiharda. L'iden-
tità di costei che, d'accordo con un seduttore pro-
pina il tossico al marito, il quale però la costringe
a bere anch'essa al nappo funesto, con Rosmunda
già moglie di Alboino, che per suggestione dell'E-
sarca ravennate, avvelena l'adultero compagno, uc-
cisore del re Longobardo, ma muore trafitta da
Elmichi avvistosi del tradimento; l'identità, diciamo,
fra i due personaggi sembra sicura: ed è gran merito
del Nigra l'averla provata ampiamente. (")
La Canzone di Donna Lombarda è una tragedia
illustre compendiata e come compressa in pochi
versi, cantati in quasi ogni parte della Penisola. (^)
Essa è evidentemente nata in suolo italiano, e la
sola versione d'oltralpe che finora se ne sia rinve-
nuta mostra a chiari indizj l'aliena derivazione. Li
essa il delitto della donna non è piìi che un fatta-
rello di cronaca : essa è una charmante brunetta, e
l'uomo, san amant Pierre; nelle lezioni italiane è
doìina, domina, senz'altro, e in qualche variante le
(1) Pag. 750.
(2) La Donna Lomhai-dct fu stampata per la iiiinia vulta, con ricco
coiTedo d'osservazioni storiche e di varianti, dal >>UiiJA,nel fascicolo della
liivista Conle»ij3oranea di Torino del Gennaio 1858, ed ora, con altre giunte,
è nei C jiop. del l'ieni., p. 1-."}U. Kel Ni^iote del Vestaverde, strenna popo-
lare del 1850, Milano. Vallardi, il Correnti aveva dato indizio del fatto
dimostr.ato dal Nigra, dicendo: "Come non fremere alla funerea melodia
della romanza di Donna Lombarda, elio è quasi un languido ricordo della
terribile Kosmunda? ,
(^) Alle molte versioni di varie parti d'Italia recate dal Nioka, ag-
giungansi ora Kondini, p. 122, Giannini, C. p. Incch., p. 135. e C. p. /osc.p. 393,
Percoli, n. 1, ecc.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 137
menzioni di saci-a corona, di re di Francia o di Spa-
gna conservano qualche traccia, ancbe se alterata,
del primitivo carattere dei personaggi. I veri nomi
si logorarono a un po' per volta nella secolare tra-
smissione di bocca in bocca, ma il canto ritenne certa
solennità di forma, come a dimostrare che non ricor-
dava un dramma domestico e privato, ma una gran
catastrofe regale.
Che il delitto di Rosmonda, " dalla rea progenie
degli oppressor discesa „, potesse, poeticamente fog-
giato, rimanere nella memoria delle genti, e via via
trasformarsi, non deve sembrare improbabile; e né
pur anche, che Agnello ravennate, scrittore del IX
secolo, attingesse a tal fonte nel narrare la morte
di Alboino e di Elmichi. Contrariamente a ciò che si
riscontra nel resto della sua narrazione storica, egli
ha dato a questa parte un movimento e un colorito
drammatico, che non poteva trovare altrove che nella
costante tradizione popolare. Egli atteggia e fa par-
lare i personaggi come se li avesse visti e sentiti:
riporta puntualmente i dialoghi che occorsero nel
concubito fra la regina ed Elmichi, e le parole colle
quali ella ne sostenne il vacillante coraggio. Agnello
infatti così racconta: " Dopo alquanti giorni dall'ar-
rivo di Rosmunda in Ravenna, Longino prefetto
mandò a lei dicendo: — Se a me ti congiungerai, se
vorrai essermi sposa (Amei-me mi, aime-me mi: Spusè-
me mi, spusè-ine mi, dice la canzone), sarai piti che
regina. — Ed essa gli fece rispondere: — Se vuole,
fra pochi giorni può farsi. — (Una lezione veneta fa
che la donna, alla proposta di infondere veleno nel
vino, risponda : lo metarò, lo metarò). Un giorno che
Elmichi usciva dal bagno, Rosmunda come per refri-
gerarlo (Dai-ììie del vin...j'ò tanta sei) portò a lui un
138 LA POESIA POPOLAEE ITALIANA.
calice, ove alla bevanda era misto veleno. Ed egli
prendendolo dalle mani di lei, cominciò a bere, ma
quando si accorse ch'era bevanda mortale i^coz' j'éi ve
fait... l'è antìiì-hid)), allontanandolo dalle labbra lo
porse alla regina dicendole : — Bevilo tu pure : hibe
et tu mecum (béivi-lo te, béivi-lo te). — Essa ripugnava
(0 dime mai voli che fossa, che Jò nin sei, che jònin
sei), ed egli, levata dalla guaina la spada, le fu sopra
e le disse : — Se non ne bevi, ti ucciderò (U è per la
punta de la mia speja, f lo leverei, f lo heverei). — Vo-
lere 0 no (mi'l heverò, mi 'l beverò) ella bevve, e am-
bedue nello stesso tempo morirono : 0 conclusione
che manca alla maggior parte delle versioni del canto,
non procedenti oltre la morte di donna Lombarda,
ma che, come giustamente osserva il Nigra, si può
facilmente presumere come conseguenza di ciò che
precede.
Alla viva tradizione attinse pertanto il cronista,
come più tardi, molto più tardi, e quando del fatto
soltanto e della regal dignità dei protagonisti, ma
non più dei nomi, restava la memoria, vi attinse il
primo autore di questa poesia, che doveva sì larga-
mente espandersi e sì variamente modificarsi.
Se non che quando sarà stato composto il canto?
Il fatto risale al 572: dovrà dunque dirsi che esso
allora sia nato, o sol poco dipoi? Se si volesse ap-
plicare rigorosamente al caso nostro la dottrina che
le Canzoni storiche sieno sempre coeve all'evento che
celebrano, avremmo qui un Canto volgare, anteriore
d'assai allo svolgimento delle lingue volgari. Biso-
gnerebbe per lo meno supporre, che il Canto durasse
lungo tempo nella forma di barbara latinità, e più
(') Liher pontif., in li. 1. S., II, 125.
LA POESIA POPOLAKE ITALIAXA. 139
tardi, dopo parecchi secoli, venisse trasportato ne'
varj dialetti d'Italia, o in quell'uno, donde poi passò
agli altri. Ma noi stentiamo ad ammettere ciò per
piìi ragioni: e d'altra parte, se l'identità sostanziale
di Rosmonda e della Donna Lombarda è molto pro-
babile, vi sono però alcune differenze fra la storia e
il canto, che non si spiegano se non per quel lento
lavorìo di trasformazione, che è operato dallo scorrer
del tempo nell'immaginazione popolare. " La coevità,
dice a ragione il Nigra, non vuol essere intesa in un
senso assoluto, né si deve pensare che il Canto storico
esca, subito dopo l'evento a cui si riferisce, perfetto
e finito. Per le Canzoni storiche, non meno che per le
altre, esiste sempre un periodo, piìi o men lungo,
d'incubazione, al quale succede una continua elabo-
razione, che si va perpetuando con fasi diverse „. (^)
Noi perciò crediamo, che ^nche per la Donna Lom-
barda, certamente delle piìi antiche fra le nostre Can-
zoni popolari, debba ammettersi cotesto tempo di se-
greta maturazione, e che la sua data di origine, abbia
da porsi non prima del generale e contemporaneo
ridestarsi dell'intelletto, della lingua e della persona
civile del popolo italiano. In quell'età eroica della
nostra storia, in quella gioventìi vigorosa delle no-
stre plebi, le tradizioni nntiche conservate nella
memoria e via via tramutate, presero forma poetica
ed espressione nel novello linguaggio; ed allora, o
poco appresso, dovette nascere, come frutto maturo,
anche il Canto di Donna Lombarda, che si direbbe
quasi postuma vendetta della discendenza latina
contro una malvagia eroina della stirpe straniera. (")
(-) e. pop. del P., p. XXVII.
(-) Questa opinione del Nigi'a sull' identità sostanziale di Eosmiinda
con Donna Lombarda sostenni anche, pur con qualclie riserva suH'anticliità
140 LA POESL\ POPOLARE ITALLIXA.
Minor vetustà, ma pur non mediocre, potrebbe
attribuirsi anche ad altra Canzone modernamente
raccolta, e della quale non ci occorre menzione in
nessuna scrittura antica. Pur tuttavia teniamo per
fermo che dovesse nascere almeno tre secoli addietro.
E la canzone della Bella Cecilia, della quale riferi-
remo la lezione monferrina:
Sisilia, bella Sisilia
Pjiua la noce e u dì,
R' ha so maiì an parzun,
E i r vero fèe imuì.
— Sisilia, bela Sisilia,
Si t' m' aureise ben,
T'andreise da ir caiiitan-nlie
A dmandèe grasia pir me. —
— Sun qui, siur capitau-nhe,
Ina grasia s' u m' ra vò fèe. —
— Basta che ina nottin-nha
Vene a drumì *un me. —
— L'andrò dì a lo mioi mano,
A dire a lo niioi mari ;
Se chille sarà cuntent,
Cuntenta sarò mi, —
— Vaje, vaje, bela Sisilia,
A^aje ina vota sul,
A mi ti m' sarve ra vitta
E mi at' farò l'unur.
Vaje, vaje, bela Sisilia,
Vaje ben vistija ;
S' u ti vigrà CSI bela,
L'avrà l>jità di mi.
(Iella Canzone, in \m articolo sulla raccolta dei Canti popolari del l'iemonte
nella Nuova Antologia del 10 marzo 1889. Nello stesso tempo il valente
e rimpianto amico Gaston Paris, discorrendo della pubblicazione del Nigra
nel Journal des Savants del sett.-nov. 1889, combatte con argomenti, dei
quali apprezziamo tutto il pregio, le opinioni di lui, specialmente per
quello elio riguarda l'anticliit.à. pur ammettendo che l"eroina possa esser
Kosmonda: "ce que le nom de Donna Lombarda peut faire paraitre vrai-
seniblable „, ma sostiene che la Canzone come altre consimili, non risalga
oltre il XV o XVI secolo e possa aver origine letteraria.
LA POESIA POPOLARE ITALL\KA. 141
Bett' te ra veste russa,
U scussa ca t' ho crunipà:
S' u ti vigrà CSI bela,
L'avi'à pjità di mi. —
Su ni ven ra mesa noce,
Sisilia tlira in suspir ;
— Csa suspirèv, Sisilia,
Csa suspirèv mai vui ? —
— Suspir lo mici marìu,
Ch' r è là aiit ra parzuii,
E i l'voru fèe muri. —
— Nun pianse nent, Sisilia,
Nun pianse nent soli :
I n' ij poru feje nent
Se la n'j sun mi. —
Su ni ven r' arbretta ciera,
Sisilia s' fa a lu barcuu,
E r' ha vist u so mari
Chi l'era panduriun.
— Traditur d' in capitan-nhe,
Traditur chi sei mai vui !
Ar me mari i hei pijà ra vitta,
A mi m' hei pijà l'unur ! —
— Nun piaus nent, Sisilia,
Nun pianse nent soli;
Sumnia qui trei capitan-nhe,
Spusèe culi chi volèe. —
— N' vói mai pi eh' ra nova vaga
Da Milan fin-nha a Paris :
Spusèe in capitan-nhe
Traditur di lo mioi mari — (')
(1) Fekearo, n. 21; e cfr. Nigra, n. 3. Vedi Finamore, in Arch. Tradiz.
popol., I, 85; varie lezioni venete e padovane nel Widter-Wolf, p. 64, net
Bernoni, punt. V, n. 11, nonché nna lezione istriana nell'IvE, p. 326; una
dalmata in Villanis, p. 14; una romagnola in Ferrari (Arch. Trad. popò/.,
VII, 390) e in Pergoli, n. 11. Nella versione romana Sabatini, in Bir.
Leu. pop., I, 21) il cantore affermo che il caso non era occorso a Roma,
ma vvie' da Milano: certo la Canzone scese dall'Italia superiore. Vedi pure
nna lezione comasca nel Bolza, n. 50; una emiliana nel Ferraro, C. pop.
di Pontelagnscuro, n. 22; una marchigiana in Gianandrea, p. 264; e altra
in Rondini, p. 123; una toscana in Giannini, 166; una calabi-ese in Arch.
tradiz. popol., XI, 243; un sicilianizzamento nel Pitrè, Studj ecc., p. 294>
142 LA POESIA POPOLARE ITALIAXA.
Or qui, a volerne trovar l'origine, non bisogna
lasciarsi fuorviare da qualche rassomiglianza di al-
cuni racconti col fatto che dà argomento al nostro
Canto. Eassomiglianze insieme e divergenze notevoli
ci presenta una novella degli Ecatommiti di G. B.
Giraldi Cintio, (^) della quale tal è l'argomento : Ju-
riste è mandato da Massimiano imperadore in Isprnchi,
ove fa prendere un giovane violatore di una vergine
e condannalo a morte. La sorella cerca di liberarlo ;
Juriste dà speranza alla donna di pigliarla per moglie
e di darle Ubero il fratello. Ella con lui si giace, e la
notte istessa Juriste fa tagliare al giovane la testa, e
la manda alla sorella. Ella ne fa querela all' Impera-
dore, il quale fa sposare a Juriste la donna, poscia lo
fa dare ad essere ucciso. La donna lo libera, e con lui si
vive amorevolissimamente. Di qui lo Shakspeare trasse
il suo Dramma Misura per misura, e già innanzi a lui,
Giorgio Whathstone la Commedia di Promos e Cas-
sandra: tutto ciò assai prima che il colonnello Kirk,
vissuto ai tempi di Giacomo II, venisse accusato di
un consimile misfatto. (^) Anche una canzone unghe-
rese (^) si riaccosta alla narrazione giraldiana, della
quale è proprio che trattisi di sorella anziché di mo-
glie. Ci sembra piuttosto che la sostanza del Canto
italiano sia conforme al racconto che serve di argo-
mento alla Fìiilanire, tragedia francese di Claudio
Kouillet, stampata nel 15G8: Quelques années, dice
t' liti Salomone-Marino, Baronessa di Carini, p. 32, e anche Legg. popò!,
sici!., IX. L'Imbkiani, C. popò!. aveUinesi, pag. 73, no reca una lezione na-
poletana, e un Canto in dialetto montellese. E in foglio volante si continuò
a riprodurre dall'officina fiorentina del Salani.
;'; Deca Vili, nov. 5: e cfr. di lui, la tragedia: Epizia.
(-) DuNi-op-LiEBiìECHT, Geschichte (1. Prosadichtnng, Berlin, Miiller,
1851, p. 279.
(3) WlDTER-WOLF, p. 109.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 143
l'autore, se soni passées depuis qu'une Dame de Piémont
impetra du Prevost du lieu, que son maris, lors prison-
nier pour quelque concxission, et déjà presi à recevoir
jugement de mori, lui seroit rendu, moyennant une
nuit qu'elle lui préteroit. Ce faif, son mary le jour
suivatit lui/ est rendu, mais jà exécuté de mort. Elle,
esplore'e de l'une et de l'autre injure, a son recours au
Gouverneur, qui pour lui garantir son honneur, con-
traint le dit Prevost à l'espoiiser, et puis le fait déca-
piter; et la dame cependant demeure dépourvue de ses
deux maris. (') Scioglimento al quale accenna la ver-
sione veneta del nostro Canto :
De do maiii che aveva
No glie n'ò più nessun;
Uno xè andà in galera,
St'altro xe andà pick.
Altrove, e precisamente in una raccolta di casi
compassionevoli, 1 Tragica, lo stesso fatto trovasi
ricordato come avvenuto in Como nel 1547, e ne
sarebbe data colpa a un capitano spagnuolo. O
Enrico Stefano nella Apologie pour Hérodote stam-
pata nel 1566, attribuisce il fatto a quel Francesco
Dupatault, Signore de la Voulte, che nel 1545 fu pre-
vosto di giustizia: homme, dice Bonaventura des
Périers, qui en son temps a fait passer les fievres à
maintes personnes, né il racconto va oltre il crudele
inganno : (^) altri ancora lo appropria al Montmo-
rency, ascrivendolo all'anno 1548 : il luogo sarebbe
stato la Gujenna, e la donna una dama di Leston-
nac. (*) l'Heuter nei Perinn burgundicarum e Giusto
(1) Paefait, Hifit. du Théati-e frang., Paris, 1745, voi. Ili, pag. 342.
(2) Tragica, seu tristium historiarum de poenis ci'iininalibus etc,,\òdS,
Cit. dal DUNLOP-LlEBRECHT, p. 493.
(3) Vedi a pag. 334, voi. I della moderna ediz. del Lisieux. Paris, 1879.
(*) Vedi la Eevue Britannique del 18.J9, art. sul Montaigne.
144 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
Lipsie più tardi ne' suoi Monita poìitica, fa risalire
il fatto al tempo di Carlo il Temerario, duca di Bor-
gogna; (^) ma è racconto di età troppo tarda, come
troppo tarda è la tragedia del Pomfret, dove del-
l'infame inganno è, per ire partigiane, accagionato
il colonnello inglese. (") A Napoli invece un fatto
consimile, ma dove si tratterebbe non di donna ma-
ritata, ma di fanciulla, della quale il padre sarebbe
stato ingiustamente carcerato, si farebbe risalire ai
principj del Cinquecento, e l'esemplar giustizia ap-
parterrebbe ad Isabella reggente del Regno; alcune
teste poste sull'Arco di s. Eligio attesterebbero il
fatto : se non che cotesta principessa non ebbe mai
il titolo e l'autorità che le si attribuisce, e quelle
immagini sono frammenti anticlii. (^) Per più indizj
quindi si potrebbe affermare che il Canto derivasse
dal tristo caso della " dame de Piémont ,., e che nato
nell'Italia Superiore, di là si diramasse con varietà
di episodj innestati al nucleo primitivo e diversi fra
loro. (*) Potrebbe tuttavia far ostacolo la Romanza
(1) Vedi De Bakante. Hiat. iles rlucs de Bom-gogne, Bruxelles, 1S3S,
II, 3;}'.t.
(2) V. il D'Israeli. Curiosità /<■«<»)■«)•., cit. dall' Imbriani, Cant. popol.
avellili., p. ?.">.
(3) B. Croce, L'arco di s. Eligio e una leggenda ad esso relativa in
XapoU nohilissima, I, 147. Vedi anche nello stesso giornale III, 42 qualche
cosa di consimile pur avvenuto a Napoli nel 1624, dove però si tratta di
violata promessa di matrimonio, non di vituperoso inganno.
(*) In un foglietto di giunte ai C. pop. del t., il Nigra riferisce un
racconto di S. Agostino nel T>e Sermone domini in monte (I, Iti, ."iO; che
risalirebbe al .'i4:ì circa, e ha qualche analogia col fatto della nostra Can-
zone. Un debitore dello stato è condannato a morire, se non paga una forte
somma al fisco. La moglie di lui è tentata da un ricco signore, che le darà
cotesta somma, se giace con lui. ed essa, avuto il consenso dal marito, si
arrende alle sue voglie; ma il seduttore le dà un sacco di terra, auzichò
d'oro. Essa ricorre al prefetto, che paga di suo il fisco, e decreta alla donna
la proprietà del podere, ond'era stata tolta la terra. Ma come ognun vede,
non si ha qui se non un tratto di rassomiglianza, quello della donna che
per salvare il marito, e lui consenziente, soggiace alle voglie altrui; manca
però tutto ciò che forma la parte tragica del fatto.
LA POESIA POPOLARE ITALLA.NA. 145
Catalana della Dama di Tolosa (^) o di Beus, i^) la
quale, identica nel resto al Canto italiano, finisce
colla vendetta che l'ingannata donna si prende pu-
gnalando il traditore. Ma potrebbe anche essere che
il Canto, che i raccoglitori catalani dicono storico,
senza però saperne indicare il fondamento di fatto
e l'età, fosse d'Italia passato in Ispagna modifican-
dosi ; 0 che un fatto consimile abbia separatamente
fornito l'argomento ai due Canti, in qualche parte
fra loro dissimili, sebbene concordi nella sostanza. La
qual supposizione sarebbe confortata dal non essersi,
iilmeno finora, trovato nessun canto intermedio fran-
cese o provenzale.
Per noi, dunque, la Bella Cecilia deriva dal fatto
che consideriamo storico, o che almeno credevasi
realmente avvenuto nell' Italia superiore durante la
prima metà del Cinquecento, e donde origina anche
la Tragedia francese. Il Rouillet lo dice occorso
pochi anni prima del 1563 : un libro stampato in
Germania ne afferma la data al 1547: la differenza
fra il Piemonte e Como è di quelli sbagli che bene
si intendono, senza doverne far troppo caso ; dap-
poiché il racconto, passando di bocca in bocca, potè
alterarsi e scambiare una città coll'altra, al modo
stesso come nei Tragica, stampati in Germania, il
Duca di Ferrara è chiamato Gonzaga. La Canzone
dovette nascere poco dopo avvenuto il fatto e dif-
fusane la notizia : perchè, se fosse passato troppo
tempo, non trattandosi qui di personaggi illustri né
(1) Mila y Fontanals, Observac. sohre la poes. popnL, Barcelona, 1853,
pag. 143.
i^] Briz, Cansons de la ttrra, Canta popol. cateti., Barcelona, 1866,
voi. l, p. 133.
D'Ancona, La poesia pop. ital. — 10
146 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
di avvenimento pubblico e di grand' importanza, in
breve se ne sarebbe illanguidita la memoria. (^)
Ricerche consimili, che potessero istituirsi su
altre Canzoni narrative, ci condurrebbero probabil-
mente a fissare la data approssimativa del loro na-
scimento dal secolo decimoquarto al decimosesto.
Si continuò dappoi, per alcuni fatti d' importanza
provinciale, come la morte del Marchese di Saluzzo
(1528), l'Assedio di Torino (1706), il Conte Lodrone
(1755) e simili, a produrre Canzoni: ma si gettarono
nello stampo antico, spesso travestendo e mutando
le anteriori. Così quella del 1782 sulla Principessa
Carolina di Savoja è formata sulla più antica del
Matrimonio inglese. {^) L'Italia restò lungo tempo
inerte, sfruttando l'antica gloria: e al modo stesso
il popolo, inariditasi in lui la virtù creatrice del
verso, andò ripetendo o rimpastando ciò che del-
l'avito patrimonio poetico eragli rimasto nella me-
moria. Lo stesso fatto vedremo accadere anche per
la Lirica popolare prettamente amorosa ed elegiaca.
VI.
Circa gli stessi tempi, ne' quali avvenne in Fi-
renze quella mutazione de' costumi di che addietro
abbiamo toccato, accadde anche una mutazione nel
gusto e nel sentire poetico. Effetto della quale fu che
(1) Più tardi La salvazione del marito o del padre con l'obbrobrio della
moglie 0 figlia doveva diventare, con applicazione arbitraria di nomi il-
lustri, un motivo drammatico : per Victor Hugo nel Le Boi s'amuse, nell'epi-
sodio inventato del Marchese di Saint- Valier, e in Severo Torelli, un in-
ventato signore di Pisa, nel dramma omonimo del Coppée.
(-) NiOEA, C. poiìol. del r., p. xxvii.
LA POESIA POPOLARE ITALLO'A. 147
si allentarono i legami che già tenevano insieme
avvinti il popolo e il poeta, e si formarono due
schiere di rimatori, come due maniere di poesia. La
raffinatezza del Petrarca invogliò alla imitazione del
gran modello: e gli studj classici, a poco a poco
tornati in onore, volsero gli ingegni all'imitazione
dell'antico, benché ninno tino al Poliziano sapesse
appropriarsi le forme dei Greci e dei Latini in modo
che paresse cosa nativa anziché imitata. Nulla di piìi
goffo di quei verseggiatori dei primordj del Quat-
trocento, cl!e, nati fiorentini e coi grandi esempj della
scuola dugentista e trecentista dinanzi agli occhi,
rinnegano le gloriose tradizioni e fino il sermone cit-
tadinesco e faticosamente contorcono il verso, la
sintassi, i vocaboli, per studio di imitazione impo-
tente. Così ebbe origine uno stacco fra la poesia dei
dotti e quella dei volghi, cui fu in gran parte
rimediato, quando Lorenzo il Magnifico ed i suoi cor-
tigiani, probabilmente per blandire la plebe — che
fu la grand'arte politica del nipote di Cosimo —
tornarono a riamicare le Muse col sentimento po-
polare. È chiaro pertanto che nel periodo anteriore
a Lorenzo, poiché il popolo non aveva piìi chi fa-
cesse per lui, (^) cominciasse egli a far da per sé, e
così venisser fuori versi rozzi sì, ma non ineleganti,
che formavano una maniera propria delle plebi. Ma
dopo aver faticosamente riprodotte le bellezze di Vir-
gilio, di Catullo, di Claudiano, dopo aver imitato il
Petrarca e il petrarchismo, Lorenzo e i suoi porsero
orecchio anche alla Musa popolana, che diffondeva
(1) Tuttavia ciò non deve prendersi alla lettera: la poesia per musica
e canto si mantenne, quando più quando meno, fedele alle sue origini.
Odasi questo Lamento di monaca in un Madrigale di Alesso Donati; dove
la forma paesana che è propria aneli e di altri suoi componimenti (vedi 1
148 LA POESIA POPOLABE ITALIANA.
i suoi echi nella città e nel contado. E diciamo pen-
satamente che porsero orecchio; perchè, se anche in
certi componimenti del Magnifico e de' suoi clienti
non si vedesse la chiara intenzione di imitare i canti
del popolo, lo stesso Poliziano ce ne ammaestre-
rebbe, laddove descrivendo un suo viaggio i^ev Roma,
dice : " Siamo tutti allegri, e facciamo buona cera,
e becchiamo per tutta la via di qualche rappresaglia.
11. ccciv. ccoYi ecc. clell.a Haccolta Canlucci) tr.aluce anche attraverso le
difficoltà metiiclie dello sdrucciolo.
La dura corda e '1 vel bruno e la tonica
Gittar voglio, e lo scapolo
Che mi tien qui racchiusa e fammi mollica;
Poi teco, a guisa d'assetato giovane,
Non già che si sobarcoli,
Venir men voglio ove iortuna piovane.
E son contenta star per serva e cuoca,
Che men mi cuocerò ch'ora mi cuoca.
Il tema della Monaca, chiusa per iorza nel monastero, o pentita di
esserci entrata, e che rimpiange la libertà, o l'amore, ha frequenti esenipj
nella nostra poesia popolare antica e moderna. Due forme del Lamento
della monaca, l'una delle quali comincia: Lassa! come furaggio? Valtin:
Ed oh lassa me, tapina, pubblicò T. Casini da un repertorio giullaresco
del secolo XIV (vedi Propugnatore, N. S., II, 238). Comunissimo dev'es-
sere stato quello che coiniiicia : Non voglio esser più monaca: a Siena nel
1465 per la venuta della moglie del duca di Calabria fecesi una moresca
di dodici persone molto bene e riccamente ornate, e una vestita a monaca.
e ballavano a una Canzona che dice: Non vogl'esser pia nionica, Arsa li
sia la tonica Chi se la veste piti (Allegretti, Diario Sanese, in B. 1. S.,
XXIII, 772;. L'intera poesia è riprodotta da un cod. parigino da A. Ive
iOiorn. Stor. Lett. Ital., Il, 15^0 e da G. Volpi (Poesìe popol. ifal. ilei ser. XV,
Verona, Tedeschi, 1891, estr. dalla Bibliot. Scuoi. Ital., IV, 3). Un'altra antica
versione evidentemente napoletana (Male mi fece mamntata Per farmi
monaca) fu edita da S. Feiìiìari per nozze Menghini-Zannoni (Bologna, Za-
nichelli, 1893), e un Canto carnascialesco di monache il Ferraki stesso insoiì
nella Bibliot. Letterat. popol., I, 30. Un lamento di monaca innamorata ripro-
dusse V.Cian da un cod. trevigiano del sec. XV (v. Vropngnatore,'H.H.,W.òty.
Una barzelletta di monacello incarcerate è fra le poesie di Benedetto Da
CiNCsoLi 0 fu ristamp.ata da L. Luzio (Sanseverino Marche, 1902). C. Fal-
letti Fossati ritrova le vestigia dell'antico canto popolare in quello che
ancor cantasi a Siena: ...a te, monaca. Non si sa che ti farei: Ti strapperei
la tonaca (Costumi sanesi del sec. XIV, Siena, Ancora, 1882, p. 202). Canti
moderni su questo toma recano L. Zanazzo nel Volgo di Itonia (Roma,
Lux, 1001, p. 194} e Rondini, p. 151. Due lamenti: 0 monachella di hrun
vestita e ISon rinchiusa in quattro mura sono fra le stampe a uso del popolo
del Salaui, 1878. Per altri raffronti, v. A. Saviotti in Giorn. star., XIV, 249.
LA POESIA POPOLARE ITALIAKA. 149
e Canzone di Calen di Maggio, che mi sono parute
pili fantastiche qui in Acquapendente, alla romane-
sca, vel nota ipsa vel argiimento „. (^) Dove quel rappre-
saglia potrebbe voler dire presa, incelta, raccolta: (")
e buona cosa sarebbe certo l'avere di coteste rappre-
saglie di Canzoni popolari che il Poliziano andava
facendo per via, e poter paragonare insieme le Can-
zoni romanesche colle fiorentine e toscane, che a lui
parevano meno fantastiche. Ma se anche le Canzoni
qua e là beccate furono scritte, nulla ce n'è rimasto:
ed è certamente peccato.
Ricchissima in ogni genere e varietà di com-
ponimenti è la letteratura popolare del secolo deci-
moquinto. Lasciamo da parte, che qui non sarebbe
il luogo di parlarne, i Cantari di piazza, e le Rap-
presentazioni, e i Canti carnascialeschi, e le Laudi
devote, e restringiamo il nostro discorso ai Rispetti,
che pili si riaccostano alla spontaneità della forma
popolare. E davvero gli altri generi sono per lo
più scritture di dotti e di semi-dotti ad uso del po-
polo: nei Bispetti, invece, dobbiamo riconoscere oltre
l'imitazione anche la cosa imitata, cioè un fondo,
(1) Poliziano, Prose volgari inedite ecc., racceolte e illustrate da Isi-
doro Del Lungo, Firenze, Barbèra, 1865, pag. 75.
(2) Il Del Lungo, pensa che rapjìresaglia accenni a doni [riprese) fatti
alla brigata, ma poi avverte che nello Canzoni del maggio, il Poliziano
" notava la ripresa o ritornello, e travestiva il vocabolo „. Il Gaspary, Star,
(iella Letter. Ital.-, IT, I, 381, opina invece che rappresaglia significhi " canto
con ripresa; quindi ballata „: e V. Rossi, Il Quattrocento, p. 420, spiega " latto
rappreso, panna „ : e " canzone eli Calen di maggio „ sarebbe senza dipendenza
diretta, o potrebbe anclie dipendere con faceto accostamento da heccliiamo „.
Comunque abbia a intendersi la parola, a me pare che le rappresaglie e le
Canzone maggiajole, beccate, abbian da esser cose simili assai fra loro.
Per ultimo il Giannini (pag. xxvii, n.) crede che il Poliziano volesse ap-
punto " accennare a contrasti poetici, a sfide, che consistono infatti nel
rimbeccarsi e nell'ingiuriarsi a vicenda,, cosicché la frase significherebbe
il porger ascolto ai canti alterni e alle liete canzonette maggiajole, che
sonavano agli orecchi della brigata durante il viaggio.
150 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
una massa di improvvisazioni plebee, clie poi i dotti
e i semi-dotti cercarono di riprodurre. Ma anche
nella poesia amorosa di forma popolare e nella ver-
sificazione dello Stranihotto o Bispetlo sono da rico-
noscere pili gradi: al sommo le composizioni del
Magnifico, del Poliziano, del Pulci; in un grado inter-
medio alcune composizioni meno artificiose delle pri-
me, ma nelle quali già si vede l'imitazione; giù al
basso le schiette produzioni dell'arte popolare. Esa-
miniamo partitamente queste tre facce di una mede-
sima immagine.
Le poesie stesse dei culti imitatori presentano
per verità un doppio aspetto. Ve ne sono talune,
dove con ingenua malizia si fa quasi la caricatura
0 la parodia della Musa popolare, ed altre in che il
genere è sollevato alla dignità di forma lettera-
ria. Alla prima categoria appartengono la Nencia
da Barberino del Magnifico e la Beca da Dicomano
del Pulci. Si vede che gli autori di esse hanno stu-
diato e conoscono perfettamente la fraseologia della
poesia volgare, specie della contadinesca, natural-
mente più umile e inculta di quella della città: se
non che, trascegliendo quei modi e quelle immagini
proprie alla vita ed al costume del contado, non ca-
dono in viziose esagerazioni. La caricatura c'è; ma,
condotta quasi sempre con elegante parsimonia, si
contenta di muovere il sorriso, di eccitare la gio-
condità, senza far ridere alle spalle degli agresti
cantori. Ecco ad esempio come nella Nencia da Bar-
berino l'innamorato Vallerà descrive le bellezze della
sua dama, che con gli occhi getta fiaccole d'amore Q)
(1) Cfr. con un Canto popolare nel Tommaseo, p. 78: Quando alzi gli
occhi con tanto splendore Mandano a terra falcale d'amore.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 151
Non vidi mai fanciulla tan t'onesta;
Né tanto saviamente rilevata:
Non vidi mai la più pulita testa,
Né si lucente, né sì ben quadrata:
Ell'ha due occhi che pare una festa,
Quand'ella gli alza o che ella ti guata ;
Ed in quel mezzo ha il naso tanto bello,
Che par proprio bucato col succhiello.
Le labbra rosse pajon di corallo:
Ed havvi drente due filar di denti,
Che son più bianchi che quei di cavallo,
E d'ogni lato ella n'ha più di venti.
Le gote bianche pajon di cristallo
Senz'altri lisci ovver scorticamenti;
Ed in quel mezzo ell'è come una rosa:
Nel mondo non fu mai sì bella cosa....
r t'ho agguagliata alla fata Morgana, (')
Che mena seco tanta baronia;
Io t'assomiglio alla stella diana,
Quando apparisce alla capanna mia.
Piti chiara se' che acqua di fontana,
E so' più dolce che la malvagia:
Quando ti sguardo da sera e mattina.
Più bianca se' che '1 fior della farina.
Questa poesia, così piena di reminiscenze del
parlar villereccio, che inaugurava un genere nuovo
e tutto fiorentino, fu accolta a grida di plauso, e
fors'anche per vellicare dolcemente la boria del pos-
sente autore, diffusa e cantata in Firenze e fuori.
Luigi Pulci, còlto da poetica emulazione, si pose
allora sulle orme dell'amico e patrono, cantando le
beltà della Beca da Dicoiuano:
Ognun la Nencia tutta notte canta,
E della Beca non se ne ragiona. (^)
(•) Nella Raccolta del Vigo, n. 12-52: 'ntesta purtava un vela eli rrigina
Assimighiava a la Fata Miirana. Sulla menzione della Fata Morgana nei Canti
popolali meridionali vedi Pitrè, Studi, pag. 339.
(2) Vedi anche nelle Canzoni a Ballo, n. 43 una Canzonetta in morte
152 LA POESIA POPOLARE ITALL'^NA.
Ed ecco come il Pulci alla sua volta cauta le bellezze
della sua Beca:
Tu se' più bianca die non ò il bucato,
Più colorita che non è il colore,
Più soUazzevol che non è il mercato.
Più rigogliosa che Io imperadore,
Più framettente che non è il Curato,
Più zuccherosa che non è l'amore,
E quando tu motteggi fra le gente
Più che un bev'acqua tu se' avvenente...
Abbiate tutte quante compassione,
Fanciulle, che la Beca è la più bella,
E canta sovr'un cembol di ragione,
E del color dell'aria ha la gonnella,
E mena ben la danza in quel riddone ...
Se non die già nella Beca del Pulci si sente quell'ar-
tificio, quello sforzo, che sa di vera caricatura, e che
appare sempre maggiore nelle poesie rusticali poste-
riori, e giunge al suo colmo nel piacevolissimo, ma pur
un pò" troppo leccato, Lamento di Cecco da Varliuigo.
Come nelle Stanze seppe il Poliziano traspor-
tare le grazie della poesia classica, e ad un'opera
tassellata a mosaico dare pertanto unità di stile e
di colore; cosi nei Rispetti egli è pur sempre l'ele-
gantissimo poeta dell'arte, senza cessare di essere
l'imitatore della maniera popolare. Ritraendo dalla
natura, ei forma la sua poesia con magistero d'ar-
tista, sicché nulla di piìi squisito è stato fatto in
questo genere: ma, mentre nei Rispetti lo stile è tutto
polizianesco, vi si ravvisa però una qualche imma-
gine della Musa volgare. Si direbbe un quadro sboz-
zato da mano inesperta, e poi ritoccato, colorito.
della Kencia. È rimasto anelie al dì d'oggi il modo di dire: la bellezza della
Nencia, per indicare il buco nel mezzo del mento Che rimbelìira tutta sua
figura.
LA POESIA rOPOLARE ITALIANA. 153
fluito da mano maestra; ma per modo che e l'ine-
sperienza dell'una e il tocco sicuro dell'altra si la-
sciassero scorgere, pur producendo una unica im-
pressione nel riguardante. Quando nei Rispetti di
Messer Agnolo leggiamo:
Vorre' saper quel che ragion ne vuole,
Furare il core ad un fedele amante, (^)
ritorna involontariamente a memoria, come motivo
conforme e piìi semplice, il Canto toscano:
Giovanottino, non ti par peccato
Rubare un core, e non lo render mai? (')
Per contrario, quando ci cade innanzi agli occhi il
Canto toscano:
E quando io penso a quelle tante miglia
E che voi, amor mio, l'avete a fare,
Nelle mie vene il sangue si rappiglia.
Tutti li sensi miei sento mancare ;(^)
ci sembra che di qui il Poliziano abbia preso le mosse
per cantare:
Quando penso, amor mio, che '1 giorno è presso,
Che prender mi convien sì lunga via.... (*)
In quest'altro Canto v'è perfino rassomiglianza
di rime:
Tanto è possibil, bella, ch'io ti lassi,
Quanto nel mezzo al ciel fermar la luna,
Fermare il sole che non camminassi,
E poi contar le stelle ad una ad una;(^)
(1) Poliziano, Stanze, Orfeo e Rime, ediz. Carducci, Firenze, Barbera,
1863, pag. 194.
(2) Tigri, n. 503, 808, 991. Cfr. Vigo, ii. 479.
(3) Id., n. .582.
(*) Poliziano, ibid., pag. 209.
(5) Tigri, n. 860.
154 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
e il Poliziano:
Se mille volte amor me '1 comandassi,
Che può far di me strazio quanto vuole,
Tanto potrebbe far eh' io non ti amassi,
Quanto potrebbe far fermare il sole. (')
Pieno di dolce mestizia è il canto popolare
che dice:
Quando sentirai dir che sarò morta,
Ogni mattina alla messa verrai;
Arriverai a quell'oscura fossa,
E l'acqua benedetta mi darai.
E allor dirai : Eccole lì quell'ossa
Di quell'amante che tanto straziai:
Allor dirai: Decco qui il mio bene;
E lui è morto, e a me morir conviene (-)
E r intonazione stessa è nel Poliziano :
Quando questi occhi chiusi mi vedrai
E '1 spirito salito all'altra vita,
Allora spero ben che piangerai
El duro fin dell'anima transita :
E poi se l'error tuo conoscerai.
D'avermi ucciso ne sarai pentita.
Ma '1 tuo pentir fia tardo all'ultim'ora :
Però, non aspettar, donna, ch'io mora. (^)
Allor che Morte ara nudata e scossa
L'alma infelice delle membra suo,
(1) Poliziano, ibiiì., p. 225.
(2) Tigri, n. 1144. Cfr. Lmbriani, li, 370.
(3) PoLiziAxo, ìhid., pag. 272. Vedi nelle note del Carducci ai di-
spetti polizianeschi parecchi altri raffronti con frasi ed immagini dei
Rispetti del contado toscano. Altri confronti mi addita il prof. G. (iiannini,
per es.: Poliziano (p. 191) : Le tue bellezze poi che ne farai ? e un Canto po-
polare (Tigri, n. 132): Le tue bellezze a chi le vuoi lasciare? — PoLiz. (p. 214):
E' tuo' bet/li occhi mi han furato il cuore: e nn Canto luccliese (p. 7): Con
r/uegli occhietti mi hai rubato il cuore. — PoLlz. (p. 326): Tu mi chiedesti il
cuore, i' tei donai, e un Canto hiccliese (p. 43): Tu ini chiedesti il cuore, io
te lo detti. — PoLiz. (p. 243): Mentre che il fiore è nella sua vaghezza. Coglilo,
che bellezza poco dura: Fresca è la t'osa da mattina, e a sera Essa ha per-
duta sua bellezza altera; e un Canto pisano (A. Giannini, p. 20): Cogli la
rosa quando l'è sul fiore, Che quand' }■ aperta, l'ha perso il colore, ecc.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 155
E eh' io sarò ridotto in scura fossa
E sarà ombra quel che corpo fiie,
Verrai! gì' innainorati a veder l'ossa
Ch'Amor spogliò con le crudeltà sue:
— Ecco, diran tra lor, come Amor guida
A strazio e morte chi di lui si fida — . (')
Anche Luigi Pulci, sebbene con minor sicurezza
di pennello e minor delicatezza di tocco, si provò
alla imitazione dei Rispetti popolari. Eccone un
saggio, dal quale potrebbe giudicarsi che gli Stram-
botti del gran cantore del Morgante fossero non
immeritamente caduti in dimenticanza:
0 guida di mia alma e di mia vita,
Mantenimento de' mia sensi afflitti,
0 sol degli occhi miei, donna gradita,
Amor m' ha dentro gli occhi tuoi fitti ;
0 Sol d'ogni altra bellezza infinita,
0 sostegno di mia membri sconfitti,
0 perla mia vezosa, o alma onesta.
Gli orecchi alquanto a' mia Rispetti presta. (^)
(1) Poliziano, p. 272. F. Sabatini pubblicò come dal Poliziano sette
Rispetti inediti tratti da un cod. dei sec. XV (Roraa., tip. di Roma, 1881), che
è quel cod. canoniciano del quale diciamo più oltre (p. 159, n. 2); ma non
hanno nessun sentore polizianesco ; e i confronti che l'editore fa di essi con
odierni Rispetti sono per lo più arbitrarj e cervellotici.
(2) Gli Strambotti del Pulci, benché stampati più volte nel sec. XVI
(v. BiiUNET, Manuel, IV, 97.5), sono rarissimi a trovarsi: né mi riuscì rin-
venirne altro esemplare salvo quello esistente già.... in una biblioteca
d'Italia. Ciò mi avvenne nel 1866; e allora presi copia dei primi, risei--
vandomi a copiare il tutto con più comodo. Tornato più tardi a farne
ricerca, ho dovuto riconoscere che una mano rapace ha strappato il raro
Opuscolo dal volume miscellaneo ove si trovava. Ricordo però che in
questi anni passati un librajo propose di farmi vedere gli Strambotti, da
lui acquistati di recente, e ch'ei rallegravasi di poter vendere a caro
prezzo : se non che andato per cercarli, non li trovò più al loro posto, e
nell'impeto dello sdegno lasciò sfuggire il nome di colui, sul quale cade-
vano i suoi sospetti. Questo garbato signore era probabilmente lo stesso
che aveva defraudato del prezioso cimelio la Biblioteca già detta, e che
dopo averlo venduto al librajo, ora glielo aveva rubato per rivenderlo ad
altri, e così cavarne doppio profitto ! — Ora però codesti Strambotti del Pulci
sono stati riprodotti da A. Zenatti, Firenze, libreria Dante, 1887, che poi
diede fuori di su un'antica stampa altri Strambotti e Rispetti nobilissimi
d'amore... composti per L. Pulci fiorentino, Firenze, libr. Dante, 1894.
156 LA POESIA POPOLARE ITALIAKA.
Ma proseguendo vi ha qualche cosa di meglio; ad
esempio :
Che giova a me, se tu mi vói gran bene
E non me '1 sai, signore, addimostrare?
E se pietà tu hai delle mie pene,
Tu sai che me ne pòi remunerare ;
Tu pòi, volendo, tu venire a mene,
Venir sicuramente e ritornare ;
Se vuoi che l'amor nostro si mantenga.
Fa' ch'una volta a favellar ti venga....
Tanti dispetti tu mi fai il giorno
Che mi farai, iddea, disperare !
Vengo a vedere il tuo bel viso adorno
E tu me '1 celi e non me '1 vuoi mostrare ;
Ed io come ferito a te ritorno.
Abbasso gli occhi e non so che mi fare,
E poi mi parto forte sospirando,
A passo a passo, la morte chiamando....
Fa' mi quanti dispetti mi può fare.
Fuggimi pur, se tu mi sai fuggire;
E stu mi vuoi in tutto abbandonare.
Tu mi abbandona, eh' i' ti vo' seguire.
lo son disposto di volerti amare.
Se per amarti dovessi morire;
Giusta mia possa sempre io amerotti,
E per iddea a mia vita ferretti .
Quel che accadeva nel mezzo d'Italia, in quella
specie di Accademia che raccoglievasi nel palagio
mediceo, avveniva anche nello stesso tempo nel-
l'Italia inferiore alla Corte degli Aragonesi. (') Anche
là sentivasi il bisogno di innovare le forme della
poesia, di rinfrescare l'ispirazione nelle vivide fonti
del sentimento spontai>eo e popolare ; e come qua
sonavano agli orecchi i Bhpetti contadineschi, cosi
là gli Strambotii o Stranimotti. Il Cariteo, poeta spa-
(1) Vedi M. Mandai.ari, liimainri napoletani de! Quattrocento, Casert.n,
Jaselli, 1885.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 157
gnuolo, ma che visse in Napoli e scrisse in lingua
italiana, par che fosse il primo a volgersi all'imi-
tazione della poesia popolare. Se non che, pel poeta
della Corte aragonese si trattava di voltare in lingua
letteraria le forme vernacole, quando in vece al Po-
liziano ed ai Fiorentini giovava invece a quelle ac-
costarsi, e ritrarne il piìi possibile. Cosicché tanto
sono briosi e vivi e vispi i liispetti dei poeti toscani,
quanto gravi, pesanti, artificiosi gli Sfraìiihoffi del
Cariteo e de' suoi seguaci meridionali. Giudichisi dal
primo fra gli Straiìtmottl del Cariteo stesso ; ove però
è osservabile assai, al modo schiettamente popolare
del mezzodì, l'ottava composta di due rime quattro
volte alternate :
Accende il mio cantar fiamma d'amore,
Noi crudo mare e ne le gelide onde ;
Cantando io nelle selve esce di fuore
La fera che cacciata si nasconde :
Odono lacrimando il mio dolore
Omini et animali, arbore e fronde;
Ma riscaldar non posso il freddo core
Di questa, che m'ascolta e non risponde. (')
L'invenzione di questo nuovo genere di poesia,
accaduta quasi contemporaneamente a Firenze e a
Napoli, ma non senza, certamente, che l'esempio
dei poeti fiorentini avesse efficacia sui napoletani, (^)
incontrò il favor generale; e ben presto tutti i poeti
d'Italia dell'ultimo quarto del Quattrocento e de' pri-
mordj del secolo successivo, alle altre categorie, nelle
quali scompartivano le loro produzioni letterarie, ag-
giunsero anche quelle dello Straììihotto e del Bispetto:
(1) Nelle Opere del Chaeiteo dell'edizione veneziana di Manfiin Bon.
{-) Vedi E. PÈRCOPO, Le Mime dei Chariteo, Napoli, 1892, I, p. lxiv.
158 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
sicché un poeta del tempo, il Bellincioni, ridevasi
delle Muse tornate contadine, Là di Valdarno. (^) Se non
che, come avvertono i trattatisti, (^) sebbene fossero
una stessa e identica cosa, si andò d'accordo nel
serbare più specialmente lo Strambotto alla poesia
eulta (^) e il Rispetto destinare ali" imitazione delle
forme contadinesche. Ambedue derivavano dalla stes-
sa origine popolare; ma l'uno e l'altro si allontana-
rono dalla naturalezza, per volgersi quello alle sve-
nevolezze dei madrigali cortigianeschi, questo alla
caricatura delle usanze villerecce. Di Strambotti fu
piena tutta Italia, e specialmente le residenze prin-
cipesche: le dame e i cavalieri erano sazj del tanto
petrarcheggiare, e parve loro aver trovato nuova
vena di poesia, tanto piìi gradita quanto di sua natura
era o poteva parere improvvisata, e da cantarsi sul
liuto. Poesia e musica dalle aule scesero anche alle
vie e alle piazze, (*) e il popolo imitò le imitazioni
delle cose sue, fatte dai signori.
Come ai giorni nostri vedemmo venire in voga e
tornar di moda i Rispetti e gli Stornelli, così allora
fu degli Strambotti; ma la prova riuscì infelice così
allora, come ai dì nostri. Alla corte di Lodovico il
Moro, un gentiluomo napoletano di nome Andrea, ac-
compagnandosi collo strumento, introdusse dapprima
«li Strambotti del Cariteo, che avevano ricevuto lieta
(1} Rime, Bologna, Romagnoli, 1856, pag. 193.
(") Crescimbeni , Istoria della t-uly. pnenia , Venezia, 1731, voi. I,
pag. 203.
(3) Venuto alle mani dei poeti letterati e cortigiani, lo Strambotto
parrebbe giustificare la falsa etimologia da sti-an motto: strano, cioh, come
dice il Crescimbeni (Volg. Poes., I, 3, 4) e pieno di biziai-ì-issime fantasie
ed acutezze.
(*) Jiispetti da cantare in sul Unto, Stanze che si dicono sidla viola la
sera per serenata, sono dotti alcuni componimenti di questo genere, che
pubblicò G. Volpi, nella Biblioteca delle scuole italiane, voi. IV (1891%
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 159
accoglienza presso le nobili brigate e nella Corte
del mezzodì. L'udì Serafino dell'Aquila, che allora
dimorava in Milano, e divenne, mi si passi la parola,
il più grande e gradito stramhottajo di que' tempi.
Ma passando di imitazione in imitazione, quel poco,
anzi pochissimo di fragranza nativa che il genere
poteva ancora conservare, svanì affatto, e alle mani
di Serafino lo Strambotto divenne un epigramma
lezioso, un madrigaletto pulitino e tutto azzimato ;
il fiore dei campi tolto al vivido aere fu un povero
fiore di stufa. Già altrove ho dato esempio di questa
ibrida forma cortigianesca. {^) Aggiungerò soltanto
che degli Strambotti di Serafino e de' suoi imitatori
e seguaci si fecer raccolte a penna (") e a stampa, (^)
e che principali autori di questo falso genere, oltre
i due antesignani, furono Diomede Guidalotti, Leo-
nardo Giustiniani, (*) Bernardo Accolti, (;') l'Altis-
(1) Vedi Del secentismo nella Poesia cortigiana del secolo XV, nella
Nuova Antologia, 1876, e poi nel voi. StudJ sulla leti. Hai. de' primi sec,
Ancona, Morelli, 1884.
(-) Vedi ad es. i codici Palatini 228 e 573. Quest'ultimo codice, che
coTitiene 188 Strambotti di Mess. Sigismondo, sebbene abbia in alcun luogo
la data del 1477, per le pagg. dove .sono copiati gli Strambotti dev'essere
posteriore: ofr. Novati, Istoria di Patrocolo e fZ'/H»i(?o)-ia, Torino, Società
bibliof., 1888, p. XLViii). Il noma di Mess. Sigismondo indica forse sol-
tanto l'autoi-e dei primi, cliè ve n' ha fra mezzo del Poliziano, di Sera-
fino ecc., ma tutti adespoti. Anche un codice canoniciano di Oxford
descritto dal Moktaka (Catalog. n. 99) contiene, oltre XX stanze d'amore
e CXXIV ottave del Magnifico e i Rispetti e gli Strambotti spicciolati del
Poliziano, XLllI Rispetti di più persone, altri CCCCVI Rispetti anonimi, e in-
fine ancora altri XV Rispetti di più persone, fra quali ve n' ha del Poliziano.
(3) Vedine la bibliografia in M. Menghixi, Le Rime di Serafino dei
Ciminelli dall'Aquila, Bologna, Romagnoli, 1894, I, pag. lui e segg.
(*) Pel Giustiniani vedi i 27 5^c«ni&o«i di lui che pubblicai nelGiorn.
filol. Rom., II, 79; quelli editi dal MoepurcxO in Bibliof. Letter. popol., II, 95.
Vedi anche Sabatini, Alcuni Strambotti di L, G., Roma, tip. di Roma, 1880,
e T. Ortolani, Appunti su L. G., Feltre, Castaldi, 1896.
(5j Vedi il Quadrio, voi. III, pag. 290, il quale cita ancora gli Stram-
botti di Messer Zan Polio aretino, alias Pollastrino (sul quale è da
vedere Mazzi, La congrega dei Rozzi, Firenze, Le Monnier, 1882, I, 54),
Venezia, 1522, non avvertendo però che sono in lode di S. Caterina da
Siena, e già stampati nel 1505 : e dice poi, che nel libricciuolo intitolato
160 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
simo, (^) il Calmeta, Francesco da Mantova, Pamfìlo
Sassi, Francesco Gei (^) e persino il divin Pietro Are-
tino. (^) Di due altri, Baldassarre Olimpo da Sasso-
ferrato e Giambattista Verini fiorentino, parleremo
in appresso.
Abbiamo detto che vi è una forma intermedia,
nella quale l'artifizio poetico appena si svela, e che
più arieggia la schietta foggia popolana. Probabil-
mente, diventato ormai il Rispetto un genere in voga,
furono composti da chi non era propriamente popolo,
ma neanche possedeva vera cultura letteraria. (*)
Tali sarebbero quei Bispetti per Tisbe che trovausi in
un codice magliabechiano, {°) e de' quali altra volta
diedi un saggio, O ampliato di poi dal Carducci. (')
Sentiamone qualcheduno :
Cara speranza, mi mantien la vita,
Dolce diletto nel mio core stai ;
E di bellezza se' tutta compita,
Più ch'altra donna ch'io vedessi mai.
La tremenda e spaventosa Compagnia ile' Tagliacantoni e Mangiapilastri di
Buono Thomani cittadino lucchese, Vinegia s. a. e Viterbo IGUO, si trovano
molti di questi Strambotti. Ma il libro è stato jier me introvabile.
(1) Vedi l'edizione datane da R. Renier, Torino, Soe. bibliog., 1S86.
(2) Gli Strambotti di questi ultimi due, vedili in Fekkari, Bibliot.,1, 275.
Notizie sul Cei v. in G. Volpi, Note di varia erudis^etc. Firenze, Seeber, 1903.
(3) Introvabili sono stati per me anche gli Strambotti dell'AitExiuo.
Ho invece rinvenuto nella Marciana VOpera del fecundissimo giovene Pietro
PlCTOKE Aretino, zoé Strambotti, Sonetti, Capitoli, Epistole, Barzellette et
una Desperata, \enezìa, Niccolò Zoppino, 1512. Chi è egli, ebbi altra volta
a domandare, questo Pietro Aretino pittore? A questa mia dimanda risposo
A. Luzio, P. A. nei j)rimi suoi anni a Venezia ecc. Torino, Loeselier, 1888,
p. 109, identificandolo col Flagello de' Principi.
(<) Tale sarebbe quel (iiovan Matteo fiorentino, del quale il Ferrari
{Bibliot. letter. popol., I. Ili) riproduce sei Strambotti.
(;>) Cod. 1008, ci. VII, varior. (strozz. 638).
(0) In un articolo intitolato La poesia popolare fiorentina nel secolo
decimoquinto, inserito nella Bicista Contemporanea, voi. XXX, fase. lOG,
Torino, Settembre 18G2.
(7) Nel Discorso premesso alle J?iMie del Poliziano, ediz. cit., pag. cxiii
e segg. E ora sono stati pubblicati integralmente dal Ferrari, Bibliot. leti,
popol., I, 91.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 161
La faccia tua di rose è colorita,
Tapino a me, perchè la viddi mai?
Perchè la viddi mai ? perchè, perchè ?
Perchè la viddi mai? tapino a me!
Qua e là ne' seguenti è notevole la ripresa (/)
del concetto e delle parole negli ultimi versi, che
è forma caratteristica del genere presso i Toscani:
Non posso più cantare
Dentro al mio cuore è gran maninconia :
E aggio perduta la fresca ghirlanda.
Quella che mi donò l'amanza mia;
Come farò s'ella me la domanda?
Dirò : l'aggio perduta in questa via :
S'ella me la domanda con ragione,
Dirò : l'aggio donata ad un garzone. (-)
(1) La ripresa è anche in questo Strambotto stampato dal Carducci
negli Strambotti e liispetti dei secoli XIV, XV, XVI (Per le nozze Teza-
Perlasca : Bologna, Zanichelli, 1877):
Io mi vivea e non avea amore.
Non avea donna a chi volessi bene ;
Quando tu m'apparisti, o nobil fiore.
Al cor tu desti amarissinie pene.
Subitamente m'entrasti nel core,
Come saetta che dall'arco viene ;
Subitamente tu m'innamorasti.
Lo cor m'apristi e dentro ti serrasti.
Altri esempj se ne trovano in Fereaki, Bibliot. lett. popol., I, 78, 8.j ecc.
(.'-) Cfr. con questo canto marchigiano (Gianandbea, 165):
Me r' ho perduta ra violetta jalla,
Quilla che me don?j r'amante mia:
E si per sorte che me r'ardimanna
Dirò che me r'ho persa per ra via:
E si me r'ardimanna che ra ole :
Me r' ha rnbbata chi bene me ole,
E si me r'ardimanna che ra cliiede
Me r' ha rubbata chi me ole bene;
ridotto cos\ a Venezia 'Bernoxi, IV, 72) :
Per ti go perso la viola zala.
Quella che m' à dona el mio amore;
Cosa faroggio s'el me la dimanda ?
Dirìj che ghe l'ò dada al sonadore.
D'Ancona, La poesia pop. itaì. — 11
162 LA^POESIA POPOLARE IT ALIAI; A.
Sta colla buona notte, o Signor mio,
E allo mio letto me ne vo a posare....
0 dolce casa, o pietre preziose,
Ove dimora la speranza mia.
Per Dio vi priego die siate pietose :
Pietà vi prenda della doglia mia....
Dell lasso ! quanto dolorosamente
r faccio quest'amara dipartita! (')
Io mi diparto misero e dolente,
E l'alma si diparte dalla vita.
Eivederotti mai, stella lucente?
Rivederotti inai, rosa fiorita?
Rivederotti mai, cuor del mio cuore.
Gentile e bella, e delle rose il fiore? (-)
r faccio dipartenza sconsolata ...
Io so la gita e non so la tornata.... (^)
La dipartenza si vuol fare onesta,
Clio non ne dica mal lo vicinato....
Vengoti a riveder, anima mia,
E vengoti a vedere alla tua casa;
Pongoini ginocchioni nella via,
Bacio la terra dove se' passata ;
Bacio la terra, ed abbraccio il terreno,
Se non m'ajuti, bella, i' vengo meno.
Del qual ultimo cauto potrebbe essere uua varia
lezioue questo llispdio toscano:
Ti vengo a visitare, alma regina.
Ti vengo a visitare alla tu' casa:
Inginoccliioni per tutta la via.
Bacio la terra andii' che sei passata:
Bacio la terra e risgiiardo lo mura,
Dove se' passa, nobil creatura:
(1) Vedi altra lezione in Fei{faui. Jiihiivi. ìetl. popol., I, 81. Cfr. Tigri.
11. 588: Questa partenza mi par aupta lan/u. K n. 590 : Questa partita la vo'
far piangendo ecc. Cfr. AlvkkÀ, Canti popol. trarlizionali vicentini, ii. 1.
(2) Con lievi differenze è l'V'IlI dei Jiispetti del secolo XV, stampati
dall'ALVisi l'Ancona, Civolli. ISSO). — Qualche rassomiglianza ha con la
(juarta delle JV Ballate najiol. del sec. XV, edito da G. PÈiìCoi'o, Kapoli,
Do Kubertis. 1884.
(3) Cfr. Tioiìi. II. ,508: Che lo leniate fino alla tornata. E COG: Mi prese
a dimandar della tornata.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 1G3
Bacio la terra e risguardo le tetta,
Dove passaste, nobil giovinetta. (')
Frasi, parole, immagini assai rassomiglianti a
quelle dei Rispetti modernamente raccolti nel contado
toscano trovansi anche in questo componimento ine-
dito, che traggo da un codice Laurenziano, O ove è
veramente designato per Canzone a hallo, (^) non altro
forse essendo che Rispetti, come dicevasi, spicciolati:
Afiio, ciascuna donna inamorata,
Adio, costei, eh' è fresca più clie rosa;
Da voi si parte l'alma sconsolata.
Né mai si crede trovare altra cosa
Se non sospiri e guai con dolore,
Fin che non torno dove lasso il core.
0 me tapin ! potrò tanto parlare
Ch'io sia inteso da qualche creatura?
L'alma del core mi sento mancare,
(ij TiGKi. 11. 375.
(-) Laiirenz. SS. Annunziata, il. 122. Le poesie popolari ivi contenute
sono ora pubblicate per intero dal Ferkari, Bihl. leti, popol., I. 101.
(3) Col nome e la forma di Ballata, ma cun stretta rassomiglianza
allo stile dei Rispetti, trovasi quest" altra poesia nel cod. 379 Magliab.,
cos\ stampata dal Trucchi (II, 32.")) :
Tradita sono da un falso aniadore.
Che m'ave per vaghezza tolto il core.
E se n' è ito, o lassa isventurata,
E so che più di me ne va penando :
Ed io rimango tutta isconsolata.
Perclr io so bene eh' io mi moro amando.
Non me n'avveddi, lassa!, se non quaiulo
Un leni servo mi scrisse il tenore.
Quando da prima di lui innamorai
E' non ardiva di guardarmi in viso ;
Ed io cortesemente gli parlai,
Guardando sempre ne' suoi occhi fiso;
E si partì da me col cuor conquiso
E de' mie" vaghi sguardi il prese amore.
Con quanta pace e con quanta allegrezza
Mi veniva a veder qnel damigello:
E per la tanta sua piacevolezza
Ognora eh' io '1 vedea parea più bello.
Ben credetti di lui portar l'anello.
E non aver giammai altro signore ecc.
1(34 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
Cieito mi viene per la mia sventura.
Della gran doglia mi vo' disperare,
E biasimar la sorte e la fortuna
Che Dio m' ha dato in questo mondo rio,
eh' io serva a chi consuma lo cor mio.
Chi mi t'ha tolto, il caro mio conforto?
Chi m" ha rubato la speranza mia?
Chi mi t'ha tolto, fresco giglio d'orto,
Consolamento della vita mia?
Chi mi t'ha tolto, il caro mio aspetto (?),
Chi mi t'ha tolto, fior di legiadria ?
Morte non ha (?) disfatto quel bel viso,
Che facea in terra un altro paradiso.
Ohi, dappoi che non ti vidi mai,
Ne non baciai il tuo polito viso,
Che tu diciesti : " Anima mia, che fai?
Baciami un tratto, e fammi sto servizio ,.
Ed io meschino, allora ti baciai,
Ta mi abbracciasti con sì dolce riso.
Che di morir saria stato contento,
Tanto era dolze quello abrazamento.
Ornò vicine, perchè non piangete
Che avete perso il fior di gentileza?
Oniè, meschine, che non conoscete
Né non curate della sua vagheza ;
Ma in breve tempo voi vcderete
Mancar fra voi ogni allegreza :
Mancheravi ogni gioja, ogni piacere,
Perchè il bel viso 'n potrete vedere.
0 inaniorato, che giìi, tanto amasti
Quello bel viso, eh' è fatto di terra,
E licenzia da lei tu non pigliasti,
Perchè facesti con lei tanta guerra?
La bocca bella perchè non baciasti?
Perchè lassasti andarla sotto terra?...
Voi viverete sempre mai nojosi,
Ed io meschino sempre piangeraggio,
Ch' i' ho perduto i begli occhi amorosi;
Si bella donna mai non troveraggio,
Né baci che sien tanto graziosi :
Omè meschino, come la faraggio ?
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 165
Morii- voglio, lasso me meschino,
E seguir sempre il viso pellegrino.
Quando mi penso, oimè, del bel partito
Sol che perdei per non aver baldanza,
Ben vorrei esser vivo sepelito ;
E porto in cuore pur tanta tristanza,
Che di baciarti non fui sì ardito
La tua boccuccia di tanta dolcezza :
Che se a quel luogo presto non ritorni.
Morto mi troverai in pochi giorni.
Ma che ci giova, ahimè ! se noi ci amiamo?
Noi stiamo in pene, e mai non godiamo : (^j
L'uno con l'altro gran pena duriamo
Quando cogli occhi noi ci vediamo.
Facciamo cosa che ci consoliamo,
Che in bocca della gente non istiamo :
Desiderare e non aver mai bene,
Lo corpo ha tormenti e l'anima pene.
Questa contrada è piena di amanti,
Questa contrada è piena di amatori :
'N questa contrada vengon tutti quanti,
E par che piovan li vagheggiatori ;
Alla mia vita non ne vidi tanti
Quanti ne veggo passar quinci fuori :
La gente ne ragiona a quel ch'io sento....
Uguale indole, mista di naturale e di artificioso,
di spontaneità e di imitazione, di popolare e di cu-
riale hanno centoventicinque Rispetti, che trovansi
in un codice della Biblioteca di Perugia, che per
somma gentilezza e benignità del perugino Municipio
mi è stato concesso potere studiare e copiare a tutto
mio agio. Un saggio di siffatti Rispetti venne dato
nel 1859 dal prof. Adamo Rossi : (^) di poi. per nozze
(1) Che giova dir ci amiamo, sì, ci amiamo: Che giova lo volerci tanto
bene ecc.: Tigri, ii. 577. Cfr. questo Canto tevamese: Che sserve che ttii
tnme gar.i' e e i' te game? Che sserve cusctu bhen die 'noe viileme?: MOLIXAKI
DEL Chiaro, Canti pox)ol. teram., n. 25; e questo umbro: Che giova che re
amamo che ce amaino Che tanto no'pijà nun ce podemo ? (Mazzatinti. 137).
{-) Saggio di Eispetti cavati da un cod. della Comunale di Perugia,
per cura del bibliotecario Adamo Rossi, Pei'ugia, Vagiiini, 1859.
166 LA POESIA POPOLARE ITALIAJNW.
di un amico, io ne pubblicai alcuni altri: Q) orami
pare che possa essere di qualche utilità renderli tutti
di pubblica ragione, come sarà fatto in Appendice a
questi studj. (-)
Questi Rispetti si direbbero una raccolta di com-
ponimenti di vario genere, benché della stessa fami-
glia; e non solo di vario genere, ma di diverso stile;
imperocché ve n' ha alcuni che sanno assolutamente
di letterario, altri che si direbbero esemplati dalla
viva voce di un cantore, che li profferisse accom-
(1) Bispetti del sec. XV, Livorno, Vigo, ISTO, Per nozze Gargiolli-
Xazari.
i") AbLiamo già citato uno di quegli Strambotti pubblicati già dal
Carducci per occasione di nozze : eccone \m altro clic molto si avvicina
alla maniera popolare, estratto da un cod. scritto nel l-lòS;
Gli occbi leggiadri sotto brune ciglia,
Quanti ne sguardi innamorati n' liai ;
E" bianchi denti e le labra vermiglia;
Ah traditora, quanti morti n'hai!
Un angiolo del ciel mi t'assomiglia.
Tante son le bellezze che tu hai.
Beata a te, beata a te. beata,
Da quanti amanti se' desiderata !
Aggiungiamo questi due comunicatici dal dott. Curzio Mazzi e tolti da un
cod. del 1438 esistente nel K. Archivio di Siena:
Il più lieto amante di questo mondo fui.
Ora mi trovo il più isconsolato :
Questo mi avvien per lo dir mal d'altrui ;
Donche, mal aggi chi mi ci ha'ncolpato:
Ancora spero di veder colui
Stentare al mondo per lo suo peccato:
Ancora spero di veder vendetta
Di quella falsa lingua maledetta.
Po' che la mattinata faggio fatta
Dammi licenza eli' i' mi vo' partire.
E' non è ora di più stare in piazza,
E l'ora è tarda, e vogliomene gire,
Dammi licenza mia carnale.
Che l'ora è tarda, e più non posso stare.
Pel primo Rispetto, v. la lezione veneta offerta da V. C'ian, Ballate e Stram-
botti del sec. XV, in Giorn. Stor. Lett. Ital., IV, 5.3.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 167
pagnandosi con la viola, sotto le finestre della
innamorata. Stenterebbesi a credere che potessero
essere di un solo autore, anche se fra mezzo non
ve ne fossero alcuni di quelli che già vedemmo inti-
tolati a Tisbe dal codice magliabechiano, ed altri di
quelli qui sopra riferiti dal laurenziano. Nessuno poi
potrebbe sostenere che dovessero riporsi fra i vera-
mente popolari quelli in che la bella è paragonata
ad Elena, a Medea, a Pulisena, a Pantasilea, seb-
bene questi nomi dovessero, per opera dei cantori
di piazza, esser noti anche fra la plebe; né quelli
in che la durezza della donna è detto superar la
crudeltà di Nerone e di Mezenzio. Così anche ognun
sente che dev'esser penna eulta quella che ha scritto:
Al paradiso è fatto un gran rumore,
Che via se n' è volata un'angiolella :
Ala furata l'alto Dio d'Amore,
Perchè li parse angelicata e bella.
Per contrario altri ve n' ha, de' quali l' intonazione
è ben diversa, e ove trovasi anche la ripresa finale.
Siene questi d'esempio :
Chi ara cotanta grazia da Dio,
Chi sarà quello tanto grazioso,
Che goda el tempo che perduto ho io
In questo mondo senz'aver riposo ?
Chi sarà el tuo marito, o signor mio,
Chi sarà quello avventurato sposo.
Chi sarà quel di si contenta vita.
Che metterà l'anel fra le tue dita?
Affacciati, Signora, e udirai
Costui che par che tanto pianga forte:
A fatto li Rispetti a li suoi guai,
Piange e sospira e domanda la morte:
Oimè, Signora, se lasciato m' hai.
Girò baciando le mura e le porte :
168 LA POESIA POPOLARE ITALIAXA.
Girò baciando le porte e le iiuua,
Se m'abbandoni, o cara mia Signora.
Forse, Madonna bella, tu non sai
Coni' io son forte di te innamorato;
Non mi conosci, e non mi udisti mai
Andar cantando per questa contrata,
Madonna, sono Io servo clie ormai
Novellamente l'alma t'ho donata;
Sono il servo, Madonna, che di uovo
Tu m' bai ferito, e pace pili non trovo.
Tanti dispetti mi fate lo giorno,
Faretemi, Madonna, disperare:
Vengo a vedere lo tuo viso adorno
Tu ti nascondi, e non mi vuoi sguardare;
Ed io com'nomo morto mi ritorno
Con gli occhi bassi, e non li posso alzare;
Poi mi ritorno forte sospirando,
Di passo in passo la morte chiamando.
Qua e là si trovano immagini, frasi e anche versi
delle odierne Canzoni campagnnole: ma non già un
Rispetto tutt' intero. La maggior rassomiglianza è
forse fra uno di questi Rispetti ed altro della rac-
colta del Tigri. L'antico dice a questo modo :
Quattro parole ti voglio ridire,
Poi che m'avesti, donna, abbandonato;
E la prima è, che tu mi fai morire,
E l'altra, ch'io ti sia raccomandato:
La terza, io non la posso sofferire;
Dammi la morte, io sono apparecchiato:
S' io mora, eh' io non sia da voi aiutato.
Vostra salii la colpa e lo peccato.
E il Canto toscano :
Alza la bionda testa e non dormire.
Non ti lasciar superar dallo sonno :
Quattro parole, amore, io son per dire,
Che tutte e quattro son di gran bisogno;
La prima, eli' è che mi fate morire.
LA POESIA POPOLARE IT ALLENA. 169
E la seconda, che un gran ben vi voglio:
La terza, che vi sia raccomandato,
L'ultima, che di voi so' innamorato. (')
Sulle coste adriatiche, a Zara, suona così:
Alza la bionda testa e no dormire,
No te lassar più vinzere dal sono!
Quatro parole t'avaria da dire
E tute quatro xe de gran bisogno.
La prima : Bela, no mi far morire :
La seconda : Che peno note e giorno;
La terza : Che ti amo e te vói bene,
La quarta: Levime da queste pene. (^)
Ad ogni modo, si le imitazioni cortigianesche e
sì queste di minor suono, debbono ragionevolmente
far presupporre resistenza di Canti prettamente
popolari, che servissero di modello. Riconosciuto che
negli Strambotti e Rispetti delle stampe e dei codici
del Quattrocento (^) si vuol riprodurre la maniera
(1) Tigri, n. 263. Cfr. Gianandkea, p.131; Marcoaldi, Canti papol.
umbri, n. 69, e Canti pop. latini, il. 29, 40; IvE, pag. 7*2 ; Manda lari, p. 100.
Cfr. anche Vigo, n. 1447 : Quattru, suspivi ti mannu, patruna. Tutti quattru
■fidili ammasciaturi ecc.
{-) Viixanis, XXV Strambotti pop. zaratini, n. 1.
(3) Notiamo alcune stampe di Bispetti e Stratnhotti anticlii fatte in
questi ultimi anni :
C. Gakgiolli, Rispetti da contadini di Aless. Adimari (estr. dal
Propugnai., 1874).
A. D'AscoNA, Rispetti del sec. XV, Livorno, Vigo, 1876 (per nozze
Gargiolli-Xazari).
G. Fedeezoni, Ballate e Strambotti del sec. XIV, Bologna, Zanichelli,
1876 (nozze Peli-Verati).
G. Carducci, Strambotti e Bispetti dei sec. XIV, XV, XVI, Bologna,
Zanichelli, 1S77 (per nozze Teza-Perlasca).
V. Joppi, Rime amorose del sec. XV, Udine, Seitz, 1879 (per nozze
Freschi-Perugini).
E. Alvisi, Rispetti del sec. XV, Ancona, Civelli. 1880.
L. Gentile, Cinque Rispetti ined. del sec. XV, Firenze, Arte della
Stampa, ISSI (per nozze Biagi-Piroli).
V. Morandi, Rispetti di Amore del sec. XV, Roma, Centenari, 1862
(per nozze Francisci-Paparini).
S. Ferrari, Serenata del sig. 2'orquato gentiluotno napolitano, Livorno,
Vigo, 1883 (per nozze Marradi-Foraboschi).
170 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
di poetare propria del popolo, è necessario ammet-
tere che r imitazione non fosse fatta a caso, ma
sopra esempj di qualche notorietà. Se non che, ognun
ben comprende come sia ben difficile il poter dire:
questi e questi furono i Canti che il popolo della
città e del contado possedeva in quel tempo : ma
potrebbe anch'essere che un giorno una qualche
felice scoperta ci conducesse a conoscere quanto
L. Gentile, Serenata di Strambotti del sec. A'I', Prato, Unione, 1883
'pei' nozze Marradi-Foraboschi).
D. NiGRisoLT, Strambotti di G. B. Refrigerio, Bologna. Zanichelli, 1884
(nozze Rava-Baceaiini).
V. Gian, Ballate e Slrainholti del sec. Xf, tratti da un cod. trevisano,
in Giorn. Stor. Lett. It., IV, 1.
M. Mandalari, liimiitori napoletani del Quattrocento, Caserta. Ja-
telli, 188.-..
U. Bassini, Rime di Cesare Nappi notnro boloc/nese del sec. ATT', Bo-
logna, Zanichelli, 1886 (per nozze Ferrari- Gini).
S. Ferrari, V. Fiorini, V. Bugaki.i, Stram'iotti di Baldassarre Olim^jo
da Sassoferrato, tratti dalla Nova Fenice, Bologna, Zanichelli, 1886 (per
nozze Zanichelli-Mariotti).
Renier R., Strambotti e Sonetti dell'Altissimo, Torino. Società Biblio-
flla, 1886.
G. Padovani, Strambotti del sec. XVI, Bologna, Azzognidi, 1887
(nozze Padovani-Padovani).
G. e T. Casini. Sonetti, Ballate e Strambotti d'amore dei sec. XIV e XI',
Firenze, Carnesecchi, 1889 (nozze Magnoni-Loli).
M. Menghini, Dodici Rispetti pop. ined. (estr. dal Propugnatore, N. S.,
Ili, 274), Bologna, Fava e Garagnani, 1890.
G. Volpi, Poesie popol. italiane del sec. XV, Verona, Tedeschi, 1891
(dalla Sibl. delle Scuole iteti., IV, ;!).
L. F. Valdrighi. Il libro di Canto e dì Liuto di Cosimo Bottegari,
fiorentino, Firenze, Orlandi. 1891.
G. Zannoni, Strambotti ined. del sec. XV, Roma, Salviucci, 1892.
E. Percopo. Barzellette napoletane dtl Quattrocento, Kapoli, 1893,
(nozze SoglianoMasi;.
A. Saviotti, Rime ined. del secolo A'I', Bologna, Fava e Garagnani,
1893 (estr. dal Propucinatore, N. S., XV).
P. Tommasini-Mattiucci, Per nozze Luzi-Corneli, Citt.'i di Castello,
Lapi, 1898.
S. Ferrari. Rispetti, Canzonette musicali e giuochi per le veglie, da
mas. toscani dei sec. XVI e XVII, Bologna, Zanichelli, 189.5 (nozze Bas-
sini-Cherubini). '
F. Fla.mini, Ballale e Strambotti di poeti aulici del (,iuattrocento, Pa-
dova, Cooperativa, 1897 (per nozze B'Ancona-Orvieto).
S. Ferrari, Per nozze Menghini-Zannoni , Bologna, Zanichelli, 1893.
LA POESIA POPOLARE ITALL^XA. 171
desideriamo. Cou la raccolta perugina siamo assai
vicini alla forma prettamente popolare; anzi qua e
là vi sono Rispetti clie stimiamo proprio di popolo,
mischiati ad altri apocrifi e curiali. E perchè non
potremmo supporre che taluno, quando il genere co-
minciò a prender voga, si ponesse a far rappresaglie,
come direbbe il Poliziano, dei Rispetti originali,
preferendo alle imitazioni pili o men bene riuscite, le
più ingenue immagini del genere stesso?
Ma finché altri faccia la desiderata scoperta,
noi ne abbiam fatta una per conto nostro, la quale
ci potrà indubitatamente far conoscere che cosa
cantasse il popolo fiorentino qualche secolo addietro.
Il lettore ci perdoni la superba parola di scoperta
che abbiamo adoperata: ma nel caso nostro e' vedrà
che la fortuna ha avuto men luogo che non in molti
altri, e ci abbiamo un poco di merito, avendo scorto
coi nostri occhi quello che tanti altri occhi, che si
eran posati sullo stesso documento, non avevan
saputo ritrovarvi, o avevan solo intraveduto. La
dimostrazione poi di questa, ci si lasci dunque dirlo,
scoperta, ci è costata tanta fatica di ricerche, e
tanta contrazione di memoria, che il discreto let-
tore vorrà usarci indulgenza, se arrivati in fondo
saremo così sfacciati da chiedergli il plaudite. C)
Or ecco di che si tratta. Agnolo Allori detto il
Bronzino, fiorito come pittore e come poeta sulla
metà del sec. XYI, scrisse fra le altre cose facete,
onde è annoverato fra i berneschi, un Capitolo inti-
mi) Dobbiamo avvertire che conteraporaneamente a noi il Rubieki si
accorgeva anch'egli del fatto, e istituiva raffronti nella stia Storia della p.
pop. italiana (Firenze. Barbera, 1S7S, p. 212 e segg.1 fra la Serenata e i Canti
popolari. In questa seconda edizione del nostro lavoro abbiamo pi'otìttato
delle ricerche del Rubieri, e per le indicazioni di lui e nostre, nonché di altri
studiosi abbiamo potuto portare a maggior compiutezza codesti raffronti.
172 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
tolato la Serenata, stampato in fine alla Catrina del
Berni, nell'edizione del 1567. Fu di poi riprodotto pa-
recchie volte: ma senza clie nessuno si avvedesse che
la Serenata era un centone, salvo forse l'editore mi-
lanese delle Opere del Berni stampate dal Sonzogno
nel 1873, che fu il compianto Camerini. Infatti egli
si avvicinò pur dubitosamente al vero, dicendo:
Ogni terzetto pare finisca con un verso di Canzoni
popolari; ma si restrinse poi a additare due soli casi,
ne' quali, come vedremo, sono riferiti i capiversi di
Canzoni, che trovansi già nella Mandragora di mes-
ser Niccolò e \\e\V Errore del Gelli : però ei nulla
vide che gli rammentasse poesie popolari tuttora
cantate. Noi di queste abbiamo ritrovate una gran
quantità : ma per quanto studio ci abbiamo posto,
per quanto abbiamo lavorato colla memoria, non
siamo però sicuri di non aver peccato di ommissione.
Ci sono alcuni versi che ci stanno fitti in capo come
antiche conoscenze, come già trovati in qualche poe-
sia popolare, senza che ci sia stato possibile rinve-
nirli nelle collezioni a stampa. Altri potrà aggiungere
a quanto già abbiamo raccolto; nuove pul)blicazioni
di Canti popolari daranno altri raft'ronti; e forse si
potrà, per nuove cure, provare per l'intero compo-
nimento ciò che adesso proviamo solo in parte, e
pel rimanente affermiamo: cioè, che la Serenata del
Bronzino è nell'ultimo verso d'ogni terzetto, tutt'un
centone di capiversi, i quali appartengono a Rispetti
popolareschi. (^)
(1) Il Bronzino non può dirsi inventore dì questo genere, dacché il
KovATi (Stiulj crii:, e letter., Torino, Loesclier, 1889, png. 218) ci addita una
(ìixperata amorosa del sec. XV, dove ogni terzo verso appartiene al vecchio
o al nuovo Testamento e talvolta a qualche inno liturgico, e ne adduce a
prova le prime setto terzine.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 173
Riferiremo per intero la Serenata, (^) sofferman-
doci ogni tanto a indicare i Canti popolari, onde essa
è congesta. E molto probabile che il Bronzino cono-
scesse i Canti nella loro forma toscana: ma, poiché di
taluni è superstite soltanto la lezione in altri dia-
letti italiani, le nostre ricerche e le indicazioni ap-
partengono non solo alle raccolte toscane, ma a
quelle di tutti gli altri vernacoli finora pubblicate.
Se tu volessi duo parole udire
Fatti un -po' fiiora ; e se tu se' nel letto,
3) Deh lieva la tua testa da dormire.
Quest'ultimo verso rammenta il principio del Ri-
spetto, che qui addietro abbiamo già riportato :
Alza la bionda testa e non dormire. ('-)
E di': mia madre, ascolta; al dirimpetto
Sento lUi che canta, ed un arpe die suona;
6) Porgimi la camicia e lo reietto.
Anche qui abbiamo una notevole rassomiglianza con
un verso di Canto siciliano :
Mamma, ca passa In duci bninettu;
E iddu. la caiuisciu a lu cantari ;
Pigghiami la camicia e lu trubbettu. (^)
Quanta ni'affacciu e lo viju passari ;
Vista ca riiaja li tricci ci jettu
E trizzi trizzi lu fazzu acchianavi: C*)
(1) È curioso l'esperimento fatto testé dalla signorina A. Fukno sopra
un improvvisatore popolare di Legnaja, dicendogli il primo verso dei Canti
riforiti dal Bronzino, e dandogli come l'aìi-e a seguitare con altri quattro
versi (v. Uno Sfomellaio fioi-entino, in ArcJi. irati, popoì., XX, .340).
(2 Vedi p. ICS. E cfr. Tigri, n. 263; Dal Medico, Canti del popcl. venez.,
pag. 37; Bebnoni. punt. IV, n. 45; Garlato, p.304; Villaxis, XXV Storn.
zarat., e anche Imbriani, II, 122.
(3) Fe/e«o, diminutivo di velo; truhhettu, gonna, grossolana, specie
di gamuiTa usata dalle donne di contado; la differenza di luoghi e di
usanze dà ragione della variante.
(*) Le trecce che fanno da scale si ritrovano in molte poesie e rac-
174 LA POESIA POPOLARE ITALLVXA.
Oca juiitu poi In striiiciu a lu ine pettu,
E senza sonu lu 'nsigiui a ballar!. (')
r son sì vnyo della tua persona.
Che vagheggiando vo sera e mattina
9) La casa per amor della padrona.
Tu mi piacesti infiìi da piccolitia,
Ond' io ho detto, tanto che son fioco:
12) Autor, amor, tn se' la mia rovina.
Quest'ultimo verso abbiamo piìi addietro citato, pel
ricordo che se n'ha ncW Errore del Gelli: e, aggiun-
giamo qui, nella Tonici del Tantera di Gabriele Si-
meoni. Perduta la lezione antica e non sovvenendo-
cene altra, ne riferiamo una lombarda :
Aniur, amur, te set la mia rovina
De fanun innamora insci piccolina;
Ma famm innamora non 1' è niente,
Abbandonar l'amur l'è un sran tormento. (-)
conti d'ogni popolo: vedi in proposito una nota del Kììhler alla SS'' Tso-
vella siciliana della Gonzexbach. Sicilìan. Muurchen ecc., Leipzig. Engel-
niann, 18.70. Il, 236; Pitèè, Fiale, novelle e racconti popol. sicil., Palermo,
Pedone, ISTa, voi. I, pag. 112, 121, 167, e Imbbiani, XII Canti pomiglianesi,
p. 129, noncliè C. popol. proc. meridionali, I, 53-4, e C. popol. di Mercogliano,
11. 1.5; CoKAZZiNi. p. 42 (la fiaba di l'etrusinella: cfr. De Nixo, Usi e co-
stumi abruzzesi, Firenze, Barhera, 18S3, in, 60, e PiTEÈ, in Arc'i. trad. i>02>.,
I, 526}; MoLiNAEi DEL Chiaro, C. pop. nnp., p. 113, 149, e del medesimo,
C. p. di Meta, u. 42, nonché in (?. B. Basile, II, 28. Odasi ad esempio, questo
canto di Mercoyliano, il. 13 (cfr. nel periodico La Calabria, II, 28):
Figliola, clie stai "neiiniuo a 'sta feiiesta,
Famme na grazia, min te ne trasire:
Jlineme 'nn capillo de "sta trezza.
Calale abbascio ca voglio saglire.
Quanno nce simmo "ncoppo a 'sta fenesta,
Pigliame 'mbraccio e portarne a durmire;
Quanno nce simmo 'ncoppo a cliillo lietto,
Oh quanto suolino ca voglio durmire !
Per il passo del Fiiìdusi cit. dal Kohler nella traduzione dello Schack,
possiamo rimandare alla traduzione italiana del Pizzi, liacconti epici, To-
rino, 1877, pag. 450.
(1) Vigo, n. 627. Cfr. Guastella, Canti popol. del circondario di Mo-
dica, p. 88, dove però il 3» verso dice: Purtatimi 'na seggia di rispetta.
(•) Imbriaxi, Canti p>opol. di Massa Lombai-da e Varese,».'. E anche,
ma non come capoverso, in Mazzatinti, ii. 108.
LA POESIA POPOLARE ITALL4NA. 175
In quel principio e' vii nojarn poco;
E per vedere in te tanta bellezza,
15) Credetti che l'amar fosse ìin bel (jiuco.
È il Rispetto toscano che dice :
Credevo che l'amor fosse un bel giuoco,
Quando l'incominciai a praticare;
M' è riuscito una lìaninia di fuoco,
Che non la spegneria l'acqua del mare; (')
che nel Veneto prende questa forma pili scherzosa:
Credeva che l'amore fusse un ziogo,
Che a' fusse' na roba da magnare :
Adesso che la vedo e che la pruovo,
La xe 'na roba da considerare; ('^)
0 anche :
Me vogio maridar : so' maridada ;
Credeva de star ben: so' sassmada ;
Credeva che l'amor fusse un zogheto.
Ma invece l'è un tormento maledeto :
Credeva che l'amor fusse un zogar,
Ma invece l'è un tormento da crepar. (^)
Dipoi ni'è sempre accresciìito vaghezza,
Ch'io dicea meco: a goder quel bel viso,
18) Se tu sapessi qnant'egli è dolcezza!
Questo verso ci può dar testimonianza della
popolarità che ebbero, e tutt'ora conservavano un
secolo appresso, i Rispetti del Poliziano, poiché di
lui è quello che così appunto comincia:
Se tu sapessi quanto è gran dolceza
Un suo fedele amante contentare.
(1) TitJEi, 11. Só.t; Giuliani. Moralità e Foesia ecc., pag. 262. Cfr. Vigo,
11. 1350: Tu ti credeyinu chi l'amuri è jncu ecc. E un Canto c:ilabiese in
Lombroso, Tre mesi in Calabria (lìivlut. Conttnipor., voL XXXI, p. 41.5,
decembre 1863): Tu ti cridivi cri l'amore è gioco: L'an>ore è foco, e non si
X>Ho sfittare. E nell'Istria: Credilo che l'aniure fuosso un zoyo, Ch'tl fuosso
qualche citossa da mangiar ecc.: IvE, p. 145.
(2) Garlato, p. 283.
(3) Dal Medico, pag. 157. Cfr. Beexom, piiiit. Il, n. 03.
176 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
Gustare e' modi suoi, Li geutileza,
Udirlo dolcemente sospirare:
Tu porresti da canto ogni dureza,
E diresti: una volta i' vo' provare ;
Quando una volta l'avessi provato,
Tu ti dorresti aver tanto indugiato. (')
Tanto che a lìoco a poco io sono ucciso,
Anzi fili ìììorto, a quel che di' indorino,
21) Quando nascesti, fior del j^aradiso.
Abbiamo qui uno dei piìi noti fra i Rispetti
odierni del contado :
Quando nascesti, fior di paradiso,
A Roma vi portonno a battezzare :
11 Papa santo vi scoprì il bel viso,
E grazia chiese d'esservi compare; C^}
Vostra madre vi vedde tanto bella.
Nome vi messe la diana stella :
Vostra madre vi vedde tanto cara,
Nome vi messe la stella diana, (^j
Ma si trova già. frammisto ad altre scritture.
in uno scartafaccio di un notaio del sec. XV:
Quando nasciesti, o fior del paradiso.
Fusti portata a Roma a battezzare.
El papa quando ti scoperse il viso,
Chiese di grazia d'esser tuo compare,
E la tua madre, graziosa e bella.
Ti pose nome la diana stella. C)
1) Ediz. cit., pag. 244.
('-') Migliore perchè di andamento più natnrale, la lezione da me rac-
colta: Il santo padre vi scoperse il viso E chiese grazia ecc.
(3) Tommaseo, C. pop. tose., pag. .58: Tigri, n. 87. Cfr. Maecoaldi. C.
popol. umbri, n. 1.5; Mazzatinti, n. 39; Mandai.aei, ^?<rt Canti ecc. n. ."l-ì;
C'ALIAI!!, p. ."ÌS. Una variante toscana da me raccolta:
E lo tuo babbo clfera un buon garzone
Ti messo nome la spera del sole:
E lo tno nonno ch'era nn vecchio antico
Ti mosse nome fior del Paradiso.
(<) Alvisi, liispetti del sec. XV, Ancona, CivcUi, 1880, n. .3.
LA POESIA POPOLARE ITALLA.XA. 177
Non posso stare in casa, e fuor cammino; (')
E però mi vien detto a tutte l'ore:
24) Madonna, io mi son fatto peìlegrino.
Il seguente Canto che trovasi in certe Raccolte
semipopolari a stampa, delle quali ampiamente di-
remo in appresso, sembra variante o derivazione di
quello che cominciava coll'ultimo verso trascritto :
Finger mi voglio un dì da Pellegrino,
Venuto da paesi assai lontano :
Poi voglio accostarmi a voi vicino,
Chiedendovi pietà di un cristiano;
Quando vorrete darmi qualche quattrino,
Vi stringerei nel prenderlo la mano,
E mi farei chiamar fedele amante,
Tanto fedel per voi, tanto costante. (-)
Che cosa avrebbe fatto l'amante vestito da pel-
legrino, lo dice questo Canto popolare siciliano:
Curuzzu, pri putirivi parrari
Bisogna ca mi vesta pillirinu ;
Di arreri la tò porta addimannari ;
— Faciti la limosina a un mischinu. —
— Figghiuzzu, 'un haju nenti chi vi dari,
Cca non mi trovu ne pani nò vinu :
La sula cosa ti putissi dari
Lu rizzettu pri sinu hi mattina ;
E a lu mattinu ti vegnu a shugghiari :
— Susi, viddanu, ca ha fari camminu. —
— Non su' viddanu, no, su' cavaleri ;
Lu tò amuri mi ha fatta pillirinu — (')
(1) Cfr. Vino, 11.2104: Xun imzzu citniirtari na nuttata, Mi shsh ililu
lettu, e nesciii fora.
(2) Vedi ImbriANI, C. popol. pror. merid., Il, 2-Ì5. Cfr. Mine caglio
fare Monaco remito, in Imbkiani, C. p. di Marìgliano, il. 11: un Cinto
greco di Castrignano in Morosi, n. 90, e Molinaei, C. p. ìictpoL, n. 222 e 230.
e C. pop. di Meta, n. 47.
(3) Vigo, n. 2G3. Cfr. Pitkè, C. pop. sicil., J, 228.
D'Ancona, La poesia pop. itaì. — 12
178 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
E nelle provincie meridionali:
r n' aggio conime fa ppe te parlare,
Vestire nime nge voglio cappuccino ecc. (')
Pìglio licenza, e dico in un colore,
Come se mi si fusse sparto il fiele:
27) r mi parto da te, madre d'amore.
Ma che mi giova per alzar le vele
Standomi in porto: tu se' la mia stella,
20) 0 fancinlletta di casa crudele !
E quest'epiteto ci fa venire a mente il principio
di una Canzone siciliana:
Finestra tli 'na cammara crnilili,
(Juantu sospiri mi hai fatti jittari. (')
Il cuor nel petto mi batte e martella
Per gelosia, e dico a ogni jìcrsona :
83) Chi goderà la tua persona bella ?
Qui giova ricordare, pel concetto se non per le
parole, il primo dei riferiti Rispetti del Cod. peru-
gino Clìi ara cotanta grazia ecc., e richiamare anche
questa ottava della Nencia :
Ben si potrà tenero avventurato
Chi sia marito di sì bella moglie :
Ben si potrà tenere in buon dì nato
Chi ara quel fìoraliso senza foglie;
Ben si potrà tener santo e beato
Chi si contenti tutte le sue voglie
D'aver la Nencia, e tenersela in braccio,
Morbida e bianca, che pare un sugnaccio.
(1) Imbeiani, C. pnpol. prov. meridion., II, 2i.S. Per travestimenti drl-
ram.iiite in pellegrino, vedi Imbkiani, I, n. 182, 3.30; Tigiìi, 025, 1130; Fek-
RARO, C. popol. moiiferr., n. 25, e C. pop. di Lagose, n. 76 ; Bernoni, punt.
IX, n. 7, e Tradizioni popolari veneziane, p. 30; Bolza, n. 56 e AVidtek-
WoLF, n. 95.
{-) Vigo, n. 1394: cfr. n. 937: Piteè, C. popol. sic, I, p. 244; Avolio,
num. 92.
LA POESIA POPOLARE ITALIAXA. 179
E questo Rispetto attribuito al Pulci:
Quanto felice in vita sarà quello
Che potrà tua persona possedere !
D'esser tuo sposo e di darti l'anello
Certo felice si potrà tenere,
D'aver in sua balìa corpo sì bello
Sì come il tuo, né debba altro volere
Che tener te per legittima sposa.
Che fu né sarà mai si bella cosa! (')
E per ultimo questo Rispetto popolare toscano:
E' chi vi goderà, palmina d'oro ?
E chi vi goderà palma d'argento?
E chi vi goderà, ricco tesoro ?
Chi sarà quello che avrà il cuor contento?
E chi vi goderà potrà ben dire
D'avere il paradiso, e non morire. (^)
Altre rassomiglianze offrono tuttavia questi altri
Canti toscani :
La mattina pel fresco é un bel cantare.
Quando le dame si senton d'amore,
E stanno 'n su quell'uscio a ragionare :
— Chi l'avirà di noi quel bel garzone ? —
E stanno in su quell'uscio a far consiglio :
— Chi l'avirà di noi quel fresco giglio? (")
E le vostre bellezze vanno in Francia,
Saigon le scale dell' Imperatore ;
Saigon le scale dell'Imperatrice,
Chi avrà del vostro amor sarà felice ;
Saigon le scale dell' Imperatore,
Felice chi averà del vostro amore ! ("')
Oh Dio, chi goderà tante bellezze? (^)
(1) Ediz. Zenatti, n. 83, p. 26.
(2) Tigri, n. 146. Cfr. Mazzatinti. n. 29 : Chi se la goclo-à sta giovinetta ecc.
(3) TlGEI, u. 29.
C) Id., n. 61.
(■') Id., 11. 220; Tommaseo, p. -372.
180 LA POESIA POPOLARE ITALL^NA.
E questo veneziano :
Sia beiiedeto chi t'à messo al moiulo,
E chi t'à fato nasser cussi bela!
Ma chi te adorerà, viseto tondo,
E chi te basarà la boca bela?; (')
che a Chioggia suona:
Benedir vogiu chi t'à messo al mondo,
Nassere chi t'à fato tanto bela,
E chi t'à fato quel viseto tondo:
Ma chi te godarà, vita mia bela?(^)
E nelle Marche:
Chi ve la toccherà 'ssa bianca mano,
Chi ve lo metterà l'anello d'oro ? (^)
E neir Istria :
E chi vi culgerà, rusa mia bela? (^)
Non mi posso 'pif/^io'^ pia uno spasso,
E non fo altro mai die sospirare:
36) 0 me meschino, o me misero lasso !
Vorrei jìoterti il mio dolor mostrare;
Deh, così come il cuor m'arde e saetta,
39) Volesse amor che si potesse fare!
Tante cose si possono voler fare coU'aiuto di
Amore, di Dio e del cielo, che riesce difficile indo-
vinare ciò che appunto si desiderava dopo questo
capoverso. Questo, ad esempio, in Toscana :
Volesse il ciel che si potesse fare
Tutto quello che viene in fantasia !
Le case si potesser tramutare.
Io volentier tramuterei la mia.
In un bel piano la vorrei portare
Dove risiede la speranza mia ;
(!) Dal Medico, p. 40.
(•■!) Garlato, p. 202.
(3) GlANANDEEA, p. 75.
:4) IVE, p. 84.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 181
Dove risiede ]a speranza e il core,
Prima morir che abbandonarti, amore. (')
E un Canto marcliigiano, che però non ha forma
alcuna dialettale, esprime press' a poco lo stesso
desiderio :
Volesse Dio che si potesse fare
La casa vostra vicino alla mia;
Uno alla porta e l'altro alla finestra,
Oh Dio che bello amore che sarìa ! (^)
Uno di Montefiascone contiene un augurio di ricon-
ciliazione :
0 Dio del cielo, se potessi fare
Di tornare a far pace co' sta bella!
Quando l' incontro non mi vuol parlare,
Subitamente abbassa gli occhi a terra. {^)
Nel Veneto invece si vorrebbe una cosa impossibile:
0 Dio del ciel, che se podesse fare
Un péto d'oro imbotona' de arzento,
Che se podesse verzere e serare
Per veder, bela, chi gk '1 cuor contento. (■*)
E più strano desiderio è quello significato in un
Canto di Spinoso :
0 Dio, 0 Dio ! e si putesse fare
Di li pasturi 'na bella muria !
Li picurello li dami a guardare
Ma li muglieri li guardami nui. (^)
Ho bene scritto in ima pìstoletta
Quant' io son tuo, e te l'avì-ei ìiiandata
42) Se tu sapessi leggere, o brunetta.
(1) TiGEi, 11. 869.
(2; GiANANDREA, p. .54. Il solo priuio verso in De King, C. pop. ìciìjì-
ìiesi, p. 21.
(3) Maesiliani, 11. 14.5.
(i) Dal Medico, p. 18, e C. del piop- (^> <^'hiog(jia, n. 27; Beknoxi. II, 2C.
(S) IMBRIANI, II, 68.
182 LA POESIA POPOLARE ITALU.NA.
Ma che bisogna lettera o aiìibasciata 9
Stìi vuoi saper come Amor m'ha governo,
45) Apri quella finestra, eh' è serrata.
E questo evidentemente dev'esser l'antico lìispetto
del codice perugino, che pili oltre sarà da noi riferito,
e clie nel codice ha il numero 81:
Apri la tua finestra eh' è serrata
Fatti di fuori, o pellegriu falcone ;
Non è ora eh' a letto sia andata,
Deh, fatti alla finestra, o car signore,
E udirai la nostra serenata,
La quale è fatta sol per lo tuo amore,
E udirai cantar nostri Rispetti,
Che so, fanciulla, che te ne diletti.
Né molto diverso è il principio del Canto seguente
marchigiano :
Tfacciate alla finestra rinserrata,
'Ffacciate fuori, specchio de valore :
Tu ne stai nella stanza rinserrata,
lo sto de fuori collo raffreddore :
Tu te ne stai su quel letto de penne.
Io sto de fuori a contempla' le stelle;
Tu te ne stai su quel letto de piume.
Io sto de fuori a contempla' lo lume. (^)
E il verso, presso a poco, trovasi anche in questo
Canto napoletano :
Susate, Nenna mmia, de 'sto suonno,
Troppo 'nce si' stata a lo repuoso ;
Apri la finestra eh' haie richiusa,
'Assa asci l'addore re rosa. (")
Io tremo a mezza state e sudo il remo;
E parmi poter dir j)er setnpre mai ;
48) Fortuna, tn ni' hai messo nel cpiaderno.
(1) GlANANDKEA, p.lg. 129.
(2) Imbkiani, Canti popol. prov. mei-idion. , I, 137. Un Canto di Mon-
tella (Capojje, n. 10) comincia: Ain-iti sse fenestre cu so chiuse ecc. Molti
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 183
E qui ecco una prova della uotorietà che ebbero a
tempo loro gli Strambotti di Serafino Aquilano, uno
dei quali appunto comincia così:
Fortuna, tu m' liai posto in quel quinterno (')
Ove tu scrivi gli altri sventurati,
Li qual non han mai bene in sempiterno,
Perchè di libertà lor soa privati,
Sì come scrisse Dante nell' Inferno :
Lassate ogni speranza, voi ch'entrati ;
Lassate ogni speranza con gran pene.
Che in sempiterno non arete bene. (^)
E se 'l vedermi non ti pare assai.
Mentre ch'io canto la mia 2)(iss'ione,
Deh, fatti alla finestra, e iidirai.
E anche qui viene a mente il Rispetto che nel
codice perugino ha il numero 15, e pili oltre riferi-
remo intero :
Affacciati, signora, e udii ai
Costui che par che tanto pianga forte ecc.;
che ricorda la mossa di un Canto siciliano:
Affaccia alla finestra, ascuta e senti,
Ca sti canzuni li cantu pri tia. (^)
E se non hai di me compassione
Di vedermi in tal modo consumare,
Tu se' pia cruda che non fu Sansone.
Verso che forse è errato nel nome : nel qual caso
gli corrisponderebbe un Rispetto de' perugini :
Canti, comuni a diverse regioni, cominciano : Finestra che di notte stai
serrata: v. Garlato, p. 226; Maesiliani, n. 28 ecc.
(') Sulla forma : metter nel quaderno o quinterno o libro ecc. : vedi
RuBlEHi. pag. 21-t, n. 5. In un cod. pesarese: Scripto m'ha la fortuna al
suo quaderno (A. Saviozzi, liime ined. del sec, XV, Bologna, Fava e Ga-
ragnani, 1893, p. 17).
(2) Opera dell'elegantissimo Seeaphino etc. Vinetia, Bascarini, 1548,
e. 177.
(3) Vigo, n. 1240.
184 LA POESIA POPOLARE ITALLA.NA.
Tu se' più cruda che non fu Nerone,
E se' più cruda che non fu Mezeiizio.
Il del, l'aria, la terra, il fuoco, e il mare
Piangeri vieco a cald'occlii, e conte vedi,
57) La luna s'è venuta a lamentare.
Principio di una delle ])iù artificiose Canzoni to-
scane :
La luna s' è venuta a lamentare
In de la faccia del divino Amore;
Dice, che in cielo non ci vuol più stare,
Che tolto glie l'avete lo splendore;
E si lamenta, e si lamenta forte:
L'ha conto le sue stelle, e non son tutte;
E glie ne manca due, e voi l'avete;
Son que' du' occhi, che in fronte tenete. (^)
(1) Tigri, ii. 79. Cfr. ii. 163:
Io l'ho sentita a lamentar la luna,
Ha ditto ciie le manca le sue stelle...
Son 'sti begli occhi che portate in fronte eco.
E nel GiANASiiEEA, pag. 71 (ofr. Marcoaldi, Guida eli Fabriano, III, n. 07);
Guarda nel cielo ce manca du" stelle.
Quelle che manca le portate voi,
E le portate li ss'oechi galanti,
Senza du' stelle '1 sole non va avanti ecc.
E anche nel Marcoaldi. C. popol. piceni, n. 6 (cfr. anche 78):
Bella, lo sole te farà citare:
Dice gli avete tolto lo splendore;
Anche la luna ce vuo' ragionare,
Gli avete tolto du' stelle d'amore.
E in Marcoaldi, C. popol. nnibri, n. 84 (cfr. Mazzatinti, n. CU e C'aliaki,
p. 38):
La luna sta su 'n cielo e s'allamcnta,
E dice che glie mancano le stelle:
Le stelle che glie mancano so' due.
So' li bell'occhi che portate voi ecc.
Anche in Sicilia (Vigo, n. 458):
E di lu celu scisiru du' stiddi,
E sunu chissi ca 'nfrunti purtati.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 185
// cuor mi carerò, se tu me 'l chiedi,
AiiDiiazzerènii, s'io ti contentassi;
60) Che viioi ch'io faccia se non ine lo credi?
Arebbon piii pietà le fiere e' sassi;
Tanto ch'io sto pei' gridar coni'un pazzo:
63) Vorrei che tutto 'l mondo rovinassi.
E anche questo verso doveva esser comincia-
mento di Canzone popolare: se non che mi è dato
soltanto di rammentare questo Canto ligure, che ne
ritrae un poco:
Vurreiva che 'r imintagne peifundassa,
E i Muufenin fuss' a la bella siimna:
Ch' u perfundasse mezzu 'r Ca.stellazzu,
Ra casa del mi' amur ra beila piimma. (')
Tal twJta cerco di pigliar sollazzo,
E dico meco per nn vie di dire:
66) T son disposto di fare un palazzo ;
E probabilmente il principio di questo Canto toscano:
In alto in alto vo' fare nn palazzo,
In alto in alto, sulla bella altura.
A ogni finestra vo' tendere nn laccio,
A tradimento per tradir la luna:
A tradimento per tradir le stelle.
Perchè restai tradito dalle belle;
A tradimento per tradire il sole,
Perchè restai tradito dall'amore. (^)
Cfr. pure Lizio-Beuno, C. i^opol. Isol. EuL, p. 208-9. E a Venezia (Bernoni,
punt. 6, n. 5; cfr. Dal Medico, p. 30):
Gennaro con Febraro se lamenta
Che a quei do mesi gà manca do stele:
La mia morosa gà do oeeti in testa,
Clie le mi par clie le sia proprio quele.
Cfr. IvE, p. 43, e Villanis, XXV Sti:, n. 25.
(1) Marcoaldi, C. popol. liguri, n. 42. Cfr. un C. popol. lucchese re-
cato dal Giannini, p. 65: La sti-ada di Tereyìio npi-of ondasse, Un bastimento
d'acqua ci venisse, Tutte le male lingue l'affondasse.
(-) Tigri, n. 1128. Cfr. Vigo, n. 514: Vurria fari 'n palaszu supra nn
munti ecc.
186 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
Se piuttosto l'antico Canto non è questo, vivente
ancora nell'Umbria:
Me so' disposto ile fare 'n palazzo
E fabbricato de 'na grande altura;
Atomo atorno ce vojo mette 'n laccio
Per tradimento ce chiappo la luna:
E ce chiappo la luna e po' lo sole.
Da già ch'io so' tradito da l'amore;
E ce chiappo la luna co' le stelle,
Da già che so' tradito da le belle; (')
che nelle Marche conserva solo il primo verso, e
prosegue in altro modo:
Me so' disposto de fare 'n palazzo,
Le mura d'oro e le porte di sasso :
Me se' disposto de fare un castello;
Le mura d'oro e le porte di ferro; (^)
0 anche:
Io son disposto a fare un convento,
Le porte d'oro e le mura d'argento:
Io son disposto a far un palazzo,
Le porte d'oro e le mura di sasso. (')
E viver lieto; e poi ritorno a dire:
Io va' la morte; e così tuttavia,
69) Vorre' morire, e non vorre' morire.
Anche qui ò il caso di un canto de' più noti e
diffusi. (*) In Toscana si dice:
Vorrei morir di morte piccinina.
Morta la sera e viva la mattina.
Vorrei morire e non vorrei morire,
(1) Mazzatinti, n. 340.
{-) GiANANDEEA, pag. 188. Cfr. p. 213. E vetli anclie Rondini, p. IC.
(3) Rondini, p. C7.
(■») Anche G. B. Verini, poeta rimasto popolare, comincia una sna
ottava della Crudeltà d'amore dicendo:
Bramo la morte e non vorrei morire.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 187
Vorrei veder chi mi iiiauge e chi ride; (^)
Vorrei morire e non vorrei la morte,
Vorrei veder chi mi piange piti forte;
Vorrei morire e star sulle finestre,
Vorrei veder chi mi cuce la vesto;
Vorrei morire e stare sulla scala.
Vorrei veder chi mi porta la bara;
Vorrei morire, e vorre' alzar la voce,
Vorrei veder chi mi porta la croce. (-)
E scambiati di luogo qua e là i versi, cosi presso a
poco dicono gli Umbri, {^) quei della Valle padana, (*)
i Trentini, f) i Meridionali, C') i Liguri, (') i Veneti, (^)
i Marchigiani, ('■*) i Romagnoli, (^") gli Istriani e i Dal-
mati. C^) E un consimil concetto esprimono alcune
Villette friulane:
Uèi muri d'une muart hielle.
Par torna a risussità:
Uèi fa scrivi in somp de casse
Ch' 'o soi muart innamora, ('^)
Volintìr mi viodaressis
Sulla brèe distiràt :
E pò dopo In diressis
Che soi muart innamorat. C'^)
(1) Questo desiderio di parer morti per vedere chi ne piange e chi n'è
lieto, trovasi anche in un distico popolare greco: Maecellxjs, Chants popul.
de la Gflce moderne, Paris. Lévy, 1860, pag. 261.
(2) Tigri, n. 507; cfr. Giannini. Cpop. tose, p. 172, 321.
(3) Makcoaldi, n. 49; Mazzatinti, )i. 217.
(*) Ferearo, C. popol. race, a Pontelagoscnro: n. 19 delle Homanele.
(5) Zenatti, C. 2}opol. trentini del sec. XVI, Trento, Zippel, 1891, p. 6.
(8) Imbriani, C. popol. prov. merid., I, p. 271 ; Finamore, II, n. 479-80;
Se verini, p. 16.5.
C) Marcoaldi, n. 8.
(8) Bernoni, punt. VI, n. 37; punt. VII, n. 13; Garlato, p. 342; Ca-
i.lARi, p. 68-69.
^o) GiANANDBEA, pag. 176. Nella Lezione di Porto S. Giorgio, raccolta
dal GiANANDREA, 11 canto comincia appunto: Vorria morire e non vorria
morire,
(10) Pergoli. n. 396.
(") IVE, p. 125; ViLLANlS, XXr Stramb. sarai., n. 20.
(12) Arboit, Villotte friulane, n. 104.
(13) ID., n. 152.
188 LA POESIA POPOLARE ITALLIXA.
Uèi muri t'una manieia
De torna a ri^iissità;
Par torna inceniò una volta
Cui lìo ben a fevellà. (')
Talvolta fìipr/o oìid'io so che tti sia,
Ma tosto tosto par che 'l cìior si penta,
82) E veiigoti a vedere, anima mia.
E il primo verso di uno dei Bispetti a Tishe, qui
addietro riprodotto, insieme colla lezione odierna:
Vengoti a rivedere, anima mia;
del quale l'esistenza ci è confermata dalla Landa:
V^engoti a visitare, anima mia, ^
E vengoti a picchiar l'uscio del cuore.
che gli aveva usurpato la musica. (')
E quella cosa, che sì mi tormenta
Cerco mostrarti, e dico: 0 volto umano,
75) Eccomi qui venuto, or ti contenta.
Se poi tu non mi accetti, tanto strano
Mi ^xn", ch'io manco: e pare il fatto mio
78) Quando la rocca ha perso il castellano.
Ricorda, ma veramente un po' dalla lontann.
quel Rispetto toscano che dice:
E' mi son messo a fabbrica' un castello,
Credevo d'esser vero castellano:
Quando l'ho fabbricato e fatto bello.
M'hanno levato le chiavi di mano.
Ed io, meschino, che l'ho fabbricato
Con pianti e con sospiri l'ho lasciato;
Ed io, meschino, che lo fabbricai,
Con pianti e con sospiri lo lasciai. (^)
(1) ID., n. 491.
(-) Laude spiriluali, ediz. G.illettì, Firenze, Goccili, 1864, p. 37.
(3) Lezione nis. presso di me. Gir. Tioiu, n. 1166; Tommaseo, p. 320;
Giannini, p. 125; A. Giannini, C. p. pisani, n. 68; FiLirriNi, n. 19; Men-
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 189
Per la tua guerra alla morte m'invio;
Se tu vuoi dunche mantenermi in vita,
81) Facciam la pace, caro l'amor mio.
Con lieve differenza è il Rispetto che dice:
Facciam la pace, caro bene mio,
Che questa guerra non può piìi durare:
Se non la vói far tu, la farò io:
Fra me e te non ci è guerra mortale;
Fanno la pace principi e signori,
Così la posson far due amatori: (^)
Fanno la pace principi e soldati,
Così la posson far due innamorati:
Fanno la pace principi e tenenti.
Tanto la posson far du' cor contenti. (-)
Saresliti in mai persa o snnirrita?
Non vai pia fuori, ed io sempre t'aspetto:
84) Gentil fanciulla, se' fatta romita?
Non molto diversamente il Canto toscano:
E la mi' dama s'è fatta romita.
Da nessun lato la vedo affacciare:
Una vecchiaccia me l'ha convertita:
Ah se la trovo, la vo' scorticare!
La voglio scorticare per le spalle
Per far la mangiato' alle mi' cavalle. ('')
GHiNi, 11. 246; Metalli, Usi e costumi dalla camp, romana, Roma, tip. popol..
1903, p. 127. Vedi inoltre Vigo, n. 1972, .3120; Avolio, n. 365; Imbriani, Canti
popol. calahr., il. 10.
(1) Cfr. Salomone-Marino, ii. 447; De Xino, png. 27; Makcoaldi, Canti
popol. liguri, n. 66.
(2) Tigri, ii. 810.
(3) Tommaseo, p. 22. Cfr. Tigri, n. 1130:
Voglio andare a rimettermi eremita.
Andrò pellegrinando a far viaggi,
Per non tradir me stesso e la mia vita.
Cfr. Imbriani, Canti popol. di Marigliano, n. 37: Bella figliola, fatte remi-
tella ecc.
190 LA POESIA POPOLAEE ITALIANA.
E COSÌ pure questo siciliano:
Alleila santa, si' fatta niniita!
'Ntra ssa finestra non ci affacci mai;
Si tu ci affacci, mi duni la vita,
Si su' nialatu, sanali mi fai. (')
Ma s'io avessi a comporre un Eispelto,
Alla tua ìììadre io Io vorrei cantare:
87) Venir ti possa il diavolo allo letto.
È la Canzone che canta Callimaco nella Man-
dragora, (') quando fa da garzonaccio sciocco:
Venir ti possa il diavolo allo letto
Da poi che non ci posso venir io; (^)
vivente ancora nelle Marche:
Che possa veni' '1 diavolo al tuo letto,
Giacché venire non ce posso io:
Te possa rompe' l'ossa dello petto,
Tutte le membra che t'ha fatto Iddio. (^)
E nell'Istria:
Puossa vignei lu diavolo a In lietu,
Cusseì che ti nu' vuoi ch'i' vegnu meìo;
Te puossa ronpi li coste del pito,
Doùte li menhra che t'uo fato Ideio. (°)
(1) Vigo, ii. G67: e cfr. 1632, 2ST8, e 218 n.; Imbeiani, I, 79-81, lti3;
Maecoaldi. C. popol. piceni, 39; Dal Medico, 87.
(2) Atto IV, se. 9.
(3) È r ultimo dei Bispetti del sec. XV tlell'ALViSi (ofr. Bililiot. Leti,
popol., I, 86), in corrotta lezione:
Venir ti possa il diavolo allo letto
Da poi ch'io non vi posso venir io
E ronipidi due costole del petto
E raltro membra che t'iia latto Iddio;
E tiriti per monti e per valli
E spicati ci capo dalle spalle.
(■1) GlANANDEEA, pa.ff. 220.
(6) IvE, p. 2 L'i.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 191
Terrèla chiusa, e favela stentare;
E s'ella si guastasse del mio amore,
90) Vorrei come Giansonne poter fare.
È pur peccato a non lasciar ir fuore
Sì bella cosa, o ingrata vecchierella ;
93) Non redi tu, ch'io uiìioio di dolor ei
Qui torna a mente il Rispetto marchigiano che
comincia:
0 veccliiarella, eh' hai 'sta hella fìja,
Te la domanno, si me la vuoi dare. (')
La ti tien chiusa, e andava a spasso ella
In giovinezza: ond'io pur ìììÌ confondo,
96) Dappoi ch'io non ti posso avere, o Iella.
Se tu mi domandassi, io ti rispondo:
Quand'un brama una cosa, e puolla avere,
99) Non eie il piìi bell'amore in questo mondo.
Ma quando io mi credetti poter bere
Di te, un. altro si cavò la sete;
102) Oh me mesc.hin, che giova di vedere!
Per le immagini dell'acqua e della .sete, ben si
adatta a questo capoverso il Rispetto toscano, che
ha anche quasi lo stesso cominciamento:
Cosa mi giova, misera, vedere
L'acqua chiara in una bella fonte.
Vederla chiara e non poterla bere,
Non si potere accostare alla fonte?
Non si potere accostare alle ciglia:
Io ho l'amante e l'altra me lo piglia;
Non si potere accostare alla prode;
Io ho l'amante e l'altra se lo gode. (-)
Ma sotto diverse forme, il lamento contenuto nei
versi 100-101 è comunissimo nella poesia popolare.
In Sicilia:
(1) GlANANDEEA, \\ 76. Cfr. TlGRI, 11. 946.
(3) Tigri, n. 732.
192 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
Jeu riie 'ddivatu tanta 'na lattuca,
Autru s'ha fatta 'na becUla 'nzalata. (')
Ovvero;
Cavirnavi 'na rrosa damascena,
Ch'era 'nvidia di tatti li iardina,
Frisca, verniigghia, e sbattanata appena,
Abbarsaniava l'aria vicina;
A la strasatta un corva ci si avvena,
La pizzulia, la spanipina e stramina;
Quanta perdisti, o rrosa damascena,
Quanta mi costa, o Dia, la tò mina. (-)
Ed anche:
Era picciottu, e curtivai un guardinu;
Nun mi scantava di Sali e risenu:
Tantu hi curtivai sira e matinu,
Nzina cli'addiventau jardinu veru.
Autri ci trasi e nesci ri cuntinu,
Si va cuggliiennu la frutta sirena;
Er io cutngna cuogghiu, la miscliinu,
Catiigna, ghilnsia, tassi e bilenu! (^)
Questi due sono del Leccese:
Me misi a nutricare na cirasa
Cu li miei stenti e cu la mia fatia:
Bella è la cima, ccliiìi bella la spasa,
Ca cchiù megghin la ccogghiere facia.
Dia mia! ci la tinissi nnanti casa.
Ni dia l'acqua quanda la vulia:
Nde passa n'autr'amanti o nde la rasa;
Attroa li stenti e la fatia mia!
N'arviretto chiantai a la mia giardina,
N'arviretta cliiamatu Trimamore;
E cu li miei sudori l'addacqqaai,
'N capa de Tanna me caccia nu fiore:
(1) Vigo. d. 107:3.
y^) Vigo, n. 2998.
(3) Avoi.io, n. 390. Vedine .altri es. in Lizio-Bruxo, Canti ocelli (hi po-
X)olo sicil., pagg. 124, 128.
LA POESIA POPOLARE ITALL^^NA. 193
Lu fiore mia nisciunu hi dduiaii,
Sulu me 111 gudia lu magna 'ddoie;
Ma quandu scii la fiore pe pigghiave,
N'autr'amante de intra, e jeu de fere.
Quest'altro, pur leccese, adopra quantità d'immagini
a voler esprimer la sua sventura, e quella fra le altre
della vigna e del vino, che è anche nella Serenata:
Subbr'a sta monte forma' nu sciardinu,
Prima prima chiantai menta rumana,
E poi nei me chiantai hi petrusinu;
E n'autra le minescie se ccunzau.
Chiantai le igne, e nu pruai hi rimi,
Ca n'dutni quanti/, inne, e hindonan.
Pigghia' do petre e formai nu mulina;
E n'autra quanto inne, e ntramosciau.
Jeu fici le strade a sta sciardina,
N'autru qaantu se nd'inne, o spassigliiaa.
Carisciai petre, e fici nu palazzu,
E n'autru qaantu inne, e nei abitau.
Fazzu le barcunate a stu easinu,
E n'autru qaantu inne, e se 'nfacciau.
Pigghiai le taule, e fici mi littinu,
E n'autru quantu inne, e riposau.
Sta donna l'aggi' amata jeu hi prima,
E n'autru quanta inne, e la sposau.
'Mposta se dice: La manda è mischina,
Lassa gudere a ci nu faticau! (')
Immagini che piacquero anche ai letterati imitatori
del popolo. Ad esempio il Poliziano:
0) De-Simone, Canti popol. leccesi, ne]VEco dei dite mari, giornale lec-
cese, 1S67, n. 17. Cfr. con altre lezioni in Imbkiani, Canti popoì. prov. me-
>id., \, 289 ; n, 91 e sgg. : in Molinaki, C. xiop. di Meta, n. 8, e C. napolef.,
pag. 135; in Finamore, Vocabol. aVruzz., n. 135; Scherillo, n. 38; e col
Canto sopra arrecato del Castello e del castellano. In una barzelletta na-
poletana del 400 pubbl. da E. Pekcopo (Napoli, 1893, nozze Sogliano-Mari,
pag. 25): Io zappai questo giardino Sempre intorno con ardore, Solo, solo
e peregrino Comportai pena e dolore. Altro venne per di fare. Dentro l'orto
io lo trovai, E s'io grido, pensarai, Ch'i la gran doglia ch'io sento.
D'Ancona, La poesia pop. Hai. — 13
194 LA POESIA POPOLARE ITALIAJfA.
r seminai lo campo, ed altri il miete:
Aggiorni speso la fatica in vano;
Altri lia gli uccelli, ed io tesi la rete,
Solo la piuma m'è rimasto in mano;
Altri è nell'acqua, ed io moro di sete.
Altri è salito, e io disceso al piano.
Pianger dovrian per me tutte le priete.
Ch'io seminai lo campo, ed altri il miete. {^)
E Serafino:
Il bon campo che arai con sudor tanto
Un altro a pieno l'ha ricolto in erba.
La vite ch'io posi all'arbor santo,
Un altro ha vendemmiato l'uva acerba.
Il frutto ch'io ricoglio è doglia e pianto
Che lo ingrato terreno al cultor serba.
Così passando la mia vita rode.
Che un altro indegno li miei stenti gode. (")
E Panfilo Sasso:
De l'arbor che con mia mano piantai
Altri n'ha il frutto, ed io solo le foglie:
Del bel giardino che già car comperai
Scacciato sono, ed altri il fior ne coglie;
Del ben che con fatica mi acquistai
Altro ne adempie tutte le sue voglie.
Guarda se Amor mi fa del male assai
Vj se il cielo è disposto a le mie doglie! (^)
L'altra è del parrocchiano; orsa, vedrete
Coni' e' sarà governo una DHittlna!
105) r son disposto d'ainiii<(~:are un prete.
Questo Cnnto non si ode pili, ch'io sappia, in
(1) Ediz. cit., pag. 26G, e ivi una variante. Vedi anclie il Rispetto: Eì
bel giardin Qhe tanto coltiiai.
(-) Ediz. cit., p.ng. 1-55. Si trov.n, come audio altii. tra i Hìspeiti del Poli-
ziano: cdiz. cit.. pag. 267; ma ò pur attriln'.ito a Baccio L"goliiio 'Bartoli.
Mss. della BihUot. Xazioii., Il, 143; e come di lui lo trovo anche nelle rime del
Calmeta (ediz. di Cliivasso 1.529}. Egli è che no" codici e nelle stampe vi ò
un continuo scambio fra autore e autore, noncliè dei Canti popolari co' let-
terari, e viceversa.
(3) In Sibliot. leti, popoì., I, 296.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 195
Toscana : ma sì in altre provìncie italiane. In Pie-
monte :
Son risoluto ch'a vói masse 'n previ:
Se nun mi pentii, n'ha vói masse doi;
Se la giustizia la mi darà tortu,
Mi sarò viv, e '1 previ sarà mortu. (')
A Venezia:
Sangue de mi, che vói mazzar un prete.
Voi tór lissenzia da la Signoria!
E se la Signoria me darà torto,
Mi sarò vivo, e '1 prete sarà morto. (^)
La ragione del preticidio è forse quella accennata
nel Rispetto marchigiano :
So' disposto de fare una pazzia;
'Mmazzare un ahatello e andnnne via;
Si la giustizia me manna a chiamare
Je le so racconta le mie ragioni ;
Je lo dirò: Lustrissimo Signore,
'Mmazzai 'n abbate che f'acea l'amore :
Je lo dirò : Lustrissimo Prelato,
Ammazzai un abbatello innamorato ;
Si lu' voleva fa' lo prementino,
Cosa s'è messo a fa' lo collarino? (^)
Ed anche un'altra cosa mi rovina,
Star s) discosto e vederti di rado :
108) Noti ci è piii hello amar, die la vicina.
Abbiam già vista ricordata questa Canzone po-
polare dal Gelli e dal Ceccbi: essa è tuttora vivente
nelle provincie napoletane:
Oh quanto è bello l'ammore vicino!
Si nun la vide, la siente cantare.
('-) Maecoaldi, Canti popoì. piemont., n. 35
(2) Bernoni, piint. I, n. C9.
(3) GlANANDREA, pag. 200.
196 LA POESIA POPOLARE ITALLAJsA.
La sieute quannu chiamine la galliua:
— Cune, retella iiimia, curre a mangiare. (')
Anzi, sarebbe tuttora vivente in Toscana, se dobbiam
credere genuina la forma di questo Rispetto, intro-
dotto da Temistocle Gradi in un suo racconto :
Che bell'amor uhi ama la vicina,
E specialmente chi l'ha dirimpetto,
Che la vede la sera e la mattina
E la vede levare e andare a letto !
Chi ama la vicina ha gran valore,
La vede spesso, e l'ha contento il core;
Chi ama la vicina ha un gran vantaggio,
La vede spesso e fa corto il viaggio. (-)
Ma senza dubbio così si canta a Roma :
Bbella cosa è l'amare la vicina,
Massimamente quann'è ppoco hbela;
Mirela quanno s'arza la matina,
Subbito è ppronta in quella fenestrella.
Je fo dde bbasciamani e Ilei s'inchina,
Je dico: Arri verità, faccia bbella:
Amare la vicina è 'u'avantaggio,
Se vede spesso e s'arisparmia er viaggio. (^)
A qìiesli d) dalia (ita casa bado,
E diasi, e fei le viste, e feci il tristo,
111) In questa via ci sa dì moscado.
A un che m'appostava, e ni'avea visto;
E il Canto toscano che dice:
In questa ruga ci sa di moscato,
Par che ci abbino fatto spezieria :
Un albero di pepe ci han tagliato,
Per fare lo specchino all'alma mia;
Che tu ci specchi dentro quel bel viso,
(1) Imbriani, Canti popol. di Marigliano, n. 32. Cfr. Canti prov. me-
ridion., I, 88; Finamore, H, il. 4G1 ; Corazzimi, p. 177; Caliaki, p. 261.
(2) Racconti, Firenze, Barbera, 1864, p. 412.
(3) Menghini, 11. 24G. Cfr. Pergoli, ii. 269.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 197
0 fior d'arancio colto in Paradiso ;
Che tu ci specclii dentro quel bel volto,
0 fior d'arancio in Paradiso colto. (')
In Abruzzo diventa :
Che bbell'udore de musche 'n giiestu viche !
Pare che ffusse 'na spezijarije !
'Mmmezz'nce sta nu pede de vijole ecc. ; (^)
e a Reggio di Calabria :
'Sta ruga havi 'nu gghiarvu di muscatu,
Pari ca nc'esti 'na spezzelaria,
Ca nc'esti 'nu garoffulu cliiantatu
Chi cu' li rami cambogghia la via ecc. (^)
E ricordanti di quella canzona:
114" Quando la donna vien di buon acquisto.
Ma il mio compagno intanto mi ragiona,
Che' si leva a buon'ora e dice tosto:
117) Andianne, andianne, che la grossa sìiona.
La grossa dev'essere ]a campana: e qui viene a
mente un Canto, che con piccole varianti, è diffuso
in ogni regione italiana. In Sicilia si dice:
All'armi, all'armi, la campana sona,
Li Turchi sunu junti a la marina:
Ca ha li scarpi rutti si li sola
Ca eu li sulavi sta matina. {*)
E nelle Marche:
A Roma, a Roma la campana sona,
Li Turchi so' arrivati alla marina:
Chi ha l'amante vecchio lo rinnova; (^)
(1) Tigri, n. 483. Cfr. n. 1.'36: La vostra casa odora di moscado. Cfr.
anche Imbriani. Canti popol. pror. merid., II, 212, e Canti calabr., n. 27;
Vigo, n. 1891; Piteè, n. 246, 668; De Nino, Usi e cast. ttbruz.,\\\,222\ Men-
GHiNi, n. 227.
(2) FiNAMORE, VocahoL, p. 271.
(3) Mandalari, p. 109.
(*) Vigo, n. 5177. Cfr. Imbeiani. II, 73; Fixamore. 271 ; Bertoni, IV, 14;
VlLLANlS. Stramb. zarat., n. 9; Feekari, C. p. monferr., 145.
(5) Gianandrea, p. 211.
198 LA POESIA POPOLARE ITALIAXA.
ma meglio in Toscana:
All'erta, all'erta, che il tamburo suona,
I Turchi sono armati alla marina:
La povera Rosina è prigioniera. (')
Per me starei fino a qtiest'ultro agosto:
Danari e roba lascerei per tene
120) Stìi mi dicessi: che vnoi tn piit tosto?
Abbi compassione alle mie pene,
E non perdere tempo perchè vola:
123) Stato m'è detto che la Morte viene.
Canto dei più generalmente diffusi. In Toscana
varia un po' il primo verso :
M'è stato detto che ne vien la Morte,
Tutte le belle le vuol via mandare ;
Tu che se' bella, aspettati tal sorte:
Le tue bellezze a chi le vuoi lassare ?
Lassale a uno che ti voglia bene,
Lassale a me che non ti vo' un gran male.
Lassale a me in d'una foglia d'ulivo,
Che io le manterrò fino a che vivo ;
Lassale a me in d'una foglia d'arancio,
Che te le manterrò fino a che campo. (^)
Meglio in Sicilia :
Haju saputu ca la Morti veni.
Tutti li beddi si veni a pigghiari ;
Tu ca si bedda mentiti in pinseri :
Ssi to' biddizzi a cui li vo' lassari ?
Non li lassari all'omu sfardidderi.
(1) Tigri, p. .3.39. I primi due versi, comuni nlle vario lezioni sono
certamente antidii, senza però che ci sia bisogno di ravvisare nella cam-
pana, quella "fusa da re Manfredi,, come vuol l'Imbriani. È curioso poi
che il vecchio canto si rinnovasse ai tempi della guerra d'Abissinia nella
Canzonetta // soldato: itnìiaito pru/ioniero in Affrica: Attenti, attenti, che'
la tromba suona, 1 Mori sono armati alla marina: Coraggio, hattaglion, gio-
ventù buona Contro il nemico ner ilell'Ahissinia ecc.
{-) Tigri, n. 992. Ma il Tommaseo, pag. 96, reca il principio secondo
una lezione pistojese, che dice: M'è stato detto che la Morte viene. Cfr.
MoLiNARo, C. i>op. nap., p. 117, C. pop. di Meta, li. 2; Amalfi, n. 119; Se-
verini, 11. 220; Mazzatinti, n. 297.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 199
Cu si li cancia ppi ovu e dinari;
Lassili a mia ca sugna l'arginteri,
C'a ti l'incarta "ntra li carti rari. ('■)
E a Venezia:
I va digando che la Morte viene
E che la porta via tatte le bele.
Mi, che so bela, cessa mai farogio ?
Le mie heleze a chi ghe le darogio?
Le mie beleze a nissan le vói dare,
Perchè soto tera me le vogio portare ;
Ma soto tera no se porta beleze,
Se porta dei rosari e de le messe. C^)
E qiiand' io posso dirti tina 2:>arola,
Non ii fuggir, perchè non t'è onore,
126) 0 trionfante donna al mondo sola.
Anche questo è un Rispetto polizianesco :
0 trionfante donna al mondo sola.
La tua bellezza poi, che ne farai?
Vedi che '1 dolze tempo se ne vola
E, per pentirsi, non ritorna mai ;
Morte cradele ogni piacere imbola,
Ogni diletto al fin poi torna in gaai ;
Pentiti, adunche, e non voler al tatto
Perder di giovaneza el fiore e '1 fratto. (^)
Non aspettar eh' i' ninoja per tuo anwre,
Che vi son presso per la tua dureza :
129) Non vedi tu il pallido colore?
E potrebbe esser l'antico Strambotto, fra gli
attribuiti al Pulci :
Risguarda nel mio pallido colore,
L'ossa e li nervi afflitti in tanti guai,
Qual manifestan l' infinito amore.
Che porto oltramisura sempre mai !
{!) Vigo, n. 88. Cfr. Imbeiaxi, C. popol. pi-ov. mericì., Il, 365.
(-) Beenoni, punt. II, n. 2. Cfr. Dal Medico, pag. 48: Me xe sta dito
che la Morte viene ecc.: Gaelato, p. 251. Lezione istriana in IvE, p. 197.
\?) Ed. cit., p. 191.
200 LA POESIA POPOLARE ITALIAXA.
Li guai due dardi sono al miser core,
Due orsi, due lion, due crudel draghi;
Risguarda nel mio volto impallidito,
Qual manifesta il cor da voi ferito. (^)
Aiìia7' chi t'alita è senno e gentilezza :
E dir 2)regando pai-e anco che vaglia,
132) 0 signor mio, mandategli fortezza.
Il tuo parlar vezzoso fende e taglia,
E oltre a' modi tìioi leggiadri e snelli,
135) Tu hai dn' occhi d'andare in battaglia.
In Toscana si canta :
L' 'ete un par d'occhi per entra' in battaglia;
Altr'arme non v'occorre per ferire:
Se uno dà di colpo, l'altro taglia;
Questi son colpi da farmi morire :
Questi son colpi che li manda Amore;
Passano i panni e il petto, e vanno al core. (-)
E nelle Marche:
Porti du' occhi che pò' andà' in battaja,
Benché 'u portassi l'arme da ferire :
Uno tira di colpo, l'altro taja,
Bella, sì nata per famme morire :
Uno tira de colpo e taja forte ;
Bella, sì nata per damme la morte. (^)
I' vo' cantar tuoi jìortamenti belli,
Non passerà però tutto domane;
138) E vonimi cominciare alli capelli.
Ricorda il Rispetto toscano :
Vostre bellezze si fanno ai capelli,
E se ne vanno alla pulita fronte ;
'Ete un par d'occhi che paion due stelle,
Paiono il sol quando apparisce al monte ;
(1) Ediz. Zeiiatli, cit.. p. 2.3.
(•) Tigri, ii. 284. Cfr. Tommaseo, p. 70; A. Giannini. Canti p. pis., n. 10.
(3) GiANANDREA, p. 51. Cfr. ViGO, 11. 407; Imbriani, I, 228; De Kino,
C. p. sabin,, p. 21.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 201
Paiono il sol quando al monte apparisce:
Dove levate il pie, l'erba fiorisce. (')
Incomincia dai capelli l'enumerazione delle bellezze
dell'amata anche il rustico cantore siciliano :
Vegnu a cantari li bellizzi toi ;
La prima cosa li biunni capiddi :
L'occhi e le gigghia so' du' niuri groi,
Li dintuzzi su' perni minutiddi :
Lu petto è biancu e scriviri cci pòi ;
Porti dui puma russi a li inasciddi.
Bella, pòi stari cu li pari toi
Coniu la luna, lu suli e li stiddi. i"^)
E similmente il cantore marchigiano :
Te vojo principiare a benedire;
Sulli capelli vojo principiare:
Dalli capelli me ne vo alla fronte.
Pare 'na bianca neve 'n cima al monte;
E dalla fronte me ne vo alle cija :
Chi te l'ha profilate, o bella fija?
E dalle cija me ne vo alli occhi.
Pare garofoletti in terra colti ;
E dalli occhi me ne vo alle guance,
Vedi che bel giardin de melarance !
E dalle guance me ne vo allo naso,
E uno scannello d'oro profilato :
E dalle guance me ne vo alla bocca,
Pare 'na rosa spampanata doppia
E dalla bocca me ne vo alla gola,
Beato chi de voi se ne innamora !
E dalla gola me ne vo allo petto :
Stella diana e Paradiso aperto ! (^)
Streghe l'olire mi jiaiono e befane,
Poich'io ti vidi, o viso angelicato :
141) Vuoi ch'io ti conti tue bellezze limane?
(1) Tommaseo, p. 77. 11 Tigri, n. 117: si fan da' rapelli.
(2) PlTRÈ, I, n. 170.
(3) GiANANDKEA, p. 48. Cfr. Marcoaldi, C. p. ìimhri, 11. 91. E cfr. una
lezione molisana data dal Molinaro (Ai-ch. trad pop., XII, 396) dove non
v' è però il verso iniziale.
202 LA POESIA POPOLARE 1TALL\NA.
La tua bellezza è tal che m'ha cavato
Della memoria, e qtiand' io ri pensassi,
14i) Ben credo che tu m'abbi ammaliato.
Tìi muovi gli occhi con tal grazia e' passi
Che tu fai fiitli gli uu>nini prigioni:
147) Chi sar)n s) crtulel che non t'amassi ?
È il Rispetto XLV del Pulci :
Chi sare' sì ciudel che non amassi
Gentil iddea, e' tnoi biondi capegli ?
El vago viso con che il cor mi passi
E' lucenti occhi tua più ch'altri begli?
Faresti innamorar le pietre e' sassi
E per le selve innamorar gli nccegli.
Se inver di me tu fussi un po' pietosa
Al mondo non fu mai sì bella cosa; (')
che modernamente suona così a Venezia:
E chi sarìa quel can che no te amasse
Veder a bagolar quei bei oceti ?
Do' pomi sparpagnai per le ganasse :
E chi sarìa quel can che no te amasse? (-)
Io non ti posso dir le mie ragioni;
Ma s'io ti trovo fuor, cara mia dama,
150) rorroinniiti dinanzi inginocchioni.
E questo pure è del Pulci :
Porromiti dinanzi giuocchione
Come alla croce fé' la Maddalena:
Pregherotti con tanta devozione,
Che ti verrà pietà della mia pena;
Non sei però ne tigre né leone,
Ma se' gentile e d'ogni pietà piena ;
Dov'è beltà, ragion vuol che vi sia
Misericordia, amor e cortesia. [■')
(1) Ediz. Zenatti. p. 16. E cfr. col Rispetto ii. 5 del ood. perugino, e
col X dei Doilici Uispetti popol. ined. pubblicati da M. Men'GHINI, in l'ro-
pugnatore, N. S., Ili, 1. Nota che l'ultimo verso ò nella Xencia del Magnifico.
(-) Behnoni, X, ").
(s) Ediz. Zenatti, p. U>.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 203
Anche un Canto siciliano :
Ca ti starria davanti addinucciiiuni. (')
E niostverotti quel die 7 tnio cor hriiììia,
E farotti arrossir, couie suol fare
153) Quando la donna vede Vuovi che l'ama.
Chi sa, se forse io mi sapessi fare
Me' eh' io non ti so dir, quando alla festa
156) La sera per lo fresco è ìin bel cantare?
E tuttavia si canta fra noi :
La sera per lo fresco è un bel cantare,
Le fanciullette discorron d'amore:
Una con l'altra avviano a ragionare,
E dicono : L' hai visto il nostro amore ?
E dicon : Dov'è andato il nostro damo?
E non lo vedo, e nel cantar lo chiamo.
E dicon: Dov'è andato il nostro amore?
E non lo vedo, e 1' ho sempre nel core. C'^)
Ma io sto fuori a roiìipenni la testa,
E tu stai chiotta ;
E sta meno male del cantore siciliano :
Oli chi friddii, o chi nevi, o chi ghilata!
Friddii pi chistu 'un n'ajii 'ntisu mai.
R' unni mi vinni sta bella nuttata,
Ri vèniri a cantari ck unni stai?
Arrisbigghiti armenu, renna amata.
Runa hi suonnu a cu' nun dormi mai ;
Tu rormi nti ssu lettu arripusata,
Er iu cà fora, ca cuntu li vai. (^)
E chi forse ascoltassi,
159) Tutta la notte la madre tei)) pesta.
m Vigo, n. 925. I! Capit. XXV della Camilla di Olimpo da*ASSOFEiì-
KATO comincia :
A li tuoi piedi vengo inginoccliione.
(2) Tigri, n. 21.
(3) AvOLio, n. 285.
204 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
Potrebbe dirsi reminiscenza forse di quel della
Beca :
La Beca
Tutta la notte nel letto tenciona,
Ed io pur suono e casca giù la brina; (')
o anche di quel che dice l'amante della Nencia:
. . . . vo la notte intorno a' tuo' pagliai,
E sì mi caccio a cantare a ricisa:
Tu se' nel letto, e scoppi dalle risa;
se nella sua primitiva veste toscana non lo trovas-
simo in un Canto dialettale di Carpignano Salentino:
Tutta la notte la mamma tempesta
Pe' 'nducere 'sta figghia a bona via :
— Figghia, non ti 'nfacciare alla finestra,
Mo' passa lu tou amante })pe' sta via —
— Se me tagliassi le bracco e la testa,
De la finestra nu' mme leveria !
Quiddlui ci porta lu cappieddu 'n testa,
Quiddhu è patronu de la vita u.mia. (-)
10 vie ne vo cogli occhi molli e bassi ;
Tìi ti prostendi e russi a piìi potere ;
162) Tu donni, io veglio, e vo perdendo i passi.
E uno Strambotto di Serafino :
Tu dormi, io veglio e vo perdendo i passi,
E tormentando intorno alle tue mura;
Tu dormi, e '1 mio dolor risveglia i sassi,
E fo per gran pietà la luna oscura :
Tu dormi, ma non già questi ocelli lassi
Dove il sonno venir mai s'assecura ;
Perch'ogni cosa da mia mente fugge.
Se non l' immagin tua, che mi distrugge. (')
11 mio compagno s'f> posto a d lacere,
Ch'è stato tanto ritto, che gli nuoce:
(1) E ivi stesso : J)ido^:ar possa <iitella mala vecchia Che tutta notte
sta a rivilicare.
(-) Imbriani, I, 182.
(3) Ediz. cit., pag. 1.S2.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 205
165) Cara madonna, i' nono al ino piacere :
I\on posso più cantar, ch'io non ho boce.
Ed anche questo è vivente :
Non posso più cantar, cliè noti ho voce :
Stanotte son dormito a ciel sereno,
E son dormito all'ombra d'una noce
Dove non era né paglia né fieno; (')
e a Venezia varia così :
Non posso più cantar, che no go vose ;
Porte un bocal de vin co quatro nose;
Porte del vin e no porte de l'acqua;
Deme da bever, se volè ca canta. {'^)
Giunti a questo punto, mi si conceda ricordare
quello eh' io scriveva parecchi anni addietro, par-
lando della raccolta di Canti popolari toscani fatta
da Giuseppe Tigri. Io proponeva lìn d'allora il que-
sito della origine della Poesia Popolare: origine
quanto al luogo e quanto all'età, e in proposito di
quest'ultima, io conchiudevo : " Essa (la poesia po-
polare) deve rimontare ai tempi quando le nostre
plebi sentirono gli influssi del risorgimento, e nuova
vita, nuova energia, nuova cultura le veniva diroz-
zando : perchè chi vi ponga ben mente vi sente
circolare per entro la freschezza della gioventìi.
Solamente i popoli usciti dall'infanzia e lungi an-
cora dalla maturità, sentono e poeteggiano a questo
(!', TiGEl, n. 391 : cfr. n. 27. Ridotto a Stornello in Xerucci, n. 4, e
iu Giannini, p. 5.
(-) Bernoni, punt. Ili, n. 67; Cai.iari, p. 220, 25.5. E anche Dal Me-
dico, p. 40, 98 n. e 128: Xon posso pi ìi cantar che ho perso 'l canto. Xelle
Marche: Xon posso canta' più, che so' calato (Gianandhea, pag. 10;; nel
Monferrato: Xon possu pi canile, eh' ajo ra rantia (Feeearo, pag. 147 e
NiGHA, pag. 574). In Sicilia (Purè, n. 18,3): Cumii cantava 'mt pozzti cchiù
cantari A ch'aju persit la vuci ch'avia ecc.; e a Napoli: Cumin'aggiu da canta',
vocia min aggio ecc. (Molinaki, p. 177).
206 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
modo. Questa è veramente poesia di gioventìi. Vi si
sente tutta la ingenuità e la forza, la schiettezza
e l'energia, la purità e la passione di un amor
primitivo, di un affetto giovanile „. (^) E qualche
tempo appresso : " Certo noi non pretendiamo di as-
serire che i moderni Rispetti e Strambotti e Stornelli
siano in tutto ciò che erano nel Quattrocento ; ma,
salvo poche modificazioni portate necessariamente
daf volger de' tempi e dalla trasmissione orale, po-
trebbe asserirsi che, per la tenacità dei volghi nel
ritenere le antiche usanze, nel loro insieme e nel
più generale aspetto essi sieno i modelli, a' quali
attenevasi per le sue imitazioni la scuola medicea.
Invero il popolo nostro al dì d"oggi non canta, ma
ripete: non inventa, ma riproduce u)i tesoro di versi,
a cui per tradizione è affezionato ; ed anche credendo
di improvvisare, ei rimescola e riunisce immagini e
versi sparsi in varj componimenti. Questa poesia
popolare, di cui adesso si fan raccolte, e che è sem-
brata una rivelazione, non è che l'ultima eco della
gioventìi di una schiatta ; gioventìi, che si mostra
nella ingenua forza, nella energica schiettezza, nella
purità primitiva di quei Canti, che oggi il popol
nostro non saprebbe piìi comporre a quel modo; ma
che, ricevendoli esso e trasmettendoli di generazione
in generazione, va solo leggermente modificando.
Noi, radunandone i frammenti dalla viva voce delle
montanine, andiamo ritrovando le membra sparse
del passato ; porgendo orecchio al canto dell'agri-
coltore, raccogliamo un suono, che, ormai quasi
perduto nelle pianure e nelle valli dell'Arno, si va
prolungando nelle ardue cime dell'Appennino, quasi
(') Aiipeiidico del giornale La Inazione, 11 settembre 18G0.
LA POESIA POPOLARE ITALIAXA. 207
in ultimo riparo ai progressi dell' incalzante ci-
viltà „. C)
Quello che avevamo allora affermato per indu-
zione e congettura, adesso è provato da documenti.
Il Bronzino, componendo la sua Serenata di versi di
Canzoni popolari, faceva una bizzarria che avrebbe
mancato di ogni lepore, se non si fosse trattato di
cose notissime, le quali bastava accennare, perchè
subito se ne ridestasse la memoria, (-) Egli scriveva
(1) Ardi. cit. della Sivistrt Contempoi-anea del ]8(>2.
(2) Anche Pieteo Aretino nella Cortigiana (att. II. se. 12) pone in
bocca d'uno sciocco mio Strami/Ottino da Ini composto, e senza senso,
dove però è qualche verso di Strambotti, e uno vive anche al di d'oggi:
0 stelluzza d'amore o angel d'oro,
Faccia di legno e viso d'oriente.
Io sto più mal di voi la nave in porto
Lormo la notte a la tempesta e al vento.
Le tue bellezze vennero di Fi'ancia;
Come che Giuda che si strangolòe.
Per amor tuo mi fo cortigian io.
Non aspetto giammai cotal desio.
Raffronta il v. 5 col verso del Tigki, n. 61: E le vostre heìlezze vanno in
Francia. Anche A. F. Doni nelle Utatize dello Spar^Mglia alla Silvana (ediz.
Baccini, Firenze, 1886, p. 2-1 e 30) ha una strofa di capiversi di Canzoni:
Canto SI dolce che dir noi sapria :
Fortuna ch'iin gran tempo mi se' stata.
Ecco di qua l'amorosella mia,
Quest'i la primavera eh' è tornata,
Tu sei pagana, nata in 2)agania,
In nella grotta sta la sventurata,
Xenriozza mia, Xenciozta ballerina,
E so l'antar per lettra la Bosìna.
E forse anche un'altra ottava contiene richiami a Rispetti:
Kon odi tu quel che dice la Piva?
— Baciami un tratto e poi lasciami andare.
Baciami tosto, che mia madre arriva —
— La traditora non mi lascia arare.
La tra' di pie, la stringe la cattiva —
— 0 madre mia, io non faccio fornello,
Ma scuoter mi facevo il mio guarnello.
Ma un componimento abbastanza lungo, tutto quanto intessuto di
principj di Canzoni del tempo, è quello che s'intitola Opera nuova nella
quale si ritiova essere tutti li principii delle Canzoni antiche e moderne.
208 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
nel Cinquecento : ma perchè quei canti fossero dav-
vero noti, dovevano ormai esser già vecchi : ed egli
ne riferisce anche del Poliziano, di Serafino e di ri-
cordati già nel Quattrocento. Ma anche pei quattro-
centisti dovea trattarsi di forme già universalmente
conosciute: non avrebbero tentato l'imitazione della
poesia popolare, se questa già non era, se già non
avesse recato i suoi frutti, e di questi non fosse
stata universal contezza; non avrebbero creato un
nuovo genere letterario, se non esisteva il modello
che volevano riprodurre. Così si risale più addietro,
almeno rispetto ai primi germi : e non sarebbe te-
merità, dopo quello che abbiamo visto, se la forma
popolare della poesia dicessimo contemporanea nel
suo nascimento alla forma letteraria. C)
poste in ottava rima: cosa piacevole et ridiculosn ecc. S. a. il. ma della seconda
metà del sec. XVI. È stato scoperto nella Universitaria di Bologna, e dot-
tamente ripubblicato, largamente illustrandolo, col titolo Un Centone da
S. Ferkari (nel Propugnai., N. S., XIII. p. 432).
Dei Canti da noi menzionati vi si trovano i seguenti :
Io mi levai d'un bel mattin d'amore,
Averzi Mareolina scarpe pontie
Bel pegoraro quando andarastu al monte.
Mia madre marideme
Dimmi, quella scarpetta chi t'ha fatto.
La bella Franeeschina
La scarpa da Bologna mi fa male
Cavai Baiardo.
(1) Una testimonianza assai notevole dell'anticliità di queste poesie
potrebbe trarsi dagli epiteti, aggiunti, ipocorisini ecc. Il Xannucci nella
1» ediz. del Manuale, Firenze, Magheri, 1838, voi. II, pag. xl, raccolse gli
" ipocrismi dati dagli antichi poeti, alle loro donne „, e notò quelli, fra
gli altri, di chiarita spera, aulente cera, aulente lena, rosa dell'orto, rosa
di Maggio, fiore odoroso, stella d'albore, stella diana, sitila d'oriente, fior
d'amore ecc. Nel poema del Febns e Breus trovo : Fontana di bellezza,
chiara stella, rosa di maggio fiorila, rosa angelicaia, rosa vermiglia, dama
calorosa, rosa colorita ecc. Nelle ballate del Pecorone: Lucente stella, fior
del giardino, rosa risplendente, viso rilucente, fior di natura, cuor valoroso
ecc. Nella Teseide: Mattutina stella, fresca rosa del mese di Maggio, rosa
di spina, viso delicato, giglio novel di primavera, viso amoroso ecc. Nel Nin-
fale: Viso adorno, fontana di bellezze, fresca rosa ecc. Nel Filostrato: Stella
mattutina, rosa di spina ecc. Gettando un'occhiata alla Raccolta del Tigri
LA POESIA POPOLARE ITALLA.XA. 209
VII.
La lirica popolare italiana nella sua duplice
forma di Stramhotto o Bi^petto e di Stornello o Fiore
è stata finora raccolta provincia per provincia e
dialetto per dialetto; ma è dappertutto la stessa, (^)
non solo nell'indole generale, ma anche nella special
forma dei componimenti. Se la pubblicazione delle
collezioni provinciali proseguirà con lo zelo, del
quale abbiamo prova da una cinquantina d'anni a
questa parte, noi crediamo che fra non molto potrà
farsi una raccolta generale di Canti del Popolo
Italiano, nella quale sotto ciascun tema si trove-
ranno le vario lezioni vernacole, e non molti saranno
i Canti che appariranno proprj di una sola regione.
Fra i Siciliani, per le ragioni che più oltre addurremo,
ve ne sarà un certo numero senza riscontro in altri
dialetti: taluni anche fra i Toscani: ma per le altre
Provincie si avranno soltanto rari esempj di Canti
scompagnati e interamente locali.
trovo epiteti od immagini ideiiticlie o simili: J5fZ fiordaliso, iìnr d'arancio,
ìiì,azzo di viole, gentil fiore, candida rosa, viso angelicato, gentilina, rosa
fiorita, viso di nobiltà, mazzo di basilico, faccia serena, bel viso adorno, rosa
incarnata, giglio cortese, fior di x>aradiso, giglio valoroso, fresca viola, fresco
fiore, fior di primavera, fior di gentilezza, vermiglia rosa, giglio dell'orto,
vago fiore, stella mattutina, stella diana, stella rilucente, fonte di bellezza,
e simili. Sono tutte forme della gioventù della poesia, che si perdono dap-
poi. Si potrebbero anche paragonare le Lettere di Montanini stampate dal
Tigri, pag. 183 e segg., con la Lettera di Troilo a Cressida nel Filostrato,
canto VH, ott. 52 e segg. Salvo la differenza fra un cavaliere e un mon-
tanaro, e fra un poeta culto ed un inculto, l'andamento delle lettere amo-
rose, nell'un caso e nell'altro offre non poche rassomiglianze.
(1) n novelliere sanesc Fortini cos'i scriveva della Poesia popolare
del suo tempo: "Questo Sardinapallo passando per la strada se n'andava
cantipolando certe canzoncine alla napolitana, come a dire, al modo nostro,
alla villana; e alla romanesca si domandano alla montanina : li viniziani
dicono alla bergamasca „ : Terza giornata ecc. Siena, 1811, p. 95.
D'Ancona, La poesia pop. ital. — 14
210 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
Di questa nostra asserzione sull' identità del
Canto popolare nelle diverse parti d'Italia ci piace
addurre qui prove abbondanti: e se altri ci accu-
sasse di fornirne pili del bisogno, risponderemmo
che i confronti e le osservazioni, che via via an-
dremo facendo, non serviranno soltanto al fine indi-
cato, ma ci apriranno l'adito a trattare due que-
stioni importanti : sulla patria primitiva dei Cauti
stessi, e sulla loro forma originaria. Non gravi, dun-
que, al lettore di seguirci attentamente in questo
studio comparativo di Canti, simili fra loro e solo
diversi in alcuni particolari, che però non lasciano
porre in dubbio l'identità sostanziale del componi-
mento. E forse la vaghezza della maggior parte di
queste poesie allevierà il fastidio della lunga enu-
merazione e dei molteplici paragoni. Avvertasi in-
tanto che a fondamento delle nostre ricerche po-
niamo le versioni toscane, poiché, come vedremo,
esse posson quasi dirsi intermedie fra la forma
primitiva e le successive variazioni.
Apriamo, dunque, la raccolta del Tigri, e quasi
subito e' imbatteremo in questo Rispetto :
lersera (ci) passò il mio amor caiitaiulo,
Ed io mescliina lo sentia dal letto ;
Volto le spalle alla mia madre e piango;
Le pene che mi dà quel giovinetto !
Le pene che mi dai, tutte le scrivo ;
Tempo verrà che noi le leggeremo :
E noi le leggerem tutte le carte ;
Bello, che di burlare avete l'arte ;
E noi le leggerem foglio per foglio ;
Più me ne fate, ed io più bea vi voglio. (')
(1) TiGKi, 11. 6. Nelle Chiane il Rispetto si è ridotto alla parte so-
stanziale, ed è divenuto .Stoniello :
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 211
Qui, come spesso avviene, la canterina è stata quasi
trascinata dalla menzione delle pene amorose, a
frammischiare o rannodare insieme due diversi Ri-
spetti, (^) e dopo i primi versi del secondo a con-
tinuare colla parafrasi o ripresa, propria al canto
toscano. Ma nella prima parte il Rispetto toscano
è sostanzialmente questo Strambotto siciliano :
Assira lu niè amuii ija cantaniui
Jò era 'iita lu liettu e hi sintia ;
Aju vutatu li spaddi a me maninia,
Pi sentiri 'i canzuni chi dicia.
E cu' i larmuzzi miei lu liettu abbagnu,
E poi l'asciucu cu la fantasia.
Amuri, n'antra vota va cantannu, {-)
Morta mi truovi di malancunia. (^)
Antica origine ha il seguente, sempre nella
prima rubrica del Tigri :
Quanti ce n'è che mi senton cantare
Diran: buon per colei ch'ha il cor contento!
S'io canto, canto per non dir del male,
Faccio per iscialar quel ch'ho qua drente:
Faccio per iscialar mi' afflitta doglia :
Sebbeu io canto, di piangere ho voglia ;
Quando varchi de qui, varclii cantando :
Io puariiiina so tul letto e 'ntendo :
M'avvòlto a la mi' mèma lagrimando.
BiLLi, Poeaie giocose nel dialetto dei chianajuoU, Arezzo, Belletti, ISTO, p. 5G.
In Casale di Val di Cecina:
Quando passi di qui, passi cantando.
Io, poverina, nel letto, t'intendo;
Volto le spalle a mamma, e per te piango.
Cfr. gli Stornelli n. 156 del Tigri, e n. 90 del Xekucci, p. 163.
(1) Cfr. Tigri, n. 787.
('-) Migliore la variante : Si iin'antra vota tu 2>(issi cantannu.
(3) PiTRÈ, Centuria di C. pop. sicil., n. 20. Cfr. Vigo, n. 1202, ove il
3» verso dice men bene: Votu li )!2yaddi a me marita tantu; e cos'i anche
nel GuASTELLA, n. 143 : invece I'Avolio, n. -52, concorda colla nostra le-
zione.
212 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
Faccio per iscialav l'afflitta pena:
Sebben io canto, di dolor son piena. (')
111 un codice del secolo XV troviamo questo llì-
spetto, che si direbbe forma letteraria del canto
toscano e del siciliano che segue :
Oh quanti son che m'odono cantare
Che credono però ch'abbia bel tempo !
Tutti vi prego lassatemi stare,
Che quando io canto allora mi lamento
Per una donna ch'ò preso ad amare,
Che m'ave posto in si grave tormento :
Però chi segue Amor s'abbia a guardare
Non l'intervenga la pena ch'io sento. ('-)
Le rassomiglianze cadono sul primo tetrastico, che
in Sicilia suona cosi :
Cantu, ma In me cantu nun è cantu,
Canta pr'allianarimi lu senzu :
Li genti chi mi sentinu ca cantu,
Dicinu : Miat' idda ! avi bon tempu !
Tegnu malincunia, pri chistu cantu :
Mi scantu s' iddu moru 'nta stu tempu :
Sugnu picciotta e vogghiu scialu e cantu,
Ca quantu moru, mi quetu lu senzu. (^)
Ma a Venezia vive il solo tetrastico con un verso
non mutato dell'antica lezione :
Quanti ghe n'è che me sente cantare,
E i dise : Custìa canta dal bon tempo !
Che prego '1 ciel che li poss'agiutare :
Quando che canto alora me lamento. (^)
E neir Istria :
(1) Tigri, n. 22, e ridotto a Stornello, in Giannini, C.p. ìuont. lucch ,y. 3.
Cfr. Ferraro, C. popol. di Lagosciiro, n. 55; Garlato, p. 344.
(2) Cod. Palat., n. 228.
(3) Salomone-Marino, n. 221.
(4) Dal Medico, p. O'J. Cfr. Bernoni, punt. IV, ii. 8; Caliaf.i, p. 257.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 213
Quanti de quisti me sento' a cantare
Deìse : Quileìa canta l'uò el bon tempo !
E cusseì Ideìo li puossa gióutare :
Quando ch'i canto alura i' me limento. (')
E anche nelle Marche :
Quanti ce n'è che me sente cantare,
Dice : Beata a lia, eh' ha '1 cor contento !
Per grazia non mi fate biastimare :
Ch' io quanno canto, allora mi lamento. C^)
L'amore, a detta di quest'altro Rispetto, comin-
ciò dalle fasce, anzi prima del nascere dell'amata :
Bella, non eri nata, eh' io t'amavo.
Ora sarebbe il tempo eh' io t'avesse ;
Tua madre partoriva, ed io pregavo
Acciò una bella femmina facesse,
E davanti al compare me n'andavo
Acciò che un nome bello ti mettesse.
Ti mise nome Rosina d'amore,
Per farmi consumar la vita e il core :
Ti mise nome Rosina incarnata;
E per farmi morir, bella, sei nata. ('■^)
Su questo stampo va la lezione veneziana :
Giera ancora da nassar che te amava,
Dover no gera che nissun te amasse :
La mamma partoriva, e mi pregava
Venze de mascio, femena nasesse,
Davanti el padre tuo me inzenociava
Che qualche gran bel nome el te metesse ;
Che el te metesse nome Gigia bela:
Altra no amo, se no amo quela. (""j
(1) IvE, p. 17.
(-) GiANANDEEA, p. 8. Cfc. SABATINI, C.poxì. romani, in Eicista di leti,
popol., I, 9.3.
(3) TiGKi, n. 91.
(4) Bernoni, punt. VII, ii. 10. Cfr. Dal Medico, p. 115. Kella lezione
vicentina (Alveea, n. li), il nome è CJiiara stella, come nel Rispetto 11.3-12
del Tigri. Kella lezione istriana dell" Ive, p. 22, il nome è Galante, nella
214 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
Né diverso è lo Strambotto siciliano :
Bella, 'un eravu nata, ed iu v'amai.
Sempre li sensi mei fora ccu vui,
Ccu vostra marna li santi piiai
Pri fari fimminedda, e fici a vui ;
A la mammana iu la ji a chiamai
Pri mèttiri ssu iiomu beddu a vui ;
Zzuccaru e meli a la fonti purtai,
Pri fari duci la vuccuzza a vui. (')
Il giubilo per la contemplazione della beltà del-
l'amata erompe dall'animo del cantore toscano a
questo modo:
Sia benedetto chi fece lo mondo !
Lo seppe tanto bene accomodare.
Fece lo mare, e non vi fece fondo.
Fece le navi per poter passare.
Fece le navi, e fece il Paradiso,
E fece le bellezze al vostro viso. (^)
Alquanto diversa è la lezione siciliana di Partinico:
Vurria sapiri cu' fici Iu munnu :
E cu' hi fici Iu sappi ben fari ;
Fici Iu suli cu Iu circu tunnu,
Fici la luna 'nta Iu fari e sfari ;
Fici Iu mari poi eh' è senza funnu,
Fici la navi pri Iu navicari ;
Aju firriatu tri voti Iu munnu,
E bedda cumu tia 'n uni potti asciari. (^)
Però lina lezione di Terra d'Otranto meglio si ac-
costa alla toscana :
Sia benedittu ci fico Iu mundu!
Comu Iu sappo bone fabricaro !
romagnola del Percìoli, n. 171, Marianna. Una lezione ferrarese, tratta da
un manoscritto del secolo XVIII, ò recata da H.Yetì^avm. in Arch. ti-axìU.
piipol.. Il, 586.
(1) Vigo, n. 354.
{?) Ticini, n. 100. Cfr. n. 279, 480, e Tommaseo, p. 18.
(3) Salomone-Marino, n. 16.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 215
Fice la notte e poi fice lii giurmi,
E poi lu fice crisceie e mancare.
Fice la mare tantu ciipu e fandn,
Ogni vascellu pozza navigare :
Fice pure le stelle e poi la luna ;
Poi fice l'occhi toi, cara padruna. (')
È notissimo il Rispetto, nel quale la bruna figlia
del contado, nigra sed fornìosa, scusa, esalta anzi il
colore, che sul suo volto induce il non ripartito rag-
gio del sole :
Tuiti mi dicon che son nera nera:
La terra nera ne mena il huon grano:
Guardatelo il garofano, gli è nero,
Con '^[uanta cortesia si tiene in mano. (-)
La neve è bianca, e sta sulle montagne.
Il pepe è nero, e va nelle vivande ;
La neve è bianca, e sta su per i monti,
Il pepe è nero, e sta in tavola e' conti. (^)
Ognuno facilmente scorgerà la rassomiglianza collo
Strambotto raccolto a Catania, che però è applicato ad
uomo :
Mi mannastivu a diri ch'era niru,
Niura è la terra ca fa lu dinaru ;
Lu galofiru è beddu quannu è nini,
E pri bellizza lu tegnu a li manu ;
(1) Imbriani, C. popol. pror. merid., II, 117. Vedi ivi altre lezioni me-
ridionali, e cfr. Mandalari, p. 15; Molinaeo, C. popol. napol., p. 255 e
C. p. di Metta, n. 56; Fuortes, C. p. di Giuliano, n. 21; Amalfi, n. 142;
efr. una lezione marchigiana in Gianandbea, p. 193, romagnola in Pergoli,
n. 413, e umbra in Mazzatinti, p. 349.
[-) Anche in un distico popolare greco: .... j7 garofano h nero e si
rende caro: Mahcellus, op. cit., p. 277. E Virgilio : Alba lignstra cadimi,
vaccinia nigra leguntur.
(3) Preferisco questa lezione da una mia Raccolta manoscritta a quella
del Tigri, n. 143 (cfr. anche n. 216), dove la seconda parte riguarda il damo:
Tutti mi dicono che il mio damo è tinto;
A me mi pai'e un angiolo dipinto:
Tutti mi dicon che il mio damo è nero:
A me mi pare un angiolo del cielo.
Vedi altra lezione toscana nel Livi, p. 13.
216 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
L'amuii di li ni uri è amuri finu,
L'amuri di li janchi è aniuri sanu .
Sai chi ti sacciu a diri, amuri finu ?
Li iiiuri cu li janchi si confanu. (^)
Mista, a quel che sembra, di siciliano e di toscano,
e in ultimo interpolata, è questa lezione di Groita-
minarda nel Principato ulteriore:
L'ammove mmio mm'ha mauuato a dire: (^)
Dice ca so' brunetto, e non mme vele.
Io le mannaje a dicere accusi :
La terra nera buono grano mena ;
La terra 'janca va pe' lo vallone, (')
La terra nera sse compra a denaro.
Non te feda' de l'albero che penne.
Manco de l'ommo curto che te 'nganna. {*)
La maggior forza del sentimento amoroso fin
sulle pratiche devote è così espressa in Toscana:
Dimmi, bellino, com' i' ho da fare
Per poterla salvar l'anima mia?
r vado 'n chiesa e non ci posso stare,
Nemmen la posso dir l'Ave maria:
r vado 'n chiesa, e niente posso dire :
eh' i' ho sempre il tuo bel nome da pensare;
r vado 'n chiesa, e non posso dir niente.
Ch'i' ho sempre il tuo bel nome nella mente; {'")
che a Venezia si canta in questa forma :
L'amor me fa redur a un passo tale.
Che co' so' a messa no so dove sia.
(1) Vigo, ii. 1441. Cfr. Salomone-Marino, n. 42, 43.
(2) Cfr. col verso del Rispetto toscano del Tigri, n. Ifitìl: i' lo mio
amor me V ha mandato a dire, e del Bernoni, puiit. IV, li. 40: La mare
del mio ben ìii' ita manda a dire ecc. Vedi anche Caliari, p. SG, 1.3U.
(3) Tigri, li. 116: La neve !> bianca e sia su pe' valloni.
(}) Imbriani, C. pop. prov. merid., II, 54, e cfr. Molinaro, C. p. nap.,
p. 230 e Corazzini, p. 205. Gli ultimi due vei-si swWalbero die pende, .ap-
partengono ad altro Canto elio nel Veneto dice: Non te fidar de l'alboro
che pende: Dal Medico,' p. 114, e cfr. Bernoni, punt. II, n. 43; Altera, n. 18;
Pasqualioo, n. 5; Widter-Wolf, n. 4:3, e.
(6) Tigri, n. 262.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 217
No sò s' el prete leza sul messale,
Né manco no sò dir l'Avemaiia.
E se la digo, poco la me vale,
Dal ben che mi te vogio, anema mia !
Te tegno tanto in la mia mente scrita :
Amo più ti, che la mia propria vita. (')
Similissima è la lezione corsa:
Gioja, tu m' ha' riduttu a singhiu tali
Voju a la messa, e nun so duvi sia :
Nun ascoltu parodra di u missali,
E min soju piìi dì dr' Ave maria ; (^)
Quann' e' la dicu, nudra nun mi vali,
Parchi t' ho sempri in ti la fantasia :
E parchi e' soju a tia troppu riali,
In onghi locu sempri ti bunìa. (^)
Or ecco la versione insulare :
Amuri, amuri, chi m'hai fattu fari!
Li senzii mi 1' hai misu 'n fantasia,
Lu patrinnostru m' ha' fattu scurdari
E la mitati di la vimmaria;
Lu creddu nun lu sacciu 'ncuminciari,
Vaju a la missa, e mi scordu la via ;
Di novu mi voggh'jri a vattiari,
Ca turcu addivintai pri amari a tia. {■*)
Questo Rispetto toscano, clie ha insieme del ma-
lizioso e dell'ingenuo, serba quasi integro il tetrastico
del corrispondente Strambotto :
Dimmelo, caro amor, come facesti,
Quando dal petto mio cavasti il cuore?
Dimmelo, con che chiave me l'apristi
Che non sentii né pena né dolore?
(1) Dal Medico, p. 73.
('-) Cfr. con Tigri, n. 350: Giovanottino, m'hai ridotto a tuie, furio aila
Messa e non so dove sia : Sapevo le paroie del Messale, Adesso non so pih
l'Ave maria ecc.
(3) Tommaseo, C. xiopol. Corsi, Venezia, Tasso, 1841, p. 34i; Viale.
C. ìjopol. Corsi, Bastia, Fabiani, 1855, p. 234.
{*) Vigo, n. 1462. Cfr. Avolio, n. 76; Seveeini, ii. 59 e Gioegi. n. 7.
218 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
'Gna che tu l'esse la chiave reale :
Cavallo un cor dal petto, e non far male;
'Gna che tu l'èsse la chiave d'avorio:
Cavarlo un cor dal petto, e 'n sentir duolo. (^)
Infatti in Sicilia suona così:
Dimmilln, amuii min, conni facisti
Quannu hi cori 'n petto m'arrubbasti,
E quali fu la chiavi ca rapristi,
Ca mancu ppi ummra duluri mi dasti ?
Ca la chiavi daveru e tu l'avisti.
Rapisti adaciu, e poi ti lu scippasti :
Chissà è lu primu dannu ca facisti,
E doppu ca ccu tia m' incatenasti. (^)
Artificioso è, come ognun vedrà, il seguente
Rispetto :
M' è stato dato un pomo lavorato,
Ed io per pegno gli ho dato il mio core.
Intorno intorno gli era inargentato,
In mezzo ci era scritto due parole.
Una diceva: Core tanto amato;
L'altra diceva : Gelosia d'amore;
Una diceva: Spìccio e viole;
Siete la catenella del mio core;
Una diceva: Spicolo e mortella;
E del mio cor siete la catenella. (^)
Con molte irregolarità, per perdita di rime, vi si
accosta questa Vilota veneziana :
e la lezione meridionale in Imbeiani, C. pop, titani, n. 6; Mandalart, p. 240,
e MoLiNARO, C ^). nap., p. 128. Cfr. questo Canto popol. spagnolo:
Voy a misa y no la oigo
(Dile il Dio que me perdone)
Porqne no qxiito los ojos
Del sitio donde te pones :
V. lì. Marin, C. pop. espan., Sevilla, 1882, II, 2'C,.
(1) Tigri, n. 299. Cfr., per il solo primo tetrastico, la lezione veronese
in Cesconi ecc.. Canti popol. veronesi, n. 17: e i soli primi due versi in un
tetrastico marchigiano presso Gianandrea, p. 20.
(2) Vigo, n. 484: cfr. lezione romana in Corazzini. p. 271.
(^) Tigri, n. 321. Cfr. per doni consimili, Tigri, n. 458; Vigo, n. 51^ ce.
LA P0ESL4. POPOLARE ITALIANA. 219
M' è stato regalato tre iiaranze,
Drento ghe gera scrite tre parole :
Una diseva: Ohimè, qnatito mi ami!
L'altra disea : Da gelosia mi moro !
L'altra diseva: Anima tevena !
Ma no tegnir amanti a la catena. (')
La probabil forma prima è in questo Canto siciliano:
Mi mannasti un pumiddu muzzicatu,
E jo pri canciu ti mandai lu cori ;
Ed era tutta d'ora arracamata,
Dintra cc'eranu scritti tri palori;
Una diceva : cori, e l'autru : clatu,
L'autra obi pri tia st'arma nni mori :
Nu 'mporta ca m'aviti 'bbandiinatu,
Sempre siti chiavuzza di sta cori. (-)
Sotto le finestre della sua bella così canta il
villico toscano :
Vengo di notte, e vengo appassionato.
Vengo nell'ora del tuo bel dormire ;
Se ti risveglio, faccio un gran peccato,
Perchè non dormo, e manco fo dormire.
" Se ti risveglio un gran peccato faccio;
Amor non dorme, e manco dormir lascia; (^)
(1) Dal Medico, p. 129.
{", PiTijÈ, Canti 2>opol. sicil., I, il. 242. Cfr. Vigo, il. 1867 ; altra lezione
in Lizio-Bruno, Canti pop. Isol. Eoi., n. 31 ; napoletana in Kopiscii. p. 142
e in MoLiNAEO, C. jjop. nap., p. 22.3 ; marchigiana in Gianandeea, p. 108. Si
direbbe che A. Veneziano imitasse, perfezionandolo, questo Strambotto po-
polare, in quest'ottava del 20 libro di la Celia (Opere, Palermo, Giliberti,
1859, p. 85, n. 264) :
Un pumu russu la bedda mi detti
Cu facci allegra, accussì sia sincera !
Russu è pri stizza, ed iu chi chiù nun stetti
Subitu lu spaccai, vitti chi nn'era ;
Ci truvai cincu ariddi, chi poi letti
Furmaru littri, chi dicianu Spera.
Beatu mia tri voti, s'a l'affetti
Lu russu è presti e la spiranza è vera.
(3) TiGHi, n. 372; cfr. n. 403. Cfr. Xieki, n. 21.
220 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
e a questo modo nell'Umbria:
Vado de notte e vado passeggiando,
Vado sull'ora del dolce dormire,
Se io te sveggliio faccio 'n gran peccato
Perchè min dormo e min lasso dormire :
Dorme, bellina mia, dorme sigura.
Che io sirò il guardian de le tue mura ;
Dorme, bellina mia, dorme serrata,
Che io sirò '1 guardian de la tu' casa. (^)
Neil" Istria il Canto si è ampliato così :
Deh, cumpatime, cara visinanza,
Se quista nuoto i' son vignoii a cantare ;
In 'sta cuntrada i' go 'na dubitanza,
'Na poùta biela, i' mi' la puoi lassiare.
E cumpatime s' i' son vignoù tardi,
Pioùn a bun'ura i' n' iè possioù vineìre ;
r son vinoùto de la mieza nuoto,
Gioùsto su Tura del dul(;'e durmeire ;
Faco l'amure e nu' faco peccadi,
E mei nun duormo e i' mi' lassio durmeire. (^)
La mossa delle due versioni è in questo Canto si-
ciliano :
Vinni di notti a puntu di durmiri;
Mi ti spezzu lu sonnu è gran piccato ;
Facciuzza di billizza e di piaciri,
Cu ti r ha dittu chi t'avia lassatu ?
Jò nun ti lassù 'nfin' a lu muriri.
Mentri mi dura la vita e hi sciatu ;
Quannu a la Chesa 'n mi viditi jiri,
Tannu cridi chi t' haju abbannunatu. (^)
La trasformazione in qualche animale, più spesso
(1) Mazzatinti, 11. 242.
(2) IvE. rag. 11.
(3) Vigo, ii. 1858. Cfr. ii. 1301, dove il penult. verso dice meglio:
Quannu a la fasta mi ridi scinniri.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 221
in un uccelletto, (^) ricorre sovente nei Canti amo-
rosi di tutti i popoli ed anche in poeti culti; (") e
in Toscana, ad esempio, si canta così:
Piacesse al ciel ventassi un rondinino.
Avessi l'ale e potessi volare !
Vorrei volar su l'uscio del mulino,
Dove sta lo mi' amore a macinare :
Vorrei volar sull'uscio e poi sul tetto,
Ove sta l'amor mio, sia benedetto !
Sia benedetto, e benedetto sia
La casa del mi' amore, e poi la mia ;
Sia benedetta, e benedetta sempre
La casa del mi' amore, e poi la gente. (^)
Il secondo verso resta quasi sempre lo stesso, il
terzo si adatta alla variata rima del primo ; onde
altra lezione toscana, che dice cosi :
Piacesse al ciel eh' io fossi rondinella.
L'avessi l'ale e potessi volare !
(1) Vedine raccolti paieeclii esenipj in Lizio-Bruno, Canti p. Isol. Eoi.,
p. 12L Aggiungi queste vaghissime Villette friulane (Aiìboit, n. 798, 8721:
S' i" foss une sizilline (rondinella)
'Orress mettimi a svuelà ;
Par là a viodi che" ninine
Su ehel jett a ripozà.
Se io foss una sizilla
Sul balcon vorrèss vola,
Vorrèss bàtti tant las alas
Fin eh' a mi lassàss entra.
In alcune Villanelle napoletane del sec. XVI. il desiderio è di trasfor-
marsi in grillo : v. V. Eossi, Lett. del Calmo, p. 6, n.
{-) Per esempio in Bernardo da Ventadorn (v. Baptsch, Chresiom.
provenr., Elberfeld, 1895, col. 52):
Ai Deus ar sembles ironda
Que voles per l'aire
Que vengues du noit prionda
Lai al seu rapaire I
(3) Tigri, n. 449. Cfr. n. 418, 448, 625. Altra lezione, in Giuliani, Let-
tere sul vivente Unguagg. tose, p. 365. Vedi anche per 1' Umbria, Mazza-
tinti, n. 194 ; per la Sicilia, Pitrè, Canti popol. sù-.il., I, n. 60, 61 e Vigo.
n, 1543; per T Istria, Ive, p. 123; per Ferrara, Febraro wcW Arch. tradiz.
222 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
Volar vorrei 'n quella contradia bella
Dove l'è lo mio amore a lavorare. (^)
Ma a Venezia vi si conserta l' immagine del mare :
Vorave esser in pé d'un oseleto,
Aver le ale per poder svolare!
Vorave andar in sima d'un trinclietu,
A veder lo mio amore a navegare. (^)
Tutte le lezioni ritornano al principio di un Canto
siculo :
Oìi Diu, ch'addiventassi pahimmedda !
L'ali mi vurria mettiri e vulari :
Virria a pusari 'nta ssa cammaredda,
Quanta li virria vestiti e spugghiari.
Oh Diu, chi l'arti mia fussi pitturi !
Ca un ritraitu di tia m'avirri' a fari ;
Bedda, chi sempre pensi a lu me amuri,
Amuri, lu me nnomu 'n ti scurdari. (^)
Alla sua Caterina l'amatore vorrebbe fare un
bel telajo, e così si esprime la lezione toscana :
Un albero di pepe vo' tagliare
Per fare lo tejaro a Caterina;
Le casse d'oro li ci voglio fare :
Ci si potrà specchiar sera e mattina.
Le fila d'oro e la spola d'argento:
0 Caterina, non mi dar tormento. (■*)
Nelle Marche varia a questo modo:
'N mezzo del mare un arboro de pepe ;
Marinarello, arcojene 'na rama,
pui)Ol., II, 587 ; per lo Marche, P. F. Leopaisdi, C pup. recanat., u. 0, o jiel
Veneto, Gaelato. p. 3.37.
(1) Tommaseo, pag. 144, e vedi ivi altre lozioni.
(2) Beknoni, punt. Ili, 11. 14, e altra versione in Ti-adis. popol. veiies.,
p. 127. Cfr. Dal Medico, p. 'JìK
(3) Salomone-Marino, n. 91; Vkio, n. 509. Altra lezione in Lizio-
Brl'NO, ('unti scelti popol. siciL, l'i. 04; v. anche Fiori selvatici, n. 9G.
(•»; Tigri, n. 459.
LA POESIA POPOLARE ITALIAKA. 223
Pei- facce lo telaro a Teresina.
0 Teresina, contenta sarai
Co' 'n telaron de pepe tessarai,
0 Teresina, contenta sarete,
Co' 'n telaron de pepe tesserete. (')
L'albero di pepe sparisce nella lezione sicula :
Oh Din, chi sta carerà fussi mia,
Ch' è la cchiù bedda di chista citati!
Un tilareddu d'ora cci farla,
Cu quattru arvulicchi attiuniati :
Unii d'aranci», 'n' autru di lumia,
Unu di panna, e 'n' autru di granati.
Oh Diu, t'avissi, Catarina mia,
Ca cchiù imn patiria chiddu chi pati! (^)
Ma ritorna in una lezione del Principato citeriore:
Voglio fa' 'n arbore de pepe
Pe' fa' lu telaru a neiina mmia ;
La navetella de noce moscata,
Le lizze so' de seta carmosina ; (^)
dove per rifar la rima del secondo verso, converrà
riporre il nome, già trovato in altre versioni, di
Caterina.
Questo proposito di fare all'amata un telajo
prezioso è voto antico del popolano poeta, imitato
ben presto da poeti di meno incolto stile; e già in
mano a un vecchio facitore di versi, era diventato
un sonetto, anzi un sonetto caudato :
S' io il potessi far, madonna bella.
La tela che tessete faria d'oro
(.1) GiANANDREA, p. 201 ; cfr. Mazzatinti, 11. 337.
{-) Salomone-Maeino. 11. 105. Cfr. la lezione del Vigo. ii. 2345, dove
le rime del 2», 4tJ e 6" sono perfette, e tutte in atu. Per una lezione ca-
labrese, vedi Canale, n. 21.
(3) Imbkiani, C. pop. provine, merid., II, p. 212; efr. Finajiore, Vocah.,
271 ; Mandalaki, p. 123 ; De Nino, Usi e cast, abnuz., Ili, 222 ; Molinaro
Del Chiaro, C. p. materani, l; Amalfi, n. 166.
224 LA POESIA POPOLARE ITALIAXA.
E le do' spuole d'un sottil lavoro
D'un rubino che luce più che stella ;
E d'argento farei cento cannella
Tutte smaltate con sottil lavoro,
E lo spoletto che metti nel foro
D'un diamante che si metta in ella.
Le casse e banche faria di corallo,
Pettine e liccio d'avorio commessi.
Seggiola e calcol faria di cristallo.
E per lucerna vorrei che voi avessi
Due carboncin, che lucan senza fallo,
E balsamo per olio vi mettessi.
E io con voi starei a imbavare (a lavorare?):
Cento anni e più penassi a insegnare (a imparare?). (')
Ma presto sì era raccorciato in uno Strambotto:
Se io potessi far, fanciulla bella,
La tela che tu tessi faria d'oro,
E d'ariento farei le cannella
E lo spoletto che metti nel foro,
E di cristallo farei la panchetta:
(Quella dove siedi, o fanciulletta.
Nel Rispetto che segue sono uniti insieme due
diversi Canti; e difatti i primi due versi sono privi
di rispondenza ritmica con i seguenti:
Non mi chiamate più biondina bella
Chiamatemi biondina isventurata.
Se delle sfortunate c'è nel mondo.
Una di quelle mi posso chiamare.
Get^to una palma al mare, e mi va al fondo:
Agli altri vedo il piombo navigare.
Che domine ho fati' io a questo mondo?
Ho l'oro in mano, e mi diventa piombo.
Che domine ho fatt' io alla fortuna?
Ho l'oro in mano e mi diventa spuma.
Che diamine ho fatt' io a questa gente ?
Ho l'oro in mano e mi diventa niente. ('*)
(1) Il son. ì) tratto dal cod. lauvcnz. 122 della SS. Aiiiiiin/..; lo stram-
botto seguente dal laur. gadd. 161 : vedi S. Fekkaiìi, Sonetti e Strambotti,
in liii.'. crii. leti. Hai., Ili, 188 e Bibliot. lett. popol., I, p. 83.
(-) Tigri, n. 540. Cfr. Nieki, n. 101; Caliaei, p. 39 ecc.
LA POESIA POPOLARE ITALIAXA. 225
Il distico iniziale è il Canto storico per Isabella di
Lorena, del quale abbiamo già detto piìi addietro : O
ma il rimanente del Canto toscano dopo il distico
iniziale, si raffronta con uno Strambotto siculo :
Di quanta sfiutiinati c'è a la iiiunnu
Una di cliisti mi pozza chiamali ;
.Tetta la paggliia a mari e mi va a tanna,
E ad aatru vija la chiamma natali:
Autra fa palazzi 'atra un sdirappu,
Ed io 'ntra chiani non ni pozza fari ;
Autra munci la petra e nesci sucu,
Pri mia siccaru l'acqui di la mari. (')
E direttamente da questa lezione, anziché dalla me-
diana, direbbesi derivata la lezione ligure :
I più disfortiinà eh' i sua al manda,
Una di quelli mi possu chiamare ;
Metta 'na piiimma 'n ma', e n'an va ar fandu,
r altri lo pumbi lu fan navegare ;
r altri fan li palassi a la montagna,
Mi a la pianura ma li possu fare;
r altri fan l'amù cun le fìe bele,
Mi manc'er suzze mi vihu mirare. (■')
Infinite varianti ha per ogni dove il canto della
tortorella : (*) a proposito del quale è da notare che
(1) Vedi a. pag. Ili e segg.
{-) Vigo, n. 3097. Lezione calabra in Canale, n. 45 e in Mandalaki,
p. 49, 3G0. 391; greco-leccese in Morosi, SltidJ, n. 119; umbra in Mazza-
tinti, n. 321; marchigiana in Gianandrea, p. 188; lucchese in N^teri, 101,
e in Giannini, p. 12, e in C. pop. tovc, p. 247 e 363; veronese in Caliari,
p. 49; tetrastico in Ive, p. 113. Anche la lezione, veneta (Bernoni, punt.IV,
n. 74; è un tetrastico, ma riducibile a Stornello, perchè il 4^ v. è identico
al 1". E stornello è anche la lezione romana, in Siv. lett. popol., pag. 94.
13) Maecoaldi, Canti popoì. lig., n. 31.
(■1) Una antica Canzone popolare francese :
An bois de dueil je m'en iray ....
En ressemblant la turturelle,
Qui a le cffiur triste et marry;
Quand elle a perdu sa pareille.
.Sur branche seiehe va à mourir:
Haupt, Franznsische VolksUed., Leipzig, Hirzel, 1S77, p. 12: e cfr. altra Can-
D'Ancona, La poesia pop. itaì. — 15
226 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
fin dal sec. XIII, Boncompagno da Sigua nella sua
Bota Veneris additava l' immagine della tortorella
vedovata fra le altre forinole da adoperarsi nell'epi-
stolario erotico. Faciam, egli scriveva, sicut turtur,
que SHiuìi perdit maritum.... Illa s'iquidem posteci non
i<edet in ramo viridi sed gemet in sicco ranw voce flehile
jugiter, et aquam claram turbat cuni appetit libere;
nidlum Itisi niortis prestolatur solatium. (^) Siffatta
menzione nel formulario del retore bolognese, non
che in alcuni Bestiarj moralizzati, e fra noi nel Fioì-
di Virtii (cap. XXV), nei Sermoni del Sacchetti e nel-
Y Acerba, rese comune a poeti di popolo e a poeti
d'arte la gentile e mesta immagine. Ai molti esempj
già raccolti (^) ne aggiungo uno tratto da un poe-
metto popolare intitolato la Salamandra :
Vedova toitorclla, che si lagna
Fugge fra selve oscure, e spaventosa
Va ricercando la persa compagna,
Scura, scontenta, mesta e dolorosa;
Arriva all'acqua chiara, e là si bagna.
Poi se la beve cosi torbidosa ;
Così pur io perverso e sfortunato.
Cerco la donna mia che in' ha lasciato. (^)
Ecco la forma di quel cauto sulle bocche del popolo
di Toscana:
La tortora che ha perso la compagna
Fa una vita molto dolorosa :
zone francese in G. Paris, Ch. du XV s., Paris, 1875, p. 145. Vedi per altri
raffronti, spagnoli e danesi, Gian, in Giorn. star. leti. Hai., IV, 45,331 e del
medesimo, Spigolature petrarch. nel Numero Unico Padova a F. Petrarca.
(1) E. Monaci, La R. Ven., cstr. dai liendic. dei Lincei, Poma, Sal-
viucci, 1889, p. 7fi.
(-) Vedi GoLDSTArij e Wknduinkh, Ein tosco-venelian. Pestiariits, Halle.
Niemeyer, 1892, e, riassumendo quanto è stato scritto sull'argomento. V.
l'iAN, Le Rime di Jiartol. Cavassico, Bologna, Komagnoli, 1893, I. ccxix (cfr.
V. Possi, in Giorn. stor. leti, ital., XXVII, 217).
(3) Mescolo insieme le lezioni di una rozza stampa di Lucca. Ba-
I
LA POESLÌ POPOLARE ITALLIXA. 227
Va in un fiumicello, e vi si bagna,
E beve di quell'acqua torbidosa :
Cogli altri uccelli non ci s'accompagna,
Negli alberi fioriti non si posa :
Si bagna l'ale e si percuote il petto,
Ha persa la compagna: oh che tormento. (')
0 meglio, come porta altra lezione toscana, formando
perfetta ottava:
E va dicendo: Amor sia maledetto. (-)
La lezione sicula, che piìi si accosta alla nostra, sa-
rebbe questa :
Quannu la torturidda si scumpagna,
Si parti, e si ni va a ddu virdi loca;
Passa di l'acqua, e hi pizzu s'abbagna,
Prima lu sguazza, e poi ni vivi un pocu ;
Va cliiancennu pri tutta la campagna,
Cumu si stassi 'mmezzu di lu focu :
'Mara cu' perdi la prima cumpagna,
Ca perdi spassu, piaciri e jocu! (^)
Né molto se ne discosta la lezione calabrese:
La turdera ch'è perza la compagna
Tutte glie jorne va malenghuenosa.
Addò che trova l'acqua ce se bagna
E se la beve tutta 'ntorbetosa.
Ce se va a mett'a na rava de montagna
E chiama la compagna a anta voce,
rolli, 1855, e di quella di Fr. Selmi nel suo scritto Bell'antica novella ital. in
ottava rima, nella Biv. contempo)-, del 1863.
(1) TiGEi, 11. 650: cfr. n. 649, 553.
{-) TOMJIASEO, p. 193.
(3) Vigo, n. 2906-2927 ; Avolio, n. 423. Una lezione veneta molto cor-
rotta è nel "VViDTER-WoLF, n. 55, una veronese in Caliari, p. 85; una istriana
in IVE, p. 117, una marchigiana in Gianakdhea, p. 147, una umbra in Maz-
ZATiSTi, n. 348. Per le lezioni meridionali, v. Molixaro, C. pop. di Meta,
11. 367 e C. pop. Hcip., n. 313; E. Lovakini. C. pop. tarantini, in Misceli, jjer
>!022e Eossi-Teiss, p. 331; Amalfi, C. p. di Sorrento, n. 31; Imbhiaxi, C. p.
prov. merid., II, 287, e C. poiìol. di Mariyliano, n. 17. L' Imbkiani pone a
confronto colle versioni popolari un sonetto d' Olimpo da Sassofeerato.
228 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
Ce se va a Jiiett'a ne rame de castagna
E ce se va a mett'a a fa' ne cante amorose. (^)
Quest'altro pure è diffuso per tutt' Italia :
Dove sei stato, o gioveiiin, d' inverno,
Che bianco e rosso siete sull'estate?
Sei stato sul giardin di là dall' Elmo,
Dove son quelle viole imbalsamate ;
E tu sei stato sul giardin del sole,
Dov' hanno imbalsamato le viole. (^)
Molte sono le varianti del terzo verso: nel Leccese;
Jeu dormi alli palazzi de Salieruu;
a Bagnòli irpino:
Io stavo a quere parti de Salierno; (^)
Ancor più somiglianza, persin nelle rime, offrono qnesti versi di Panfilo
Sasso :
La tortorella dolorosa e trista.
Dopo eh" ha perso la dolce compagna,
Soletta va per boschi e per campagna,
Fuggendo quanto può l'umana vista :
Ne mai si annida ove floi'isce arista.
Ne d'acqua chiara mai si lava o bagna,
Ma sempre amando più, si duole e lagna.
Tanto ch'ai fin morte erudel n'acquista ecc.
Anche il Be.mbo ha un Sonetto (n. 41) al
Solingo au.sello, che piangendo vai
La tua perduta dolce compagnia ecc.
Per altri raffronti con poesie d'arte, v. Giorn. stoi: lett. ilah, XV, 473. Nel
sec. XVI servì di spunto a una Villanella alla napoletana (v, Menghini
in Zeits. f. roman. l'ìtilol., XVI, 502) :
Piange la tortorella sconsolata
Quand'ha perduto la fida compagna.
Ch'a pietà muove il cielo e la campagna.
(1) Nel giornale La Calabria, IT, 46.
(2) Tigri, n. 710.
(.s) I.MRKiANi, C. popol. )»-ov. mei-ìd., II, 442 e Molinaro, C. pop. »ap.,
11. 529. Nella lozione marchigiana le parole del primo verso sono mutato
di posto: Viirria sape' dove l'inrerno state, e il segreto della gioventù
perpetua e fresca consisto nell'usar l'acqua di Noccra: v. Gianandrea,
pag. CI.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 229
a Verona:
Mi stago nei giardini de Maderno;!')
ma le più si accordano alla lezione sicula, come ad
esempio la ligure:
— Dund' i sei s'teta, Rosa, ques't' inverna,
Ch'i n'an sei tanta fresca e culurita? —
— N'an sun steta a lu giardin de Palermu,
Dund'u fiuriscia' le rOse d' invernu. — (^)
Così siamo ricondotti alla probabile origine:
— Vnrria sapiri unn'abita lu 'nvernu,
Fri stari frisculiddu 'ntra la stati. — (^)
— Sugna 'ntra li jardina di Palernui
'Ntra la palazzu di so' Majstati,
E cai mi vattiau fu re Cngghierniu,
Cli'è 'ncarunatu di tutti tri stati; {*)
Si vói sapiri pirclù vaju e vegnu,
Sempri l' liaja ccu tia la vuluntati. (")
(1) Caliaei, p. 158.
(-) Marcoaldi, Canti popol. Ug.,iì.']ó. Anche nel tetrastico pratese :
il yiavdin di Palermo : Livi, pag. 15.
(3) Meglio nel PiteÈ, C. popol. sicil., voi. I, pag. 99: abbiti fri-
xciilidda.
(*) Varianti in Salomohe-Maeino, n. 33: Uiini si vattiò lu re Ciirj-
gltìermn, Unni si crisimavanu li fati. In Terra d'Otranto: Tie dormi alli pa-
lazzi de Paliernni, Addilli' sse spoggìiia 'e bestunu le fate: Imbkiani, C.pop.
prov. merid., II, 442.
(5) Vigo, n. 1516. Il PitbÈ (Lettera a F. Zaiiibrini, Bologna, Fava e
Garagnani, 1870, p. 11 ecc.) ed altri scrittori siciliani danno a questo Cantc'
valore storico, e lo fanno risalire ai tempi di Guglielmo II. Ma in questo
battesimo regale, del re tradizionalmente ricordato e benamato, non saprei
vedere se non una esagerazione poetica, come nell'altro Strambotto eli e
dice la bella Xipiiti di lu Me vtnizianu, Nascisti in Francia, piurtata in
Gaita E vattiata a lu fonti rumanu (o a lu dumi Giordanu). Altrimenti,
ripeto quel clie già dissi a pagg. 131-2, perchè non prenderemmo per storia
ciò che dice il Rispetto toscano (Tigri, n. 4077) :
Quando nascesti, fior di Paradiso,
A Roma vi portonno a battezzare.
Il Papa santo vi scoperse il viso,
E chiese grazia d'esservi compare? ecc.
A strambotti del see. XII non posso credere: madie, anche molto tempo
dopo, volendo lodare la donna amata e dovendo menzionare un re, si sce-
230 LA POESIA POPOLARE ITALIAXA.
Il Canto funebre che segue, si riduce facilmente
al suo capostipite:
Morirò, morirò: che n'averai ?
Per me sia messa in ordine la croce.
E le campane suonar sentirai,
Cantare il Misererò a bassa voce :
'N mezzo di chiesa portar mi vedrai,
Cogli occhi chiusi e colle mani in croce;
E arriverai a dire : or me ne pento.
Non occorr'altro, quando il fuoco è spento. (^)
Se nel primo verso si ponga, come portano alcune
versioni: non dubitare, {^) \\e\ terzo: Acntirul suonare,
e nel quinto: mi vedrai ^ìortare, avremo sempre una
perfetta ottava, e saremo anche più presso alla forma
siciliana :
Murirò, murirò, non dubitari,
Fazzu cuntento a tia, coruzzu duci ;
A menzannotti sintirai sunari
Una lenta campana a brevi vuci ;
A ghioinu chiari vidirai passar!
Lu parrineddu, la stola e la cruci ;
A tia sul a cummeni d'affacciari :
Morsi l'amanti to, jetta li vuci. (■')
E ad esso, nonostante la mescolanza di voci dialet-
tali e letterarie, si riduce il seguente Canto zaratino:
Che mora? Morirò, non dubitare;
No sentirai più quest'aflita vose ;
gliesse quello rimasto nella ti'aclizioiio, non rie.sce difficile a credere, anzi è
naturalissimo: come ò pur cosa naturale che, sempre per esaltar ramata.
si ponesse la sua residenza invernale negli ameni giardini palermitani,
ne' quali poi non sembrami necessario veder proprio indicati quelli della
Cuba, e non altri.
(1) TiGEi, n. 1142, 114.3: Variante in Livi, p. Hi. Cfr. Vigo, n. UGO.
(2) Marcoaldt, C. popol. la'.., n. 23.
;3) Vigo, nota al n. .'?225. Cfr. Imbriani, II, 216, 31G-7 e C. pop. calnhr.,
n. 12; Canale, n. 47; Lombroso, Tre mesi in Calabria, nella liivista con-
teiiipor., dicembre 1863, voi. XXXV, p. 414; Maxdalari, p. 398; Molinaro,
C. p. nap., n. 29.5; Peli.izzari, Fiabe e ca»2. pop. di Maglie, Maglie, Ca-
pere, 83: Marsiliani, n. G61; Xieri, 48,
LA POESIA rOPOLARE ITALIANA. 231
Quattro campano sentirai sonare,
Do picole campane a bassa vose ;
A l'alba ciara mi vedrai passare,
Un morto acompagnado de la erose. (')
Fra le due, la forma intermedia parrebbe esser quella
del Lazio :
Morirò, morirò, non dubitare,
Piìi non la sentirai st'afflitta voce:
A mezzanotte sentirai sonare
'Na piccola campana a bassa voce ;
All'alba già lo vederai passare
Un morto accompagnato dalla croce. ('-)
Anche quest'altri due lugubri Rispetti toscani
si raffrontano a due Strambotti insulari :
Quando sentirai dir che sarò morta.
Ogni mattina alia messa verrai,
Arriverai a quell'oscura fossa,
E l'acqua benedetta mi darai. (^)
E allor dirai : Ecco qui quell'ossa
Di quell'amante che tanto straziai.
Allor dirai : Decco qui il mio bene :
E lui è morto, e a me morir conviene. (*)
Amor, se mi vuoi ben, fammi una fossa,
E portamici dentro a sotterrare ;
In capo all'anno vienmi(^) a veder l'ossa
E fanne tanti dadi per giocare,
E quando sarai sazio di quel giuoco,
Prendi quei dadi, e gettali nel fuoco.
(I) VlLLANIS, p. 39, II. 20.
{-) Marcoaldi, n. 2.3.
(3) Una lezione meridionale : Pigìia me pimin allora d'acqua santa
E benedici la persona mmia: Ijiekian'i, II, .370.
(4) Tigri, n. 1U4.
(ó) Il Tigri legge: vienni e annota vienne, ne vieni. La mia raccolta
nis. e la stampa della Tipogr. Cino leggono: vienmi : però anche il Tom-
maseo, p. 3.50, ha vienni.
232 LA POESIA POPOLARE ITALIAXA.
E quando sarai sazio di giocare,
Prendi quei dadi, e gettali nel mare. (')
A queste lezioni toscane corrispondono le seguenti
siciliane :
Si mortu tu mi voi, fammi 'na fossa,
Mi cci vorvichi intra e ti nni vai ;
All'ottu jorna jioi cci torni apposta.
Tu spinci la balata e truvirai ;
E di la carni mia nni trovi l'ossa,
Fattinni un paro 'i rari, e jucliirai ;
Si alcunu ti nni spia : Di cu' su' l'ossa ?
— Di l'amanti fidili chi lassai. — (^)
0 cara 'manti, scavami 'na fossa,
Ddarivacamicci dintra, e poi vattinni;
E doppu l'annu dùnacci 'na smossa,
Vidi a chi sugnu juntu e prejatinni
Carni nun cci nn'è ccliiìi supra di l'ossa,
Fattinni un paru d'ali, e ghiocatilli. (')
A cu po' ti duinanna, dicci: Ss'ossa
Su" di lu prinui ca 'nvrazza mi tinni. ('')
A questo punto ci sembra opportuno il ricordo
di tre Canti, sparsi in tutta Italia, da tutti i nostri
volghi conosciuti e ripetuti, che però secondo il
Salomone-Marino non altro sarebbero se non episodj
di un Poemetto storico siciliano sopra la Baronessa
di Carini, (^) Noi non ci sentiamo così persuasi, come
il valente amico, della intrinseca colleganza di questi
Canti col poema storico, né ci pare che formino corpo
(1) Tigri, n. 1147.
(-} PiTKÈ, C. popol. sicil., I, n. 301.
(3) Variante in Vigo, n. 3239: JVi fai'npavu di dadi e jocatinni.
(4) PiTKÈ, Ibid., p. 392.
(") Salv. Sai-O.mone-Marino, La Baronessa dì Carini, leggenda sto-
rica popolare del see. XVI in poesia siciliana, Palermo, Pedone, 1873. Vedi
ora anche Moi.inabo del Chiaro, Un canto del pop. napol., (Fciiesta ca
luciv' e rao nu' luce) con varianti e confronti, Kapoli, Argenio, 1881.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 233
col resto per modo, che abbiano a dirsene parte ne-
cessariamente integrante; ma saremmo piìi propensi
a crederli posteriormente e a poco a poco incorporati
e amalgamati, non senza qualche adattamento artifi-
cioso e qualche ripiego, per comporre la narrazione
degli amori infelici di Caterina La Grua; né il fatto
avrebbe in sé nulla di nuovo o di straordinario, per
chi conosca i procedimenti della poesia popolare. (^)
Comunque vada, ecco i tre brani, secondo la lezione
del Salomone-Marino :
Su' chiusi li finestri, amara mia !
Dunni affacciava la me Dia adurata ;
Cchiù nun s'affaccia no, comu sulia,
Voi diri chi 'ntra lu Ietta è malata.
'Ffaccia so mamnìa, e dici: — Amaru a tia!
La bella chi tu cerchi è suttirrata. — (^)
Sipultura chi attassi ! oh sipultura,
Comu attassasti tu la me pirsuna! (^)
Vaju di notti comu va la luna,
Vaju circannu la galanti mia:
(1) Anche la musica, per quel che parmi rilevare dalle parole del
Salomone-Marino, p. 200, non è la stessa in tutti i pezzi della leggenda
e ciò starebbe a conferma de' miei dubbj.
{-) Si confronti cxuesto Canto provenzale:
Ai una mia qu>s malauta,
Sabe pas se serò per ieu.
Chaca fes que troube soun pero
Jeu ie demando couma vai,
Soun péro me respouud pia vite;
— Es guerida de tout soun mal :
Es entarrada à la grand glèisa;
La tèsta toca l'escaliè ;
Metras un pèd dessus sa toumba
E l'autre dessus l'escaliè ecc.
Atger, Poés. pop. en langue d'oc, Montpellier. 1875, p. 22.
(3) Questi sembrano essere due versi di ripieno, fatti per allacciar
colla rima il brano seguente, e che appunto per tal motivo furono ad altri
preferiti dall'editore. Ma essi potrebbero pur dare indizio, e così altri con-
simili, delle acconciature che furono stimate necessarie per collegare fra
di loro i varj brani, e comporne un tutto.
234 LA POESIA POPOLARE ITALL\XA.
Fri strata mi scuntrau la Morti scura,
Senz'occhi e bucca parrava e vidia;
E mi dissi : — Unni vai, bella figura? —
— Cerca a cu' tantu beni mi vulia ;
Vaju circannu la me 'nnamurata. —
— Nun la circari cchiìi, eh' è suttirrata —
E si nun cridi a mia, bella figura,
Vattinni a la Matrici a la Biata,
Spinci la cciappa di la sepultnra,
Ddk la trovi di vermi arrusicata ;
La surci si manciau la bella gala,
Dunni luceva la bella cinnaca ;
La surci si manciau li nichi mani,
Dd'ucchiuzzi niuri ca nun cc'era aguali.
'Nnsignàtimì unni su' li sagristani,
E di la Chiesa aprissiru li porti ;
Oh Diu, chi mi li dàssiru li chiavi,
0 cu li manu scassiria li porti !
Vinissi l'Avicariu ginirali,
Quanta cci canta la me 'ngrata sorti :
Ca vogghiu la me Dia risuscitari,
Ca nun è digna stari ca li morti.
Oh mala sorti, chi mi sapi dura,
Manca vidiri la me amanti amata!
Sagristanu, ti preju un quarta d'ara,
Quanta cci cala 'na torcia addumata;
Sagristaneddu, tenimilla a cura,
Nun ci lassari la lampa astutata,
Ca si spagnava di dormiri sula.
Ed ora di li morti accumpagnata !
Métticci 'na balata marmurina,
Cu qiiattvu ancileddi, una pri cima;
E tutti quattru 'na curuna tennu.
L'occhi a lu cela, e preganu chiancennu ;
E a littri d'ora ci vogghiu untata
La storia di sta morti dispirata.
Diiivulii, ti preju in curtisia,
Fammi 'na grazia ca ti la dumannu,
Fammi parrari cu l'amanti mia,
Doppu a lu 'iirerna mi resta cantaunu.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 235
Lu Serpi chi passava e mi sintia :
— Cavalcami, ca siignu a tò cumannu. —
Hàmu spirita pri 'na scura via,
Nun sacciu diri lu unni e lu quanta.
Jivi a lu 'nfernu, o mai coi avissi andata!
Quant'era chinu, mancu cci capia !
E trovu a Giuda a 'na seggia assittatu,
Cu un libru a li manu clii liggia.
Era dintra un quadaru assai 'nfacata,
E li carnuzzi tini s'arrustia !
Quannu mi vitti, la manu ha allangatu,
E cu la facci cera mi facia.
Eu cci haju ditta: La tempu nun manca,
Ca senza la limosina 'un si campa;
Aspetta tempu, ca rota hi manna,
Sicca lu mari ed assurgi lu fauna.
Ma 'ntunnu 'ntunnu lu focu è addumatu,
E 'n menzu la me amanti chi pinia ;
E nun ci abbasta ca mina lu ciatu,
E di cuntinu mazzamariddia.
Idda mi dissi : — Cori scilirata,
Chisti su' peni chi patu pri tia !
Tanna la porta ti avissi firmatu
Quannu ti dissi : — Trasi, armazza mia ! —
Ed eu rispusi : — Si 'un t'avissi amata,
Mortu nun fora lu munnu pri mia !
Apri stu pettu e cci trovi stampata
Lu bellu nomu di Titidda mia. — (')
Di questo episodio della Leggenda storica girano,
come dicemmo, per tutta Italia, versioni similissime,
distinte l'una dall'altra in tre diversi frammenti :
uno della finestra chiusa, l'altro dell'incontro colla
Morte, il terzo della discesa all' Inferno : O ed è
osservabile che paragonando i singoli frammenti
(1) Op. cit., pagg. 133-138.
{-) Una discesa all'Inferno in cerca dell'amata è anche in un Canto
della Lorena nel Putmaigke, Chants popitl. dii pai/s messili, p. 71. Più bella
è la Canzone di simile argomento pubblicata da W. Smith fra i Chants
'hi Velai/ et du Forez, nella Romania, voi. IV, p. 449.
236 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
colla lezione sopra riferita, essi, anche quando mag-
giormente si sono svolti, appaiono tuttavia meno
infarciti di oziose riempiture, che non nella forma
arrecata dal Salomone-Marino. I versi Eu ci liaju
dittu, ad esempio, del terzo brano, sono un'aggiunta
evidentissima, che forse si conviene all'elaborazione
del Poemetto, ma che non si ritrovano in nessuna
delle lezioni separate, e si direbbero nati da posteriore
congegno dell'insieme. Ma se mettiamo a raffi'onto
quanto di sopra abbiamo trascritto dal verso Vaju
di vottl fino a La storia di sta morti, che formano
ben trentotto versi, con questi altri dodici che, come
Canto in se compiuto, ripetonsi a Palermo e a Par-
tinico, forse si concluderà che dalla forma piìi sem-
plice è stato tratto il primo germe della lezione piìi
ampia e particolareggiata, che indi venne a costi-
tuire il Poemetto narrativo. Ecco, secondo noi, la
lezione primitiva:
Vaju di notti ciiniu va la luna, {')
Vaju circannu la me 'nnanuuata ;
Fri strata mi 'ncontrau la Morti bruna,
— Nun la circari ccliiìi eh' è suttirrata.
S' 'un vo' cridiri a mia, Leila figura,
Vattinni a San Franciscu a la Biata :
Grapi la cciappula di la sepultura,
E ddà la trovi di vermi manciata. —
— Sagri.staneddu, tenimiila a cura,
Tenimiccilla la lampa addumata,
Ca si scantava di dormiri sula,
Ed ora è di li morti accumpagnata. ('j
Anche l'ultimo brano ci sembra piìi semplice, pili
efficace, ]nìi primitivo in un Canto palermitano:
(1) Come principio di altro Canto questo verso trovasi fra i veneziani
anche in Beknoni, puiit. X, n. 25.
(2) Salomone-Marino, C. pop. sici!., n. 540.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 237
■Tvi a lu 'infernu, oh mai ci avissi stata !
Quant'era chimi, mancu cci capia !
Atturnu attiirim lu focu addumatii,
E 'mmenzii cci tiuvai l'amanti mia.
Qiiaunu mi vitti m' ha accarizziatii,
Dicennu : — Ora vinisti, armuzza mia.
Ti l'arrieoidi lu tempu passatu,
Quannu middi carizzi ti facia? — (')
Stimiamo inutile riferire qui tutte le varie lezioni,
che trovansi diligentemente raccolte dall' Imbriani, (")
dal Salomone-Marino O e dal Molinaro del Chiaro (*)
e ci contenteremo delle sole forme toscane :
Finestra che risplendi ed or se' oscura,
Lo vedi, l'amor mio diace malato.
Si affaccia la sorella e m'assicura
Che il mio bene è già morto e sotterrato.
Sempre piangeva che sola dormiva,
Or se ne sta co' morti in comitiva ;
Senti, Pasqualin mio, abbici cura.
Accendi il lume a quella sepoltura. (•')
Vado di notte come va la luna.
Vado cercando la mia 'unamorata;
Trovai la Morte con la veste bruna,
Mi disse: — La tua bella è sotterrata;
Se non lo credi, vattene alla Cura,
Tutta da' vermi la vedrai mangiata. — (°)
;i) Salojione-Maeixo, ibid, n. 167.
{-) Imbriani, C. popol. prov. merUìion., voL II, pag. 253-268. Aggiungi
Imbriani, C. popol. in dialetto titano, n. 1; Amalfi, C ^j. di Sorrento, n. 22;
Pellizzaki, Fiabe e Cam. di Maglie, p. 85.
(3) Op. cit., pag. 221-228. Aggiungi Bernoni, punt. IV, n. .36; Gia-
NANDEEA, p. 158, 165; IvE. p. 218; Mazzatinti. p. 210: Finajiohe, Vocab.,
p. 273 e 181 e Tradis. impol. abruzz., II, n. 349, e la lezione romana in Rie.
lett. popol., p. 22. Cfr. anclie il Canto narrativo La dama morta in Giannini,
C. p. tose. p. .389.
{i) Opnsc. cit.
(5) Tigri, n. 566.
(O) Salomone-Marino, op. cit., p. 216. Altra lezione in Tigri, n. 1112.
238 ^ LA POESIA POPOLARE ITALL\NA.
Sono stato all' Inferno, e son tornato ;
Misericordia la gente che c'era !
V'era una stanza tutt'alluminata,
E dentro v'era la speranza mia.
Quando mi vedde gran festa mi fece,
E poi mi disse : — Dolce anima mia.
Non t'arricordi del tempo passato,
Quando tu mi dicevi: Anima mia?
Ora mio caro ben, baciami in bocca.
Baciami tanto eh' io contenta sia.
È tanto saporita la tua bocca !
Di grazia saporisci anche la mia.
Ora, mio caro ben, che m' hai baciato,
Di qui non isperar d'andarne via. (')
L'ottava che segue direbbesi rifacimento di un
Canto siciliano fatto da mano non incolta:
Benedetto quel Dio clie t' ha creato,
E quella madre che t' ha partorito !
E il padre tuo che t' ha ingenerato ;
Benedetto il compar che t' ha assistito ;
Il sacerdote che t'ha battezzato,
E alla luce di Dio t'ha istituito!
Benedette parole, e quella mano,
E poi quell'acqua che ti fé' cristiano. (-)
Ma ancbe piìi colta era la mano del Giustiniani, che
sul finire del secolo XV, lo rimaneggiava a questo
modo :
Sia benedetto il giorno che nascesti
E l'ora e '1 punto che fosti creata !
Sia benedetto il latte che bevesti,
E il fonte dove fusti battezzata !
Sia benedetto il letto ove giacesti,
E la tua madre che t' ha nutricata !
Cfr. pel Veneto. Gaei.ato, pag. 208, 248. Per 1' Umbria, Mazzatinti, n. 300;
per l'Abruzzo, Finamoiìe, U, ii. 350.
(1) Tommaseo, p. 2G; Tigri, ii. 515. Cfr. n. 258, 514.
(2) Tigri, ii. 25.3.
LA POESIA POPOLARE ITALLANA. 239
Sia benedetta tu sempre da Dio ;
Quando farai contento lo cor mio? (')
Nel Veneto l'ottava è diventata Ninna-nanna di una
madre :
Sia benedeto a l'ora che nassesti,
L'ora e '1 momento che ti ò partorito ;
Sia benedeto '1 late che bevesti
A la tua mama, che t' lia nutricato ;
Sia benedeto '1 prete, e anca '1 compare,
Che t'à tegnùo a la fonte a batizare.
Sia benedeto '1 prete, e anca '1 zagheto,
Che t' ha messo quel nome benedeto ;
E benedeto, e benedeto sempre ;
Sia benedeto a chi te dorme arente.
A chi te dorme arente a ti, putela ;
Fame la nana, che ti è tanto bela. (^)
Veniamo adesso alla fonte sicula :
Binidittu lu Din chi ti creau,
E la mammuzza chi ti parturiu,
E lu patruzzu chi ti ginirau,
Lu cumpari chi a fonti ti tiniu ;
Lu parrineddu chi ti vattiau,
E l'acqua cu li sali ti mittiu;
Biniditta cu' fu chi t'addivau,
Ca t' ha 'ddivatu pri l'aiiuui mia. (')
Né la diversa applicazione di una stessa im-
magine può servire ad offuscare intieramente la
rassomiglianza intrinseca dei seguenti due Canti,
toscano e siculo :
Se gli alberi potessan favellìvre,
Le fronde che son su tossano lingue.
(1) D'Ancona, SiramboUi di Leon. Giustiniani, in Giorn. filol. romumn.
I[, 185. E vedi Sabatini, Alcuni Strambotti di L. Giustin. conservati dalla
tradiz. popolare, Roma, tip. di Roma, 1880, p. 10.
(-) Dal Medico, p. 170. Cfr. una Nanna consimile in Purè, C.popoì.
sicil., II, 63.
(3) Salomone-Marino, n. 3. Ridotta a Stornello romanesco in Blessig,
part. I, n. 116.
240 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
L' inchiostro fosse l'acqua de lo mare,
La terra fosse carta e l'erba penne,
E in ogni ramo ci fusse un bel foglio,
Ci fusse scritto il bene che ti voglio !
E in ogni ramo ci fusse un bel breve,
Ci fusse scritto quanto ti vo' bene. (')
iS^è molto diversamente i Veneti :
Vorave che qu' i albori parlasse,
Le fogie che xe in cima fusse lengue,
L'acqua che xe nel mar el fusse ingiostro.
La tera fusse carta, e l'erba pene ;
La tera fusse carta, e l'erba pene ;
Glie scrivarìa una letera al mio Bene;
Ma chi fusse quel can che la lezesse,
Sentir le mie passion, e no pianzesse? (^)
Ed anche qui ricorre un rifacimento del Giustiniani:
Se li arbori sapessen favellare
E le lor foglie fusseno le lingue,
L'inchiostro fusse l'acqua dello mare,
La terra fusse carta e l'erba penne,
Le tue bellezze non potria cantare.
Quando nascesti, li angioli ci venne.
Quando nascesti, colorito giglio.
Tutti li santi fumo a quel consiglio. (')
(1) Tommaseo, p. 9S, cil ivi altra lozione: Ticei. n. 4S.'!; Nerucci.
p. 191. Altra variante toscana è in Arboit, n. 351, a proposito tlella vil-
letta friulana :
Si lu cil foss tante eciarte
E lì stellis tang nodàrs,
E clie '1 mar foss taiit inggiùstri
E lìs barcis calaniàrs ecc.
Por altri raffronti, vedi G. Giannint, C. pop. htcch., p. 109 n.. e F. Sabatini,
Ale. Stramb. di L. Giustiniani consercnti nelhi trailiz. popoliirp, Konia, tip, ili
Eoma, 1880, p. ti.
(2) Dal Medico, p. 70; Beknoni, piiiit. VII, n. 30 : C'fr. Dal MnDico.
C. popnl. eli C/iiogt/ia, n. 29; Gianandrka, p. 153,
|3) Gioi-n. filol. i-om., II, p. 184. Ma bnrinscamento il Calmo (Ediz.
V. Rossi, pag. xcvi; e vedine parodia bergamasca a pag. 4051 :
Se Bnran e Torcelo fosse carta
E fosso ingiostro i nostri canali
LA POESIA POPOLARE ITALL\XA. 241
Or è curioso che questa immagine che ricorre da
tanto tempo (^) in tante letterature e presso tanti
popoli, C"^) in Sicilia sia volta a significazione reli-
giosa :
Si Tinca fusai hi mari supranu,
Lu celli ccii la terra fussi carti,
L'ancili 'ncelii e hi munnii supranu,
E Toma 'nterra, la natura e l'arti ;
Si ogni omu milli nianu avissi,
Ed ogni manu milli pinni e carti,
Scriviri di Maria mai non putissi
Di li grazii so' la quinta parti. (^)
Ma probabilmente questa è forma secondaria: ed
il Canto siciliano che avrebbe servito di modello
alla trasmutazione in senso spirituale, e alle imi-
tazioni peninsulari, potrebbe esser questo, che il
Anche i pontili che xe a Santa Marta
Si diventasse pene e caramali,
Si fosse man le botarghe da l'aita
E che vegnisse lengue i cascavali
E ogni sasso fosse compositoi-,
No scrivaria zo che m"ha fatto Amor.
E meglio il Guaeini, l'astor fido, V, 2:
Se tante lingue avessi e tante voci
Quanti occhi ha il cielo e quante arene il mare.
Perderei tutto il suono e la favella
Xel dire appien le vostre lodi immense.
(1) Xel sec. XVI è già in una specie d'incatenatura del Jfe;ion vicen-
tino : v. LoVARisi, C. p. in Ruzzante, p. .35.
(-) V. l'art, di R. Kohler, Und tvenn der Iliminel uai- Papier, nel-
r Orieiìt u. Occident, II, .546. Aggiungi un Canto grecanico di Soleto nel
Morosi, n. 148, e un muto sardo in Bellorixi, Sagijìo di Canti pop. nuoresi,
Bergamo, Cattaneo, pag. 2.5. Anche in Spagna (F. R. Maein, II, p. 266) :
Si la mar fuera de tinta
Y el ciel fuera papel.
Xo se podria escribir
Lo mucho que es mi querer.
1=) Vigo, n. .3297. Cfr. anche n. 3944.
D'AxcoxA, La poesia pop. Hai. — 16
242 LA POESIA POPOLARE ITALL4.yA.
Salomone-Marino, trae da un manoscritto, forse di
fonte piìi antica, ma datato del 1735:
L'arbuli si putissinu parrari,
Si tutti li fogli so forano lingui,
P'inga chi fora l'acqua de hi mari,
E la terra pi carta e l'erba pinni,
La to bellizza min si puria cuntari ;
Bella, tanta bellizza lindi ti vinni?
Ca certu è cosa da iiiaravigliari.
Din stissu irci in cela hi disinni. (')
Corrispondono fra loro tutte queste altre ver-
sioni di un Canto diffusissimo, anche quando le une
pajono più dalle altre allontanarsi. In Toscana:
Il Lunedì voi mi parete bella,
E Martedì che mi parete un fiore;
Il Mercoldì che siete un fior novello.
Il Giovedì un bel mazzo di viole ;
E Venerdì che siete la piii bella,
Il Sabato che siete un fior fiorito.
E poi vien la Domenica mattina.
Par che siate una rosa in su la spina.
Si torna al Lunedì dell'altra volta ;
Siete una rosa in su la spina colta. (")
E in bocca di donna :
Siete piii bello il Lunedì mattina,
Massimamente Martedì vegnente :
Mercoledì una stella brillantina,
Il Giovedì uno specchio rilucente ;
Il Venerdì un mandorlo fiorito.
Il Sabato più bello che non dico.
S'arriva alla Domenica mattina:
Mi parete figliuol d'una regina. (^)
(1) e. p. sicil. trascritti nei sec. XVI, XVII e XVIII, in Ardi, tradiz.
popol., I, 356: e vedi altre lezioni riferite a pag. 368.
(2) Tigri, n. UT.
(3) Tigri, ii. 222.
LA POESIA POPOLARE ITALL\XA. 243
Alla lezione toscana si accostano quelle di altre
Provincie, e prima questa della Sabina:
Quanto sei bella Lunedi a niatina,
Ma sei più bella il Martedì seguente ;
E '1 Mercoidì me pari 'na regina,
E '1 Giovedì 'na stella rilucente:
E '1 Venerdì 'na rosa senza spina,
Lo Sabato sei bella veramente;
La Domenica poi quando t'adorni.
Pili bella sei de tutti l'artri giorni, i^)
E nelle Marche :
Quante sì bella il Lunedì mattinai
Mascimamente il Martedì seguente ;
Lu Mercurdì me pare 'na bambina,
Lu Giovedì 'na stella rilicente ;
Lu Venardì 'na rosa damascbina,
Lu Sabbate sì bella veramente.
La Demeneca può' quanne te veste,
Ecche la Pasqua cben tutte li feste ;
La Demeneca può' quanne t'adorne,
Ecche la Pasqua chen tutte li fronne. (-)
A Venezia :
Bela, che di Domenica sei nata,
De Luni siete stata a l'arcipresso.
De Marti siete una rosa incalmata,
De Mercore te onoro, bel viseto :
De Zoba siete una rosa odorata.
De Tenere te tegno scrita in peto,
De Sabo no' me fare la ritrosa.
De Domenica sei mia cara sposa. (^)
Le versioni sicule che ci sono note si allontanano
dallo schema comune di rime :
(I) De Nino, pag. 11. Cfr. Maecoaldi, C. pop. umbri, n. 42. e Guida
di Fabriano, p. 184, n. 8-5.
(•) GiANANDREA, pag. 67 ; Pigokini-Beei. p. 48. Cfr. in Maecoaldi,
C. pop. liguri, n. 9, una lezione toscaneggiata del genovesato.
(3) Dal Medico, pag. 65. Cfr. Villanis, XXV Stramb., n. 14.
241 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
Bedda, ca di Duminica nascisti,
Lu Lìmidi ti jisti a vattiari.
Lu Màrtiri nascerà ssi to' trizzi.
Lu Mercuri ti jeru a crisimari :
Lu Jòvidi sparmaru ssi biddizzi,
Vènniri ti jìttasti a caulinari ;
La Sabbutu a tò niatri cci dicisti :
— Matri, quannu ni'aviti a mavitari ? (^)
Bedda, ca la Duminica si' fata,
Lu Luni si' 'na Dia di Paradisu,
La Marti siti n'anciLa caLata,
Lu Mercuri straluci lu tò visu,
Lu Jovi siti 'na lucenti spata,
Lu Venneri vi stati 'nfesta e risa,
Lu Sabitu, eh' è l'urtima jurnata,
Mureniu, e ninni jeniu 'n Paradisu. (^)
Forma intermedia si direbbe questa del Principato
Citeriore :
Quant' ti vidiv' beli Luniddi matin' !
Cchiù bell'assà' lu Martidì siguent',
Lu Carmin' mi parivi 'na rigin',
Lu Giuvidì 'na steli' d'urient',
Lu Vanard'i 'na ros' senza spin'.
Lu Sabbet' 'na Dea verament'. (^)
A questi Canti si direbbe che fondamento e ra-
gione principale sia l'enumerare i giorni della set-
timana, (*) come anche ai seguenti. Odasi il Rispetto
toscano :
(1) Salomone-Marino, n. S2.
(-) Vigo, n. 103 ; cfr. Fixamoee, Vocab., p. 294. In Piteè, Canti iiop. siti!.,
Prefaz. p. 14!. l'ultimo v. ilice: Cu' si ciirca cu tia va 'm l'aradisu.
(,3) Imbkiani, C. pop. proc. ììierid., I, 71; cfr. uno beneventano in Co-
KAZZINI, p. 34'2; uno molisano in Molinako (J)-c7i. irarf. pò/)., XII, 394); uno
greco di Soleto in Morosi, n. 147. e in Ast. Pelleokini, Nuovi saggi romaici
in Terra d'Otranto (Suppl. Ili tioWArch. gioito!, ital., p. 33, n. LUI).
<) (.'oine ad es. nel Canto popolare di Provenza: Ais rescountrat ina
mio, in AiiiiAUD, I, 170. Enumerazioni dei giorni della settimana vedi an-
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 245
La bella donna che lia perso la rócca,
E tutto il Lunedì ne va cercando,
Il Martedì la trova mezza rotta,
Mercoledì la porta rassettando;
Il Giovedì le pettina la stoppa,
Il Venerdì le' la va incanoccliiando :
Il Sabato si liscia un po' la testa.
Domenica non fila, perdi' è festa. (')
Né molto diversamente si canta in Piemonte, (^) a
Venezia, (^) nell' Istria, ("') nel Trentino, O nel La-
che iiell" Imbriani, Canti popol. prov. mericl., I, 72. L'n Canto di impreca-
zione da malattia a raoi'te, giorno per giorno, in Gianandrea, p. 243, e
FuoRTE, C. p. di Giuliano, n. 76: e una distribuzione dei giorni della set-
timana secondo la qualità degli innamorati, in Corazzisi, Poes. jtopol. di
Caprese, Sansepolcro, 1883, p. 9. Nel giornale il Boi-fjhini (III, 329) trovo
questa antica burlesca enumerazione: Tu gli ha' avere, È ben dovere; lo gli
ho a dare, Ti vo pagare; Lunedì vieni per essi. Martedì saran gli stessi,
Mercoldì tu gli aeerai, Giovedì riscoterai. Venerdì vieni a buon ora, Se no.
Sabato all' istess'ora ; Se Domenica 'uri V ho pagato. Lunedì torna da capo;
che con leggiere varianti si cantava ancora a Livorno un trenf anni
sono.
(1) Tigri, n. 1185. Cfr. Amalfi. Villanelle di S. Valentino, n. 94. Altra
lezione toscana è nel Giuliani, Moralità e poes. del ling. tose, pag. 178.
dov' è anche una terza lezione in altro metro. Analogia di soggetto con
questo Canto ha una Canzonetta comasca sui Calzolari recata nel Bolza,
n. 45, e un'altra, ma evidentemente monca, perchè non procede oltre il
tetrastico e la menzione del Giovedì, in Bernoni. Xuovi C. popol. renes.,
p. 21. Una Canzone popol. francese dice dei tessitori che du hindi, ils en
font une féte, Et le mordi ils vont voire les fillettes... Le inercredi ils grais-
sent des galettes.... Le jéhueudi ils ont mal à la téle.... Le vendredi ils bran-
lent la navette.... Le samedi la toile n'est point faite ecc. (Eev. des tradii,
popid., X, 99^. Curiosa è la Semaine de la niariée : Dimandi' Je fus à l'as-
sembìé, Là, comme je fus regardée ! Le hindi je fus demandée.... Le mardi
je fus accordée, Le mercredi je fus fianrée.... Le je.udi je fus mariée....
Le vendredi j' fus bàtonnée.... Le samedi j' fus divorcée.... Et v'ià ma semaine
hien passée {B.OLi.AìiD, Becueil de C7ia««. joojjk?., Paris, Maisonneuve, I, 172).
Vedi anche la Malusine, I, 78, 126,219.342. Ma è superfluo citar altro, dac-
ché le forme e gli adattamenti svariati che ha assunto l'enumerazione dei
giorni trovansi raccolti da V. Imbkiasi nelle note alla l'osilecheata di
P. Sarnelli, Kapoli. Morano, 1885, p. 148 e segg., e ora più ampiamente da
G. Giannini, nel Niccolò Tommaseo, l, n. 7-8: I giorni della settimana nella
Ietterai, popolare.
i?) Kigra, p. 484.
(3; Bernoni. punt. IV, n. 75; Garlato, p. 461; Caliari. p. 216.
W Ive, p. 245 ; ViLLANiS, XXV Str. zarat., 16.
(^) Bolognini, Usi e cast, del Trentino, Rovereto, Sottochiesa. 1892,
pa„'. 62.
246 LA POESIA POPOLARE ITALLINA.
ZÌO, (^) nell'Umbria, C) nelle Marche, O nella Ro-
magna, (*) in Terra d'Otranto e in altre provincia
del Mezzogiorno, (^) finché si viene alla lezione si-
cula:
La Duniinica persi la cunocchia,
Tutto lu Limi hi bivi circannu,
Lu Marti la truvavi tutta sciusa,
Lu Mercuri la vosi scunucchiari
Lu Jovi scarminai tutta la stuppa,
Lu Venniri mi misi a 'ucunuccliiari,
Lu Sabitu cridia filarla tutta,
Vinili la festa, e non la potti fari. C^)
Singolari mntazioni di forma, ed anche di par-
ticolari, ha avuto il Canto, del quale ora diremo.
Il quale in Toscana si è rattratto, a dir così, in uno
Stornello :
Se il Papa mi donasse tutta Roma,
E mi dicesse : Lascia andar chi t'ama,
Io gli direi di no, sacra Corona. C)
E anche nella Sabina mantiene forma di Stornello:
(1) Maesiliani, n. 94.
('-) Mazzatinti. 11. 51.
(■■') GlANANDREA, p. 172: RONDINI, p. 18.
(<) Vedi la canzone antica ma tuttora vivente, della Lavurina, in
FEKRAni, Bihl. lett. pop., I. 2.t7.
(.0) Imbriani, C. pop. pi-oi\ ìuerid., I, 72; Amalfi, LV VillaneUe rac-
colte in S. Valentino, Napoli, Priore, 1888, p. 62; Finamore, II, 12.5; Coraz-
ziNi, p. 360-64. Cfr. uno greco di Martano, in Morosi, n. 63.
('') Vigo, n. 4448. Al terzo v. direi che debba correggersi sciiisa in
rutta. — Nell'uso, l'ottava è ridotta a più brevi versi. In Toscana: Lunedì
lunediai (lunediare indica l'appendice della festa domenicale, propria ad al-
cuni mestieri, per es. ai calzolaj, ai cappellai ecc., e in generale a opemj
poco volenterosi) Marted) non lavorai, Mercoldì persi la rocca, Giovedì la
ritrovai, Venerdì l'incannocchiai. Sabato mi doleva la testa E Domenica è
festa : che in Romagna è : Lunedé a pers la rócca, Martedé an fé' 'ngotta,
Merquel a la zercó, Giovedì; a la triiró, Vene)' a l'inrucó, Sahat aiìnniò la testa,
Perchè Dmilnga l'era festa.
(') Tigri, Storn. ii. 137. Ne ho parecchie varianti toscane, dove i
nomi che ricorrono sono Arezzo. Firenze, Barberino, ecc. : cfr. Mazza-
tinti, n. 94.
LA POESIA POPOLARE ITALLA.NA. 247
Se i] Papa me donasse lo cappello,
E '1 Principe Borghese lo cavallo,
Non te potria lascia', core mio bello. (^)
E così pure fra' Piceni :
E se venisse ro Papa de Roma,
E me dicesse : Lassa auda' chi t'ama ;
E non ro posso fa', sagra Corona. (-)
Nel Lazio ci apparisce come tetrastico :
Se il Papa mi donasse tutta Roma,
E il Principe Borghese l'Amentana,
E mi dicesse : Lascia andar chi t'ama,
Io gli direi di no, sacra Corona. (^)
E tetrastico preceduto da distico, e seguito da ri-
tornello a Napoli :
'Nt' a 'stu pietto mmio ne' è 'na capanna,
Viennece, ninno mmio, a tfa' "sta nanna.
Si nce venesse chillo Rre de Spagna,
Mme dicesse: Brunnottella, io a te boglio.
Io mme votarrìa : Re, vattenne a Spagna,
Nun cagno a ninno mmio ppe' nu regno.
Uno vene e 'n'auto vene.
Tutti a mme mme vonno bene. (^)
Tre tetrastici si direbbero uniti nel Canto veneziano:
El grando Turco m'à manda a ciamare,
Assiò che t'abandona, anema mia ;
No te abandonaria, zentil mia dama,
Gnanca s'el me donasse la Turchia;
Se i me donasse Franza co Parigi,
El nobile castel de Mont'Albano,
(1) De Xino, p. 29 : v.irj Stornelli romani in Corazzini, p. 271.
(2) GiANASDEEA, p. 118; EoNDi.M. p. 12. Per la Eomagn.i, vedi Pee-
GOLi, n. 186.
(3) Makcoaldi, C. p. lat., u. 30. Ma ha forma di tristico nel Blessig,
part. I, n. 14. 58 e 101, e nel Nannaeelli, p. .32.
;<) Imbriani, C. pop. jirov. merid., II, 349; ofr. JIolixaeo, C. j^op. eli
Meta, n. 22, e C. pop. napol., p. 185.
248 LA POESLA. POPOLARE ITALL\NA.
La rica ciesa de Santo Luigi,
Co tuto lo tesoro veneziano ;
Se i me donasse una baicheta e un toro,
Pelo per pelo una peza de pano,
Se i me donasse anca un monte d'oro,
La Zeca, l'Arsenale e '1 Bu(^intoro. (')
Qui la menzione di Parigi ci fa risovvenire la rieille
cìumson di Alceste nel Misantropo :
Si le Roi m'avoit donne
Paris, sa grande ville,
Et qu'il me fallùt quitter
L'amour de ma mie,
Je dirois au Roi Henri :
Reprenez votre Paris ;
J'aime mieux ma mie, oh gay,
J'aime mieux ma mie. (^)
Più si allontana dalla forma comune la lezione si-
cula, die originariamente dovè constare del solo
secondo tetrastico :
(i) Beenoni. punt. IV, n. 26; Dal Medico, p. 23, dove in nota è pur
recata in forma di semplice Stornello ; Garlato, p. 288.
(-) Att. 1, se. 2^. Cfr. con alcuni poeti antichi italiani, citati dal Kan-
NUCCi, Manuale, l, 131 : per es., Mazzeo Ricco:
Che se tutta Messina fosse mia
Senza voi, donna, niente mi saria.
Jacopo Pugliese :
e anche :
Il re Giovanni :
Se in mia balìa avessi Spagna e Pranza,
Non averei sì ricca tenuta;
Se fosse mio lo reame d'Ungheria,
Con Greza e Lamagna infino in Fransa,
Lo gran tesoro di Santa Sofia,
Kon poria ristorare sì grande perdanza.
(Rime del cod. vatic, I, 379).
Me" mi tegno per pagato
Di Madomia,
Che s" i' avessi lo Contato
Di Bologna,
E la Marca e lo Ducato
Di Guascogna ecc.
LA POESIA POPOLARE ITALLANA. 249
Vitti vinili a Tuiidda di fora,
C'un cavadduzzu russu chi vulava:
Sutta li me' finestn e li balcuna
C'ua fazzulettu all'occhi lagiimava.
S' iddu venissi un Re cu la cuiuna
Mi dicissi : Ti vogghiu 'ncuiunaii,
Eu senipii cci dicissi 'na paloia:
— Yogghia a Tiividdu, nuii vogghiu cuiuua. f')
La menzione del Papa e della sua proposta all' in-
namorato ci reca a mente un altro copioso gruppo
di Canti, C) variati alquanto l'un dall'altro, ma nel
fondo identici, dove si contiene una risposta del Papa
stesso, che talora però diventa semplice confessore.
Cominciamo dai tetrastici. In Toscana si canta:
r andiedi a Roma e mi fu' confessato,
E dissi : Padre, a una donna vo' bene ;
E lui mi disse : Vo' fate peccato,
Amar la donna d'altri non conviene. (^)
In Piemonte :
Sun stai ai pe' del pader confessure,
r ho ditt ch'a j' ho basa la me' signora :
Oh, fat an sa, me car, eh' a 't benedissa,
La basrèiva anca mi, se glie l'avissa. (*)
Ovvero
Sun stat a Roma a cunfessem dal Papa;
1' ho ditt' se fé l'amure l'è peccatu.
Al Papa l'ha rispost eh' l'è gnanc vergogna,
L'amure l'è 'na cosa che bisogna. {')
(1; Salomone-Marino, n. 338; Vigo, n. 1818. Cfr. con Pitrè, C.pojtoì.
sìcil., I, n. 31 : £ si Falermit mi sarrìa annutatu Nun cangiassi 'n' amanti
cumti tia.
(-) Vedi curiosi raffronti in F. Rodbiguez Makix, Juan del Pueblo,
Historia amorosa popular, Sevilla, 1S82, p. 59.
(3) Tommaseo, p. 382; varie lezioni in Finamore, II, 67.
(*) Maecoaldi, C. pop. piemont., n. 19.
(5) Id., n. 10. Cfr. n. 4; Ferraro. Canti popol. del Basso Monferr.,
n. CXXX; KiGEA, p. 577.
250 LA POESIA POPOLARE ITALLLN^A.
In Liguria :
Sun s' taf a Riimma, e col Papa j' ho parlata,
r ho dice' se a fé l'amur se l'è peccata:
M'ha dice' ch'u n'è peccata, e cosi sia,
Bas'ta te l'amar cu 'na bella fia. (^)
A Verona :
Son andà a Roma a dimandarghe al Papa
Se a far l'amor se fa nessun peccato :
È salta fora un padre dei più veci:
Fé pur l'amor, che siestu benedeti ! (")
In Lombardia:
Mi sono stato a confessam dal Pappa,
Gh' hoc dito che ho basaa la mia morosa:
El m'ha risposi: Te flisset benedett,
La basarla anch' mi, se ghe l'avess ! (^)
Varia forma e diversità lievi di sostanza hanno
questi altri Canti : e primo il Sabino :
So stato a Roma per grazia de Dio,
E r ho veduto lo Papa assettato.
E gliel' ho detto: Santo patre mio,
Perdonami, eh' io sono 'nnamorato.
0 tìglio, figlio, te perdoni Iddio,
Che dalla parte mia t' ho perdonato. (^)
A Napoli :
Jammo, ninno mniio, jammonce a Roma,
Jammo a vasare li pieri a hi Papa,
Sempe dicenno : Santo Papa mmio,
Perdonarne se stonco 'nnammorato.
Esso se vota : Te perdona 'ddio,
Si è pe' mme, io faggio perdonato;
E si non fosse santo Papa io
Sarrìa de li primmi 'nnammorati. (^)
(1) 3IARC0ALDI, C. pnpoì. ìig,, 11. d'i.
(2) KiGHi, 11. 11; Calzari, p. 22.3.
(3) IsiBRlANl, e. popol. di SoDDiia Loiiiì/arda e Varese, p. 191.
(<) De Nino, p. 20; cfr. Filippini, Folklore fabrian., u. 2.3.
(5) I.MBRiANi, C. pui>. proc. iiierid., II, 385 e Severini, ii. CVI. Vedi ivi
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 251
Al Papa, come dicemmo, spesso si sostituisce un pre-
dicatore 0 altro sacerdote: Nella Liguria:
La primma votta che 'in sun cunfessatu,
Sun cuufessa da iin padre giovinetti! :
La primma cosa ch'u m'ha diimandatu,
U m'ha dicciu s'a sun annamuratu:
E mi j' ho dicciu : Padre, nul sun pocco,
E lu sun tantu che nun trova lecco :
E le' u m'ha dicciu: Vattene cun Diu,
Di ques'tu mal ne pecca ancura ia. (')
Nelle Marche :
So' stata a Eoma e me so' confessata
Da un padre capacci' predicatore : ('^)
La prima cosa che m'ha dimannata;
M' ha dimannato si faceo l'amore ;
Io j' ho risposto : Padre mio devoto,
Faccio l'amore, ch'io non trovo loco;
E lu' me disse: Fija disgraziata,
Si non lassi l'amor, sarai dannata.
Io j' ho risposto : Padre confessore.
Prima dannata, eh' io lassi l'amore ;
E la' me disse : Va in nome dei santi,
Va a fa' l'amor, che lo fa tatti quanti ;
E la' me disse : Va in nome de Dio,
Va a fa' l'amor, che lo faccio ancor io. (")
In Toscana :
La prima volta che mi confessai
Mi confessai da un Predicatore.
La prima cosa che mi domandasse,
Mi domandò se facevo all'amore.
altre varianti meridionali, e altri Canti sul tema della confessione, come
anche in Molinaro, C.p. napol..y. 201; Mandalari, p. Ió2, Diverse lezioni
in CoEAZziNi, p. 290 e in Filippini, in Arch. traci, pop., XVI, 81.
(') Marcoaldi, C. popol. liguri., n. 70.
(2) Nella lezione pur marchigiana data dal Rondini, p. 7, il confes-
sore ha un nome: Soìi stata a Eoma e ini son confessata Del padre fra Fran-
cesco Cipolloni.
(3) Gianandrea, p. 156 e vedi altra lez. antecedente : cfr. Molinaro,
C. p. di Meta, n. 7, e C. p. napol., p. 204; Mazzatinti, n. 339.
252 LA POESIA POPOLARE ITALIAXA.
Ed io gli dissi : — Padre mio diletto,
Faccio all'amor con un bel giovinetto. —
E lui mi disse : — Fanciulla garbata,
Lascia l'amor, se no sarai dannata. —
Ed io gli dissi : — Padre confessore.
Prima dannata che lasciar l'amore. —
E lui mi disse; Vattene co' Santi....
Ma son pene d'amor, le provan tanti;
E lui mi disse : Vattene co' Turchi....
Ma son pene d'amor, le provan tutti;
£ lui mi disse : Vattene con Dio.... '
Ma son pene d'amor, le provo anch' io. (')
A Venezia :
So stata a Cioza a tor el giubileo,
M'ò confessato dal padre priore:
La prima cossa che '1 m'à domandato
'L m'à dito: Figlia mia, fastu l'amore?
E mi go dito: Padre confessore.
Tende i pecati, e no tende l'amore.
— Ma, figlia mia, questo no xe pecato :
Sibeu so fratacion, so inamorato.
Inamorà su 'na cagna giudea,
Ch'à rinegata la fede cristiana ;
El padre turco e la madre pagana,
Gnanca la figlia no è vera cristiana. (^)
E nell'Istria :
Sun statu a Ruma, e i' me son cunfessato.
Go deito che a oùna poùta i ghe vuoi bene,
E l'où m'no deito : Feilgio, i' sjì danaio.
Ama li poùte d'altri nu' cunviene.
E mei gh'iè deito: Padre cunfessure.
Tendi a la Gesia, e mei tendo a l'amure.
E mei gh' iè deito : Padre meio biato.
Tendi a la Gesia, e mei tendo al pecato. {^)
(1) Dalla mia raccolta ms., cantatomi da donna di Cevoli nelle colline
pisane. Altra lezione pisana in A. Giannini, n. 45.
(2) Bernoni, punt. IV, n. 21 ; Gaki.ato, p. 318.
(3) IVE, p. 228 : cfr. Villanis, p. 38.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 253
Ma i due motivi principali, della confessione al
Papa, e del perdono colla singolare penitenza, si
trovano, come del resto in altre versioni su riferite,
in questo Strambotto siciliano :
Vinili un picciottu a Roma cunfissatii
Pi-i valivi a 'na donna stiemu beni :
Lu Papa dissi: Figghiii, si' addannatn,
Amari donni d'autni nun cunveni,
Patri, cci cuntu tutta lu passata :
Idd' avi lu me' cori, e si la teni.
E quann' è chissu, ti sia pirdunatu :
Pri pinitenza vògghiala ccliih beni.(')
Non Uguali in principio, ma evidentemente iden-
tici nel rimanente sono questi altri Canti di altro
argomento. In Toscana :
Non ti ricordi, turca rinnegata,
Quando t'amavo e ti portavo amore?
11 vino (^) mi pareva acqua gelata.
La neve mi parea rose e viole.
(1) Salomone-Maeixo, 11. 346. Cfr. varia lezione in Vigo, n. 174.3, dove
i V. 5-6 dicono :
S' adunca, patri, chi mora addannatn
E mi ni vaju a li seurusi peni ?
Altra lezione in Pitkè, C. popol. sicil., I, n. 84, finisce :
Cliistu ppccatu ti l'assorvu in,
Cà amavi donni d'autru "un è piccati!,
E si nun fora Santu Papa iu.
Meggliiu di tia farria lu 'nnamuratu.
Secondo il Pitkè. Studi di poes. popol., pag. 212, il Canto, con qualche varietà
(cfr. Salomoxe-Maiìino in Arch. tiad. popol., I, 378; sarehbe di origine let-
teraria, e in tal forma sonerebbe :
Vegnu di Roma e sugnu cunflssatu
D'una donna ch'amava e viil'ia beni;
Lu cunflssuri mi dissi: E piccatu ;
Amari donna d'autru nun cunveni.
Iu ci rispusi : Patri, su" furzatu,
Lu miu cori 'n putiri idda lu teni.
Iddu mi dissi: T'aju pirdunatu:
Pri pinitenza. vogghila chiù beni.
(-) Evidentemente deve dir pioggia, come nelle altre lezioni.
254 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
I tuoni mi facean l' inserenata,
E le saette arrallegiare il cuore;
Mira, bellina, se tu ti lamenti !
Ho perse le nottate all'acqua, ai venti ! (')
A Venezia con somiglianza anche nella mossa
Se ti savessi, falsa e rinegata:
Le pene che ò patio per '1 tuo amore !
Quando ti gieri in camara serata,
E mi meschino fora a le verture !
La piova me pareva aquu rosada, (^)
I lampi me parea segni d'amore ;
E la tempesta me pareva pomi.
Quando che giera soto i toi balconi. (^)
Or ecco una delle lezioni siciliane:
Tu non ci pensi, leta maritata,
Quannu mi dasti lu pumu d'amuri :
Erutu ccu l'amanti arripusata.
Ed iu ddà fora ca cuntava l'uri ;
La nivi mi paria entra lavata,
Li petri matarazzi di cuttuni,
Lu lampu mi parìa torcia addumata,
Lu truonu mi parìa suono d'amuri,
E l'acqua ca currìa 'ntra dda nuttata
Tutta mi l'accittavi pri tò amuri. (*)
Vedasi anche il canto seguente :
Mamma, non mi mandate fuori sola.
Son piccolina e non mi so guardare:
Vi è un bel giovanottino alla mia scuola.
Che mi ha promesso di volermi amare.
(1) Tigri, n. 889.
(2) Sulla frase acqua rosa o rosada nei Canti jiopolari italiani, vedi
Lizio-Bruno, C. popol. Isol. Eoi., p. 61.
(3) Bernoni. punt. VII, n. 32. Cfr. Dal IVlEnico, p. UC; Ai.verÀ.ii. 4
Caliari, p. 257; PASf;UALloo, li. 18; Gari.ato, p. 207, 38U; IvE, p. 207.
(4) Vigo, ii. 1237. Cfr. n. 1238; Lizio-Bruno, C. pop. Isol. Eoi., n. 50
GuASTELLA, n. 150; P. GioROi ed altri, Per nozze Chiarini-Perroni, Roma
1892, lezione romana in JUv. lett. popol., I. 26. Nel Bruzio di V. Radula
Napoli, Testa, 1878, p. 310, v'ha questa lezione calabrese: 7'i(fla atanotti
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 255
E mi ha promesso di darmi un bel fiore ;
Lo vo' portai- dalla parte del cuore,
E ha promesso di darmi una viola:
Mamma, non mi mandate fuori sola.
E m'ha promesso darmi un gelsomino:
Lo vo' pigliare perdi' è graziosino. (')
e si confronti con questa lezione latina, nella quale
evidentemente al tetrastico sostanziale si è accodato
uno Stornello:
Mamma, non mi manda' per l'acqua sola,
Son piccolina e non mi so guardare:
Un giovinotto che viene alla scuola
Me l'ha giurato che mi vuol baciare;
Giovinettuccio, non me ne fa' tante,
Son piccolina e me lo tengo a niente,
E un giorno me le paghi tutte quante. (''')
Una reminiscenza ve n' ha nel tetrastico marchi-
giano :
0 Mariuccetta, mammeta te chiama.
Non vóle che ce vai per l'acqua sola;
E se ce vai te porti la cagnola.
Moccicherà a chi tocca la padrona. (^)
Ma pili compiuta è la lezione recanatese :
— Mamma, non mi mandar per l'acqua sola,
Son piccioletta, e non mi so guardare ;
Un giovinetto che vien dalla scuola
Me l'ha giurata che mi vuol baciare. —
— 0 figlia mia, non aver paura,
Che un bacio d'uomo non guasta ventura. —
— 0 mamma mia, e non ti sa vergogna
Veder un uomo a baciare una donna? —
a na scala ho dormntn, L'arqna e In vienfii mi e' ha perraniatu (sbnt.ic-
chiato), Ma u vieniti mi paria In Ina saìutu E l'acqua mi paria acqua rosata.
(1) Livi, C. popol. pratesi, p. 14.
(2) Marcoaldt, C. pop. hit., n. 7. Cfr. Mazzatinti, ii.34; Finamoee,
IL 112.
(3) Gianandrea. p. 160.
256 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
— 0 figlia mia, e non ti fa peccato
Vedere un giovinetto appassionato? —
— 0 mamma mia, ti possa abbraccia '1 foco
Perchè l'onore mio ti piace poco. (*)
Assai più ancora se ne ritrova nel Canto istriano,
in che, come nel recanatese, si è innestato al resto
anche il famoso proverbio boccaccesco :
r vago a l'acqua senza li stivali,
r son in pisca ile bagnarne i peie ;
Siura mare, nu' me mandi sula.
Che oùn giuvenito me vureìa tradeire.
E cara feìa, nu' te ciìi pagoiìra.
Buca basada nu' pierdo vintoura :
E cara feìa, nu' te ciù suspieto,
Buca basada nu' cajo in desieito. (^)
Ma intera, come al solito, è la versione insulare:
Mamma, non mi maiinati all'acqua sula,
Ci su' picciotti e mi fannu spagliar!:
Ppri strada mi cadiu la tuvaggliiola,
E un giovineddu mi l'appi a pigghiari:
E poi mi dissi: Ch'è ghianca ssa gula.
Un vasuneddu ci vurrissi dari :
Si ti 'ngagghio a vanedda sula sula,
Tutti li santi t' he fari cliianiari. (^)
Neppure nel seguente esempio le discrepanze
nascondono interamente T identità primitiva. In To-
scana, adunque, così si canta:
So' innamorata di due giovinetti,
Uno di due, non so qual mi pigliare :
Quel più piccino mi pare il più bello,
(1) Leopardi, C. pop. recanat., ii. 11.
(2) IVE, p. 241.
f}) Vigo, ii. H71. Nella lezione abruzzese recata dal Finamore, Vocah.
p. .304, il luogo ove va la fanciulla è la taverna, e il seduttore il taver-
na ro.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 257
Quello più grande noi posso lasciars: (')
A quel piccino gli ho dato la vita,
A quel più grande la palma fiorita.
A quel piccino gli ho donato l'alma,
A quel più grande una fiorita palma;
A quel piccino gli ho donato il core,
A quel più grande un mazzo di viole. (^)
Cangiati i giovanetti in fanciulle (^) e il due in tre,
si ha quest'altro Canto :
In questo vicinato delle belle
Beato chi ci puole navigare !
E ce n'è tre che paiono sorelle,
E fanno al nasto dello innamorare.
So' innamorato di quella più grande,
Riluce quanto il sole alle montagne ;
So' innamorato di quella mezzana,
Riluce quanto la stella diana:
So' innamorato di quella piccina,
Riluce quanto il sole alla marina. C*)
Cosi ci si avvicina maggiormente alle versioni si-
ciliane :
Tri picciutteddi chi vinni a vidiri
Tutti tri m' haunu fattu 'nnamurari ;
La granni è bedda, e nun la pozzu aviri,
La mizzaredda nun mi pò mancari;
(1) In Spagna (R. Makin, II. 160):
Un alto y un pequeiìo
Rondan mi calle;
El alto se parece
Al sol que sale.
Pero el pequeno
Se parece a la luna
Del mes de Enero.
[^) Tigri, n. 337; cfr. Rondini, p. 21. Cfr. per altri Canti sull'amore
per due sorelle, Imbriani, C. pop. proc. meriti, I, 1-8; IvE, pag. 133; Mar-
coaldi, C. pop. lig., n. 49 ; Canale, n. 18.
(3) Come in Marcoaldi, C. popol. picen., n. 29, e C. popol. lat., n. 43;
Garlato, p. 239-47; A. Giannini, n. 20; A. Percoli, n. 404.
(4) Tigri, n. 328. Cfr. per Tamore di tre sorelle. Altera, ii.49; Dal
Medico, p. 38, nota 3.
D'Ancona, La poesia pop. ila!. — 17
258 LA POESIA POPOLARE ITALLVKA.
La picciula m' ha fattu li catini,
Coma un canuzzu a la catina m'avì ;
Pi l'aniuvi di Din, lassami jiii,
'Nncatinatu cu tia nun pozzu stari. (^)
Ed anclie nel caso seguente a ninno sfuggirà
l'intrinseca medesimezza a malgrado delle apparenti
dissimiglianze. (") In Toscana cantasi :
0 rondinella, clie voli per l'aria
Ritorna addreto, e fammelo un piacere :
E dammela una penna di tu' alia,
Che scriverò una lettera al mio bene.
Quando l'averò scritta e fatta bella,
Ti renderò la penna, o rondinella:
Quando l'averò scritta in carta bianca,
Ti renderò la penna che ti manca :
Quando l'averò scritta in carta d'oro.
Ti renderò la penna e il tuo bel volo. (^)
Alla quale, si ragguaglia, fra tante, questa lezione
di Val di Cecina:
0 rondinino, che vai verso il mare
Voltati indietro e ascolta due parole.
Dammi una penna d'or delle tue ale
Per scrivere una lettera al mi' amore.
Quando l'averò scritta e fatta bella.
Ti renderò la penna, o rondinella.
Molti sarebbero qui i riscontri che potrebbero re-
gistrarsi di lezioni varie, umbre, marchigiane o la-
ziali, (^) meridionali, (^) venete e delle coste adria-
(lì PiTiìÈ. C. popol. sicil., I, 11. 119; GuASTELLA, 11. 80; Lizio-Bruno,
C. popol. Isol. Eoi., p. 116-17.
(2) Parecchie lezioni nota il Kubieri, p. 44.3 e segg.
(3) Tigri, ii. 676. Cfr. n. 679; Tommaseo, p. 201-.3; Kieri, n. 54; Gian-
nini, C. popol. Inceli., p. 11,5. II solo quadernario, alquanto variato, è in una
lezione romana presso il Mueller-Wolf, pag. 11.
(<) Mazzatin'ti, n. 129; Gianandkea, p. 150-1; Pioorini-Berti, Co-
stumi e Sìtpersliz. ìiiarchig., p. 126; Marcoaldi, C. pop. lai., lì. 10; Marsi-
LIANI, n. 21.
(•'') Imbriani, C. popol. prov. merid., I, 28, e C. avellinesi, ^i. 16; Moli-
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 259
tiche; C) ^^ ci restringiamo alla versione sieula:
0 palunimedda, (^) chi vai mari mari,
Fermati, ca ti dicu dui palori,
Quanta ti scippa 'na penna di ss' ali,
Scrivu 'na littra a cui pri mia ni mori ;
Tutta di sangu la vurria untari,
E pri siggillu metterci lu cori ;
"Di poi ti dicu a cui mi 1' ha' purtari,
Ti dugnu la to' pinna, e tinni voli. (^)
Dei due Canti che seguono sei versi si rasso-
migliano, lasciando però il dubbio che ambedue in-
dipendentemente l'un dall'altro, provengano da una
lezione letteraria. Il Canto toscano dice così :
Quando passi di qui, passaci onesta,
Che la gente non dica che ci amiamo:
Tu abbassi il capo, e io abbasso la testa,
E noi due di buon cuor ci salutiamo.
Di tutti i santi ne vien la sua festa,
Un dì verrà la nostra, se ci amiamo.
Di tutti i santi la sua festa viene :
Verrà la nostra: vogliamoci bene. (*)
In Sicilia :
Quannu passu di ccà, siati onesta,
Pri l'aggenti nun diri ca nn'amamu.
Tu cali l'occhi ed eu calu la testa,
Chissu è lu signu ca uni salutamu.
NARO, e. pop. napot., p. 135 ; Scherillo, il. 2i5 ; Doksa, La tradiz. greco-
latina in Calabria, Cosenza, Principe, 1881, p. 105; Lovarini, C. p. tarant.,
n. 1; Akalfi, C. d'Ischia, n. 43.
(1) Caliari, p. 21 e 197; Villanis, p. 41.
(2) In un Canto di Falena: palomma: in uno romanesco; x>aJoinha: a
Napoli; aquila: a Lecce: aceddhiizzu ; ma più spesso: rondinella.
(3) Vigo, n. 1439 in nota. Altra lezione in Lizio-Bruno, C. pop. Isol.
Eoi., n. 26. — Tema frequente nella poesia popolare è il messaggio per
mezzo di un volatile: colombo, rondine, usignolo. Vedi, per la Francia,
Carnoy, Littérat. orale de la Picardie, Paris, Maisonncuve, 1883, p. 339.
Ma soltanto nei Canti italiani la penna del messaggio è fatta da un'ala del
compiacente messaggero.
(4) Tigri, n. 412. Cfr. Leopardi, C. pop. recatan., n. 14.
260 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
L'uccliiuzzi di l'aggeliti su' balestra,
Li guai tuttidui nni li cuntamu :
Ad ogni santu veni la so festa,
E nu' la festa nostra l'aspittanui. ( ')
Similissimi anche i seguenti. Il toscano :
Oh quanto voglio bene a chi so io !
11 nome non lo voglio palesare :
Lo tengo sempre scritto nel cuor mio;
In fin che vivo, lo voglio portare.
In fin che vivo lo voglio tenere,
A nessuno lo voglio far sapere. ('")
E il Siciliano:
Quantu lu vogghiu beni a cu' sacc' in !
Di nomu nun lu pozzu muntuari ;
Strittu lu tegnu nni lu cori miu,
Ca è picciutteddu ca è dignu d'amari.
Di quantu picciutteddi ha fattu Dia,
Tu sulu all'occhiu miu beddu mi pari:
Qnannu nun cridi lu parrari miu,
Ce' è ddocu la prisenzia ca pari. (^)
Perfettissimo riscontro offre quest'altro Canto,
che nella forma che segue ripetesi in Toscana :
0 Dio del cielo, che pena è la mia
Aver la lingua e non poter parlare !
Passo davanti alla ragazza mia.
La veggo e non la posso salutare !
E la saluto con la mente e il cuore,
Giacché la lingua mia parlar non puole.-
La saluto col core e colla mente.
Giacché la lingua mia non puoi dir niente. (*)
(1) Salomone-Marino, n. 191. Cfr. Vigo, n. 1395; Imbriani, C.popol.
prov. merid., II, 325, e C. popol. aeell., p. 45; Molinaro, C. popol. napol.,
p. 246; Mandalari, p. 123,228; Leopardi, C. p. reccinat.,n. 14. Una forma
aulica è accennata nel PitkÈ, StuiìJ, p. 214.
(2) Tigri, n. 414. Il solo totrastico in Gianandrea, p. 105.
(3) Vigo, n. 749. Cfr. Avolio, n. 2G3, dove l"ultima parola del 2" v.
è palizari.
(<) Tigri, n. 511. Cfr. n. 530; A. Giannini, n. 48. A Casale in Val di
Cecina la cantan così:
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 261
A Verona, (') a Vicenza, (") in Piemonte, C) nella
Valle del Po, {*) in Liguria, O nell'Istria O occorre
il solo tetrastico, ma a Venezia trovasi e in tal
forma, C) e colla ripresa alla Toscana. O In Sicilia
poi si dice così :
0 Dia, chi pena mi dastivu a mia
Ch'aju la lingua e lum pozzu parrari !
Passii davaiizi di l'amanti mia,
La viju e nini la pozzu salutari.
O Dia di 'ncelu, o Virgini Maria,
Dicitimillu va' com'aju a fari;
Ea la talìu, idda mi talìa,
Né eu né idda patema parrari ! (^)
L'uno nell'altro facilmente si convertono questi
altri due Canti. Ecco la lezione toscana :
M' è stato ditto e m' é stato avvisato
Ch'io non passassi piìx di questo loco;
Ed io ci passo come un disperato,
Perchè la vita mia la curo poco.
S'a ogni canto ci fosse un birro armato, (")
Badate che passion .sarà la mia !
Vede' il mio damo e "n gli potè' parlare.
Se lo riscontro nel mezzo alla via,
Cogli occhi lo 'ncomincio a salutare.
Lo saluto cogli ocelli e poi col cuore,
Perchè la bocca mia parlar non puole.
Lo saluto cogli occhi e colla niente
Perchè la bocca mia non può dir niente.
Lezione marchigiana in Gianandrea, pag. 30.
(1) Righi, n. 3.5.
(2) Alvebà, n. 4S ; Pasqualigo, n. 10.
(3) Nigka, p. 579.
(*) Feeraeo, C. di Fontelfig., n. 21.
(5) Marcoaldi, C, pop. lig., n. 85.
(6) IvE, p. 144.
(7) Bernoni, punt. IV, n. 29 (il solo primo verso nel Ber.voni, punt. I,
n. 57); Garlato, p. 346.
(8) Dal Medico, p. 70.
(9) Salomone-Marino, n. 355.
(W) Questo solo verso in un Canto pop. veronese (Verona, 1870, n. 7):
Ogni canton ghe fosse un omo armato,
Amar te voi da vero inamorato.
262 LA POESIA POPOLARE ITALIA^^A.
A Ogni finestra una bocca di foco,
Tanto ci vo' passar la notte e '1 giorno.
In fin che campo e vivo a questo mondo :
Tanto ci vo' passa' 'I giorno e la notte,
Vostri begli occhi mi danno la morte. (')
E iu Sicilia :
Mi r banu ditta e mi 1' hanu avvisata
Non mi ci passa cchià di chissà locu;
Ma jò ci passa cumu c'è passata, (^)
Pirelli la vita mia la prezzu pocu.
Si a ogni porta ci fussi un orna armata,
Ogni finestra 'na sciamma di foca,
Si toccanu la bella ch'aja amata,
Gei facissi vidiri un tirrimotu. (^)
Negli esempj che adesso verremo enumerando è
più che mai evidente l'anteriorità della lezione insu-
lare. E primo odasi questo Canto toscano :
Quando nasceste voi, nacque bellezza,
11 sol, la luna vi venne a adorare;
La neve vi donò la sua bianchezza,
La rosa vi donò '1 suo bel colore.
La Maddalena le sue bionde trecce,
Cupido vi insegnò tirare i cuori :
Cupido v' insegnò tirar le frecce :
M' innamoraron le vostre bellezze. {*)
La forma sicula dev'esser l'originale: O perchè
col dialetto insulare si restituiscono le rime, alquanto
(1) Tigri, n. 7.52: e cfi-. n. 729: per l'Umbri.a e il Lazio, Mazzatinti,
11. 314; Mae.'siliam, d. G.j4.
(^) Meglio in Salomone-Marino, n. 427 : com'un stimurafn.
(3) Vigo, n. 2469: cfr. n. 1683, e lezioni meridionali in Imbriani, C.
pop. prov. merid.,1, H; Finamore, Vocab. , ji. 28ì ; Mandalari, p. 23.5; Fiori
selvatici, n. 102.
(••i Tigri, n. 80. Cfr. n. 8.5. Ridotto a Stornello, n. 41. Cfr. lezione
niarcliigian.i in Gianandrea, p. 79; abruzzese in Finamoke, rocnt., p. 331 ;
veneta in Garlato, 258, 414.
(S) C. Tenca, indovinando la derivazione meridionale, la sospettò ori-
ginariamente abruzzese: vedi Frose e Poesie scelte, Milano, Hoepli, U, 254.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 263
alterate nella versione toscana. Che se anche trecce
e freccie possano recarsi all'antica forma di trezze e
f rezze, fra queste rime e il primo e il terzo verso re-
sterebbe sempre una semplice assonanza: senza che,
le desinenze are, ore, ori degli altri versi danno so-
spetto di qualche maggior corruzione del primitivo
dettato. Ma tutto si ristabilisce colle forme siciliane:
Ti maritasti, sciuri di biddizzi,
Tò mamma t'addiitau li 'nfasciaturi,
La Mantaleiia ti desi li trizzi. (^)
Lu suli ti r ha datu lu sblendiui ;
La nivi ti 1' ha datu li janchizzi,
La rrosa ti lu desi lu cuiuri,
Lu zzuccaiu t' ha datu li ducizzi
E la cannedda lo bonu sapuii. (-)
Altrove in Toscana, e precisamente a Casale di Val
di Cecina, suona così, introducendovi un ricordo del
poema popolare di Paris e Vienna:
Quando nasceste voi, nacque bellezza,
C'era presente la luna col sole:
La luna vi donò la sua chiarezza,
E '1 sole vi donò lo suo splendore;
E Vienna vi donò la bionda treccia,
Paris v'insegnò fare all'amore.
Paris v'insegnò tira' li sguardi:
Sei quel crudel amor, che non mi guardi.
Paris v'insegnò tira' sospiri;
Sei quel crudele amor che non mi miri.
Forma intermedia è la sabina :
Quando nasceste voi nacque bellezza.
Nacque l'argento, l'oro e le chiare acque ;
(1) Altri Canti dove si parla delle trecce della Maddalena, sono in-
dicati dal Lizio-Bruno, C. popul. Isol. Eoi., p. 135. Aggiungi Molinaeo,
C. p. napol., p. 158; Amalfi, Cento canti d' Inchia, n. 26.
(2) Vigo, n. 101. Meglio al 2» v. una lezione di Alimena: La Fata
i'annutò la fataciuni: Purè, C. pop. sicil., I, ii. 42. Ma la lezione noticiana
264 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
L'acqua ve la donò la sua chiarezza,
L'oro ve lo donò lo suo splendore,
L'argento vi donò la candidezza.
Cupido v'imparò di fa' l'amore. (')
Altro caso di evidente anteriorità sicula ci offre
il Canto, che suona così in Toscana :
Quando nasceste voi, superna luce,
In cielo e in terra gran festa si fece ;
E l'angiuli gridavan d'alta voce :
L'è nata la regina imperatrice. (^)
L'è nata la regina, è nata lei.
Nato il consumamento agli occhi miei.
L'è nata la regina, è nato il fiore,
Nato il consumamento allo mio core. (^)
E chiaro come la prima quartina colle sue termi-
nazioni in uce, oce, ice dia a divedere una primitiva
lezione alterata, la quale, a parer nostro, potrebbe
essere la seguente dell' Isola :
Quannu nascisti tu, sanguzzu ruci, (*)
Chi fìstilizzu ca 'ncielu si fici !
L'ancili fuoru tutti ri 'na vuci :
Nasciu, nasciu la bbella 'mpiratrici.
Ni lu pittuzzu 'na stidda vi luci.
Siti cciù bbella ri quantu si rici :
Bbella, ssi ssa bbilJizza si proruci.
Campi cuntenta, e murirai filici. (^)
(AvOLio, 11. 247) comincia come la toscana: Qnamui nascisti tu, stremi bei-
lizzi, La Fata ti calati li 'nfasciatui-i : e cos"i pure la lezione calabrese
(Arlìa, nel Passatempo, giorn. torinese del 1864, voi. I, pag. 159): Quannu
nascisti, o fonti di hillizzi, Lu suli ti donaii li soi sjìlenditi-i ecc.
(1) De Niro, p. 15. Ridotto a Stornello, in Marcoaldi, Canti popol.
piceni, n. 35.
(2) Ridotto a Stornello in Mueller-Wolf, n. 4, ma col 3" v. errato :
E andette la regina all' imperatrice.
(3) Tigri, n. 88. Cfr. De Nino, p. 19; PiooRiNi-BERr, p. 143; Gianan-
DREA, p. 59. E per varie lezioni umbre, vedi Mazzatinti, n. 24 e segg.
(■•) Sulla forma sangu, o sanguzzu duci, vedi quanto dice il Lizio-
Beuno, C. pop. Isol. Eoi; p. 73.
(5) GuASTELLA, n. 2. Cfr. Vigo, n. 351 ; Fiori selvatici, n. 26.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 265
Rime non ben rispondenti, ma di semplice as-
sonanza, presenta il seguente Rispetto :
Bella ragazza, vi chiamate Anna :
Quanto mi piace Io vostro bel nome !
Voi portate un garofano da banda,
Dall'altra parte un gelsumin d'amore.
Se arriva il vostro amore, e vi domanda :
Dove fu colto cotesto bel fiore ?
Io l'ho colto nel bel giardin d'amore.
Dove si leva la spera del sole:
Dove si leva, dove si riposa ;
Voltati verso me, vermiglia rosa. (')
A Venezia corre il solo tetrastico iniziale, e sempre
con rime di pura assonanza:
Tuti me dise che ti à nome Ana:
E cosa che me piase il tuo bel nome '
Ti porti do garofoli a la banda,
E in mezo al peto ti à do fresche rose. (^)
Ma nell'Istria si svolge maggiormente:
A me xì deito che ti noni .\na :
0 Deìo, quanto me piase el tu' biel nome !
Ti puorti due garufuli a la banda,
E in miezo al pito dui freschite viule.
E se qualcoùn per suorto te dumanda:
Dov'astu priso quile frische viule?
L'ò prise in nel giardeìn de la Diana,
Duve che la miteìna liva el sule. (")
Tra le varie versioni insulari scegliamo questa di
Borgetto e Montelepre, che ricompone le rime :
Bedda, lu nnomu tò chiamatu è Anna.
Oli quantu è duci ssu nìiomu d'amuri!
Mi porti lu galofaru a la banna.
Di centu migghia uni sentu l'oduri.
(1} Tigri, n. 155 ; Tommaseo, p. 395. Cfr. per l' Italia centrale, Maz-
ZATiNTi, n. 23; Marsiliani, n. 16.
(-) Beknoni, punt. VI, n. 69 ; Dal Medico, p. 53.
(3) IVE, p. 21. Cfr. VlLLANIS, p. 44.
266 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
Si passa qualchidunu a m'addumanna :
Cu" ti lu detti ss'odurusu ciuri ?
AUura eii mi imi vaju canna canna,
E coi rispunnu cu vuoi d'annui:
L'aju cngghiutu 'nta lu pettu d'Anna,
Unni affaccia la spera di lu suli. (')
Questa serenata toscana non ha neanche essa
la perfezione di rime deHa rispondente versione
sicula :
Dormi, speranza mia, dormi, speranza,
Dormi, speranza mia, riposa e pensa :
Siamo pesati alla stessa bilancia.
Fra me e te e' è poca differenza.
Se lo potessi aver nello mio core.
Oh che dolcezza il tuo sguardo d'amore !
Se lo potessi aver nello mio petto.
Oh che dolcezza il tuo sguardo diletto. (")
Ma in Sicilia :
Dormi, spiranza mia, dormi, spiranza.
Dormi, spiranza mia, riposa e penza:
Semu pisati a la stissa valanza.
Fra mia e tia ce' è poca dilErenza.
Se tu mi porti granni amurusanza,
Lu me' amuri pri tia mi 'avi putenza.
Semu pisati a la stissa valanza;
Dormi, spiranza, ca 'n ce' è diffirenza. (^)
Di capitale importanza nelle nostre ricerche
sull'origine prima dei Canti popolari è questo Ri-
spetto : (*)
Eccomi giunto a questa cantoniera.
Dove fui preso nei lacci d'amore.
(1) Salomone-Marino, n. 363. Cfr. Vhìo, n. 401; Guastella, n. 21;
AvOLlo, n. 160. Lezioni meridionali, in Imbkiani, C. x>op. prov. merid., II,
141-44; Mandalari, p. 389; Amalfi, Cento C. d'Ischia, n. 36; Molinako,
C. p. molisani, n. 16.
(a) TiGHi, n. 398.
(3) Salomone-Maeino, n. 281.
{*) Vedi anche in proposito di questo Canto, Rubieri, p. 431.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 267
C'è una ragazza die porta bandiera,
Jn faccia porta fiaccole d'amore. (^)
E te r ho visto fare un gran bell'atto :
Gli occhi e la bocca ridere ad un tratto. (*)
Il tetrastico è tolto evidentemente al seguente Canto
dell' Isola :
Sugnu arrivatu a chista cantiinera,
Ccà mi 'ngagghiaru li lazza d'amari :
Ce' è 'na picciotta chi porta bannera,
E 'nfacci porta ciàcculi d'amuri.
Aviti ssa facciuzza eh' è 'na spera,
E cu' l'arriva a vìdiri, uni mori ;
Ed eu, l'amara!, 'nta sta cantunera
Vi cantu pri sfugarimi lu cori. ("J
Qui è molto osservabile il vocabolo cantoniera che
in Sicilia colla forma di cantunera, (*) vale cantonata,
canto: ma in Toscana null'altro significa se non quel
" mobile di legno a guisa di armadio, che si adatta nei
canti delle stanze, e che serve a ri porvi roba „. (^)
Non si potrebbe desiderare segno pili chiaro di deri-
vazione siciliana, non potuta mascherare né alterare.
E ancora un esempio: In Toscana si canta:
Bella ragazza, che ti chiami Nina,
Sempre Ninetta ti voglio chiamare,
('} Con gli occhi getta -fiaccole (l'amore: Lorenzo de' Medici, nella
Nencia.
(") Tigri, n. 315. Cfr. Marcoaldi, C. pop. piceni, ii. 45: Voglio can-
tare in questa cantonera. E Imbriani, C. pop. proi\ nierid., II, 432; Voglio
canta' accanto a 'sta cantonera, lezione di Bagnoli Irpino. Cfr. Amalfi, C.
d'Ischia, n. 88 e Beverini, n. 19. In un Canto pop. di Sora (nel giorn.
G. B. Basile, II, 30) : pontonera.
(^) Salomone-Marino, n. 272: Vigo, n. 1305.
(4) Vedine esempj nei Canti del Vigo, n. 536, 906, 1352, 1909, 2514, 2632,
4487, 4505 ecc. Questa paiola trovasi anche in Canti meridionali, ma sempre
in line del verso, e dove è probabile la derivazione sicula: v. ad es. Im-
briani, C. pop. prov. merid., II, 229, 230, 242 ecc.
(5) Fanfani, Vocab. dell' Uso. Cfr. Manuzzi, Eigutini ecc. Erra il
Vigo, nella nota ai Canti n. 2514 e 2632, dicendo che cantunera è voce
anche toscana nel senso di cantonata.
268 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
Coll'acqua che ti lavi ogni mattina
Ti piego, Niiia mia, non la buttare.
Che se la butti, ci nasce una spina.
Ci nasce una rosetta tanto cara
Chi primamente lo raccolse, (^) o lo sentì già così
deformato o non seppe ben trascriverlo. Meglio è la
lezione picena :
E tu per nome che ti chiami Nina
Sempre per Nina te voglio cliiamare,
L'acqua che ti ci lavi la mattina
Ti prego, Nina mia, non la buttare :
E se la butti, buttala al giardino,
Ci nascerà un bel giglio e un gelsomino;
E se la butti, buttala al gi arri ino
Che ci fa l'acqua rosa lo speziale;
Lo speziale ci fa l'acqua rosata,
Pe' guari' Nina sua quand'è malata. (^)
Ma nel Veneto e in Istria l'acqua servirà a tempe-
rare il vino :
La sarà bona a intemperar lo vino
Quando saremo a tòla per disnare. (^)
In parecchie lezioni meridionali è cangiato il nome,
togliendo la rima :
E mm' hannu dettu ca te chiami Rosa,
Rosa e Rosina te vogliu chiamare.
Cu l'acqua ci te lavi la matina
Te pregu. Rosa mmia, nu' la menare.
Addii' la mini nei nasce 'na .spina,
'Na rosa e 'na rusetta ppo' 'ddurarc:
Nde passa hi speziale e nde la cima,
Medecina nde face ppe' sanare. C)
(1) MuELLEK-WoLF, p. 13, (loiulc passù al Tommaseo, p. 398.
(2) Marcoaldi, n. 54.
(3) Dal Medico, p. 25. Cfr. Ive, p. 201.
(*) IMBIUANI, I, 283.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 269
Ma in qualche altro caso, come a Napoli, si serba
il nome primitivo :
Bella figliola, ca te chiamine Niiia,
r sempe Nina te voglio cliiammare ;
Cliell'acqua ca te lave la matina
Te prcio, Nina mia, nu' la ghittare.
A do' la ghiette ce nasce 'na spina,
'Na rosa muscarella p'aildurare ;
Li mièdeche ne fanno medicina,
La dann' a li malate pe' sanare. (')
Scendiamo ora in Sicilia, e sentiremo :
Oh quant'è heddu lu noma di Nina,
Ca sempre Nina vurrissi chiamari !
L'acqua ccu cui ti lavi la matina, (-)
Bedda, ti pregu di non la jttari ;
Ca si la jetti ni nasci 'na spina.
Nasci 'na rrosa rrussa ppi ciarari,
Li medici ni fanno midicina,
La dannu a li malati pri sanari. (^)
Evidentemente, adunque, la lezione originaria, è, con
certe modificazioni, la siciliana, che passando lo stretto
ha perduto qualche volta il nome dell'amata e con
esso la rispondenza delle rime: in Toscana si è un po'
imbrogliata e così un po' anche nelle Marche, ma più
su ha perduto tutto quello che aveva in se di gentile.
Comprenderà facilmente il lettore, che se non
prolunghiamo ancora questi raffronti, egli è soltanto
per non tediarlo, non già perchè ce ne manchi ma-
teria. E ci sembra poi, che il già riferito possa ser-
ti) MOLINARO, p. 146.
(-) Questo rcH cui della lezione di Termini sembra quasi una fiorettatura
letteraria. La doppia lezione di Agira suona: E l\icqna che ti lavi la ma-
tina o Ccu l'acqua ca ti laoi la matina Ti metti li sciuì-iddi a' hivirari. E
a Modica (Guastella, p. 79): Di l'acqua ca ti lavi a la matina Ti preu,
Nina mia, nun la jittari: quasi sempre il medesimo anacoluto della lezione
toscana.
(i) Vigo, n. 398-9.
270 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
vire esuberanteiiiente a provare la nostra opinione
sulla identità del Canto popolare delle diverse Pro-
vincie italiane e sulla sua prima origine in Sicilia.
Ma altri ragguagli non meno curiosi potrebbero farsi
non già per intere Canzoni e per tetrastici, ma per
soli distici, 0 per tre versi al massimo, ed anche per
un solo. Il che è segno di un gran rimescolamento,
di uno scambio continuo di Canti, de' quali per lunga
età fu custode la sola memoria, sicché l'uno si in-
castrò, a così dire, nell'altro, perdendo o pigliando
altronde qualche verso, e rimanendo identici, o quasi,
nelle variate lezioni, soltanto il verso o i versi del
cominciamento. Ci piace recare di ciò qualche spe-
ciale testimonianza, raccogliendo versi identici o
assai simili, specialmente iniziali, di Canti d'ogni
regione, e intralasciando le parti modificate:
I. Fossi sicuro che '1 mi' amor sentisse
Ad alta voce io vorrei cantare. (')
E se credesse cli'el mio ben sentisse,
De alta vose mi voria cantare. (^)
II. Non posso piìi cantar come solevo
Percir ho perduto il fior della mia voce. (^)
Come cantava 'un pozzu cchiìi cantari,
Ah, eh' haju persu la vuci ch'avia. ('')
III. Tu fai come lo mar che cresce a onde,
Com' più che cresci, e più bella ti fai. (^)
U mar d'oj;n'aura batt d'aunna.
Chiù chempi e cresci, chiù bedda t' fci. (")
(1) Tigri, n. 25.
(2) BeRNONI, pUllt. VI, 11. ii.
(3) Tigri, n. 27.
(4) Vigo, n. 1158; cfr. n. 1160,.
(6) Tigri, ii. 58; cfr. Tommaseo, p. 40.
(6) Vigo, n. 5308 : C.niito doll.a Coloni.i lomb;irda di S. Fratello in
Sicilia.
LA POESIA POPOLARE IT ALLENA. 271
L'acqua del mar ti mantien fresca e bella
Come la rosa in sulla verde spina. (')
Lu mari ti mmanteni frisca e bella,
Comu 'na rosa russa a li giardina. (^)
Siete più bianca che non è la carta. (^)
Site cchiìi ghianca vuie ca n' è la carta. ("•)
Siti cchiù janca di li janchi carti. (=)
Bella, bellina, chi vi ha fatto gli occhi.
Chi ve gli ha fatti tanto innamorati? (®)
Sia benedeta chi t'a fato i oci. (')
Bianca come la neve di montagna. (^)
Cchiù janchi di la nivi a li muntagui. (®)
Sete più bianca che neve in montagna,
Più rossa che n' è il sangue di dragone. ('")
Sì bianca cchiù de nive de muntagna,
Sì russa cchiù de sangue de dragone. (^')
Ill'augioli vi viengono a servire,
Quando che suona a messa, voi ci andate. (^^)
Quattr'angeli la vengono a vestire,
Quando suona la messa, voi ci andate. ('^)
Quando l'uscio di chiesa voi entrate,
Le lampane coU'occhi l'accendete. ("J
(I) Tigri, ii. 59; Tommaseo, p. 40; cfr. Gianandrea, p. 63; Mazza-
tinti, n. 53; Marsiliani, ii. Si.
(') Lizio-Bruno, C. 2>op. Isol. Eoi., n. 13; cfr. Imekiani, C. pop. aeell.,
pag. 44.
(3) Tigri, n. 61,
(*) MOLINABO, p. 258.
(5) Vigo. n. 826.
(6) Tigri, n. 6.5.
(') Bernoni, punt. IV, n. 31.
f8) Tigri, n. 67.
(9) Vigo, n. 444, 1213.
(10) Tigri, n. 115.
(II) Imbriani, C. pop. pvoi\ mei-id., I, 176.
(12) Tigri, ii. 81.
(13) Xannarelli, C. pop. di Arlena, n. 48.
(14) Tigri, ii. 81.
272 LA POESIA POPOLARE ITALIANA
Bella figgliiola, chi alla chiesa annatì,
Cu sti bell'occhi la lampa driimati. (^)
Quannu dinto a la chiesia trasisti
Co' 'sti bell'iiocchi la lampa allumasti. (-)
E quando c'alia chiesa camminate
Co' 'sti begli occhi li lumi accendete. (^)
XI. 0 albero di perle caricato,
Colonna a cui s'appoggia l'alma mia. (■*)
Arvulu di dumanti carricatu, {'")
Culonna unni s'appoja l'arma mia. (^)
XII. Avete i labbri fatti di corallo,
Gli occhi per riguardallo il Paradiso. (')
Ssi labbra di curaddu minutiddi,
Ss'occhi stidduzzi di lu Paraddisu. (*)
XIII. Il sangue nelle vene mi si agghiaccia. (®)
El sango eh' iè in le vene me se glassa. (")
XIV. Tutte la strade le vo' far bandire,
Tutte le porte le vo' far serrare. (^')
Tutte le strade voglio far bandire,
Tutte le porte voglio far serrare. C")
XV. Le cose piccoline son pur belle
Le cose piccoline son pur care! (^^)
(1; Lizio-Beuno, Canti scelti del pop. sicil., p. 45; cfr. Gvastella, n. 19.
{-) Imbkiani, C. pop, aveìl., p. 59 ; cfr. C. pup. prov. meriiì., I, 207.
(3) Blessig, part. I, n, 45.
(*) Tigri, n. 102. — Su questa immagine della colonna, usata assai
nella poesia popolare, v. Lizio-Bruxo, C. pop. Isoì. Eoi., p. 77.
(5) Su questa forma AelValbero caricato, v. Lizio-Bruno, C, pop. laol.
Eoi., p. 111.
C^) Salcmone-Marino, n. fi; cfr. Vicjo, n. 67.">, 920, 1024; Pitrè, C. pop.
sicil., I, p. 198; Lizio-Bruno, C. pop. Isol. Eoi., n. 19; Canale, n. 20.
(.■) Tigri, n. 118.
1,8) Salomone-Marino, n. 69.
^9) Tigri, n. 177.
(10) IvE, p. 61.
0») Tigri, n. 438.
('21 Nannarelli, II. 4G; cfr. Righi, n. 30.
('3) Tigri, n. 144; cfr. lezione ligure, m.i di toscana provenienza in
Maecoaldi, C. pop. liguri, n. 28.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 273
Tute le cosse picole xè bele.
Tute le cosse picole xè rare ! (')
Doùte li cose peìcole son biele,
Doùte li cose peicole son rare. (^)
XVI. Gliele donai e gliele diedi in pegno:
È questo il primo amor che passa il segno. (^)
Vovria saver clii ha el mio cuor in pegno:
El primo amor xe quel che passa el segno. {*)
XVII. Questi da' occhi, due candele accese. (^)
E 'ntra lu mezzu du torci addumati. (^)
Dentro ci ènno due torcie allumate. (")
XVIII. Cade l'uliva e non cade la foglia,
Le tue bellezze non cadono mai. (^J
Casca li foje e nu' casca l'uleia,
Li tu' belisse nu' cascarò mai. (^)
XIX. Ed io ti voglio amar per gentilezza...
Bello, per povertà non mi lasciare. ('")
E no vardar che mi sia un povar omo,
Che povartà non guasta gentilezza. (")
La puvertà nu' vasta gentilezza ('-)
C'a puvertà ne' gguaste ggendelezze. (^')
(I) Dal Medico, p. 28: cfr. Ber:;>on-i. punt. I. n. .3; Altera, d. 67:
Righi, n. 47: Gaflato, p. 256: Caliari, p. 17.5, 236.
\2, Ite, p. 47.
(3) Tigri, n. 270.
(<) Beknoni, pnnt. VI, n. 40.
(5) Tigri, n. 241.
(6) Vigo, n. 161.
("■) Marcoaldi, C. pop. piceni, n. 36.
(8) Tigri, ii. 246.
(9) Ite, p. 54.
(W) Tigri, n. 252. Cfr. n. 343, ,541.
(II) Bernosi. punt. VII, n. 5 : Dal Medico, p. 21. Cfr. Gia>-a5tieea,
p. 52. Questo Canto, specialmente nella lezione toscana, ha un certo sapor
letterario. Deriverebbe da quello Strambotto di Serafico Aquilano che
conclude: E poc ertale, ancor che si disprezza, Xon guastò mai virtù, né
f/^ntilezza ?
(12) Ite, pag. 161.
(13) Fisamoee, rocab., p. 295.
D'Ancona, La poesia pop. ital. — 18
274 LA POESIA POPOLARE ITALIAIfA
XX. Un'ora non mi lasci riposare ;
E non mi lasci riposare un'ora ;
Couvien che t'ami e disperata mora. (^)
Un'ora non me lascia riposare,
E non me lascia riposare un'ora ;
Quest'è lo spasso di chi s'innamora. (^)
XXI. Non ho portato né oro né argento,
Yi lascio lo mio cor in pagamento. (^)
Non ti darò nò oru nò argenta,
Ti darò la mia vita in pagamentu. ('')
Oro no ve ne darò, nò pure argento:
Solo la vita mia per pagamento. (^)
XXII. La prima volta che m' innamorai
M'innamorai con uno sguardo solo. (^)
La prima volta che m'innamorai,
Piantai lo dolce persico alla vigna. (')
La preima vuelta eh' i' son inamurào.
So' inamurato int'oùna Calabrise. (^)
La primma vota che me 'nnammurraie
Me 'nuammuraie de 'na calavresa. (^)
La prima volta che m' inamurai,
M' inamurai d'na bella rumagnola. ("*)
XXIII. L'ho perso lo mio core, e '1 vo cercando.
Ditto m'è stato che l'avete voi,
E se l'avete ve l'avranno mando. (^')
So' senza cuor o lo vago cercando ;
Me xe sta dito che l'avete voi,
E se l'avete ve lo recomando. (^-)
0) Tigri, ii. 281.
(2) Makcoaldi, C. 2>"P- piceni, n. 27.
(3) Tigri, n. 287.
(^) Marcoaldi, C. pop. liguri, li. 13.
(^) Altera, n. 19; Camari, p. 12.
(6) TiCEl, 11. 294; cfr. ii. 334.
C) Nannarelli, 11. 49.
(8) IVE. p. 78.
(9) MOLINAHO, p. 209.
(W) Fekraro, C. poj). ili Cento, li. 9.
(11) Tigri, n. 312.
(12) Dal Medico, p. 79; cfr. loziuiic istiiaiia in Ive, p. CO.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 275
Passu per s'ta ciintradda camminanda,
l'ho persu '1 min cuorin, vaddii zercanda:
M'e statu dicciu che Tei truvà' vai. (')
XXIV. Son piccinina ed Lo quattordici anni. (^)
Giovanottella dai quattordici anni. (^)
XXV. 0 tu che donni e riposata stai,
'N testo bel letto senza pensamento. C)
0 tu chi dormi senza pinsamenti. (")
XXVI. Vattene bella, vattene a dormire,
11 letto ti sia fatto di viole. {°)
Vattene bella, vattene a dormire
Lu lietto ti sia fatto de viole. (")
Vattene a letto e vanne a riposare.
Lo pagliaccio si copra di viole. (*)
XXVII. Finestra che di notte stai serrata.
Di giorno aperta, per farmi morire. (°)
Finestre che de note son serate.
Di giorno aperte per farmi morire. ('°)
XXVIII. Addormentata, perchè non ti svegli.
Addormentata nel sonno d'amore? (")
Te respigghia, respigghia, 'ddurmentata,
0 'ddurmentata de suenno d'amore. ('^)
(1) Marcoaldi, C. 2>op. liguri, n. 23, Il Veneziano ha lo stesso con-
cetto nel 1° libro di Celia, lì. 229 :
Persi 111 cori niiu, e iiuii sacciu unni.
Ne sacciu cui 'n putiri si lu tegna;
La mia 'nnimica criju chi l'ascunni ecc.
(2) Tigri, n. 329.
(3 Maecoaldi, C. pop. piceni, n. 25.
W TiGKi, 11. 38?.
(5) Vigo, n. 1191.
(0) TiGBi, n. 394.
(') COKAZZINI, p. 196.
(8) Maecoaldi, C. pop. umbri, w. 46.
('•>} Tigri, n. 399-400.
(10) Dal Medico, p. 120.
(") Tigri, n. 397.
(12) Imbeiani, C. pop. prov. merid., II, 123.
276 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
XXIX. E l'ho ben vista un'aquila volare. (')
"Vitti vulari 'n'acula 'ntra mari. (^)
XXX. In del mi' orto c'è nata una canna...
Nel pedone ci canta il rusignuolo. (^)
Haju In jardinedda a tramuntana,
Lu rusignolu a cantari coi veni. (*)
xxxT. L'ho visto andar pel cielo un nuviletto,
A spasso andava per amor del sole. (^)
Che va facendo questo nuviletto
Che va per l'aria ricoprendo il sole? (^)
xxxii. Quando sarà quel di, cara colonna,
Che la tua mamma chiamerò Madonna? (")
Quando sarà quel dì, quel'ora bona
Che chiamerò to' madre per Madona? (^)
Quando sera quel di, cara coIona,
Che a la to mania glie dirò Madona? (^)
Oh Din, quannu sarà curu giurnu,
Ci a la tua matri la chiamassi Mamma? (")
xxxiii. Sarebbe me' non t'avessi ma' visto.
La lingua non t'avesse mai parlato! (^^)
CoU'occhi non t'avessi mai veduto,
La lingua non t'avesse mai parlato! ('-)
XXXIV. Ho visto la Serena a proda al mare. ('^)
(I) Tigri, ii. 416.
(2 Vigo, n. 422.
(3) Tigri, n. 456.
(<) Vigo. n. 2.381.
(5) Tigri, n. 420.
(6) Marcoaldf. C. pop. umhri, ii. 29; cfr. Gian..^ndrea. p. 129.
(') Tigri, n. 46.x
(8) Gari.ato, p. 389.
(0) Dai, Medico, p. 61; Bernoni. punt. X, n. 76; Caliaiu, p. 112.
(W) SciiiFONE, C. pop. savesi, li. l.'j.
(II) Tigri, n. 500.
(12) Nannaeeli.1, p. 21.
(13) Tigri, ii. 518.
LA POESIA POPOLARE ITALU.XA. 277
A menzu mari coi sta la Serena. {')
lu mezzo al mar glie canta la Sirena. (^)
La Serenela che xe in mezo al mare. {^)
XXXV. E quanto tempo ho perso per amarte!
E gli era meglio avessi amato Iddio,
Del Paradiso n'avere' na parte. (^)
Quel tempo che go perso a amarve voi,
L'avesse perso a dir tante orazione I
Davanti Dio ghe n'avaria 'na parte. (')
xxxvi. Ti mando a salutare per gli uccelli. (®)
Vi mannu a salutari c'un ucceddu. (')
XXXVII. Credo che m'abbia dato la malìa. (^)
Criju ca mi facisti magarla. C) .
XXXVIII. Dove sei stato, che sei stato tanto ?
Dove sei stato, fior di Paradiso ?
Ti pensi ch'abbia riso? Ho sempre pianto. (^°)
Li dove xestii sta che ti è sta tanto,
0 delicato fior di Paradiso ?
Dopo che ti è sta via, go sempre pianto. (^')
XXXIX. M'è posto mente quando son per via,
A capo basso ini conviene andare. (^^)
A me conviene andà' coU'occhi bassi,
Coll'occhi bassi e colla testa china. ('^)
(1) Vigo, n. 1164.
{-) Alveeà, n. 79; Pasqualigo, n. 12; Caliaki, p. 252.
(3) Dal Medico, C. pop. di Chioggia, u. 2.
(I) Tigri, n. 535.
(5) Bernoni, punt. n, n. 57.
(6; Tigri, n. 6.32.
(') Salomone-Marino, u. 351.
(8) Tigri, il 658.
(9) Vigo, n. 2976.
(W) Tigri, n. 700.
(II) Beenoni, punt. IV, n. 47; cfr. Alvekà, n. 41.
(12) Tigri, il 741.
(13) Xannaeelli, p. 20.
278 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
XL. Quando ti vedo con altri parlare. (*)
Quannu cu autru ti viju parrari. (^)
Quand ti veg cuu li altri a parlare. (^)
XXI. Cittina bella dalla maggiorana
La senti la tua madre che ti chiama? (^)
Catariniela de la mazurana
Teira la cuorda e sona la campana. (^)
XLii. Ecco la palma se vuoi far la pace. (^)
Chessa è la parma si vuo' fa pace. (")
xLiii. Che domin ho fatt' io a questo ingrato,
Che abbassa gli occhi per non mi vedere? (^)
Chi t' haju fattu, miu dulci confortu,
Ca cali l'occhi, e nun mi poi vidiri ? (^)
XLiv. E se tu stavi un'ora e 'n mi vedevi.
Con gli occhi riguardavi fra la gente. (")
Se stavi un'ora che non mi vedevi,
CoU'occhi fra la gente mi guardavi. (^')
Un giorno, biela, cu' i' nu' me vedivi,
Cu' i' noci in fra la zento i' me 9erchivi. (^^)
Passava un giorno che non me vedevi,
Cu' occi per le genti mi cercavi. (^^)
XLv. Che hai, che hai, che ti lamenti e lagni?
Chi te r ha data questa doglia al core ?
Tu fai il male e poi te lo compiangi. ('*)
(I) Tigri, n. 755; efr. Stornelli, n. 2SL
!-) PiTEÈ, C. pop. sicU., I, n. 250.
(3) Fereaeo, C. pop. motiferr., Strami), n. 45.
(4) Tigri, n. 789.
('■>) IvE, p. 274.
(«) Tigri, n. 811.
(■) Imhriani, C. pop. prov. merid., II, 57.
(8) Tigri, ii. 88r,.
(s>) Vigo, n. 103.3; cfr. Piteì:, C. pop. sicil., I, n. 326.
(10) Tigri, n. 887.
(II) Nannarelli, p. 48.
('=) IVE, p. 205.
('3) AlveiìÀ, II. 85; cfr. lezione veneziana in Bernoni, punt. I, n. 30;
Dal Medico, p. 128.
('<) Tigri, n. 900. Erroneamente nel primo verso : languì; forse: piangi.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 279
Che adki, che adài che ti lamenti tanto?
Chi te r ha messa la pena nel core ?
Da te facesti il male, e tu lo i^iangi. (')
XLVi. È morto lo mio amore, e non ho pianto;
Credevo ben che fusse altro dolore ;
È morto il Papa e se n'ò fatto un altro. (^)
Xè morto lo mio bene e no gò pianto ;
Credeva de sofrire piìi tormento ;
Xè morto un Papa, e i ghe n'à fato un altro. (^)
XLVii. Tu vai dicendo eh' io non son Eegina,
Né anche tu se' figliuol del Re di Spagna. ('')
Tu nen gì ffijge de ju Re de Spagne,
Nemmeno pe' ddot'avete qualeche rregne. (^)
Che ra toi mania nun è la Regina,
E lo toi padre nun è il Re di Spagna. (^)
xLviii. E lo mio amor me 1' ha mandato a dire
Che mi provveda, che mi vuol lasciare. C)
Lo mio amore me 1' ha mando a dire
Che m'ho da provvede', che vói lassarme. C^)
El mio moroso m'à mandato a dire
Che me proveda, che '1 me vò lassare. (^)
XLix. Sono stata sett'anni con la golpe
E m'ha insegnato tutti i suoi costumi. (")
Gei'sera so' andà in casa da la volpe.
La m'à insegna tute le volperie. (^^)
(1) Nannaeelli, p. 19.
(2) Tigri, n. 1009; cfr. n. 1060, e Mazzatinti, ii. 97.
(3) Beenoni, punt. II, 11. 48.
{*) TiGKi, 11. 1018.
(^) FlNAMOKE, p. 320.
(«) Ferkaro, C. pop. monferr., Str.amb. n. 77.
(') Tigri, n. 1001. Ridotta a Stornello, ii. 178, 3G4.
(8) Mazzatinti, n. 146.
('■') Dal Medico, p. 113, 120; Caliaei, p. 10, 130. Il solo primo verso
in Beenoni, punt. II, n. 1 ; Dal Medico, p. 141 ; Feeeaeo, C. pop. monf., ii. 84.
(W) Tigri, n. 1074.
(11) Beenoni, punt. II, n. 89.
280 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
L. Ohimè, che ho perso tutto il ben che avevo
Ho perso la sedina (') ove sedevo,
E la colonna dove mi appoggiavo! (^)
Ho perso il praticello ove pascevo,
E la colonna dove m'appoggiavo. (^)
0 perso '1 mio pozol che me pozava,
Quela coIona che su me tegniva ! (^)
LI. Una stella vi lasso per segnale,
Quando s'oscurerà, bella, piangete. (^)
La stidda vi la lassù pri signali,
Quannu nu luci cchiìi, mi cianciriti. C")
E per signalo el purterà oùna stila
La nu' se scurirà, se no mor'eìo. (')
Lii. Oh quante volte mi ci fai venire.
Sotto le tue finestre a sospirare ! (^)
E cquande voidde me c-i-ù fa' meni'
Sott'a 'ssa to feuestr' a susperà? (^)
D' giorno e d' notte me ce fai veni'.
Sotte la tu' finestra a sospira'! (")
mi. Sento la Morte, e la vedo venire. (")
Sentu la Morti, la sentu veniri. ('-)
XLiv. Se teco dovess' ire in Paradiso,
Per non vederti accetterei l'Inferno. (^^)
(1) Un poeta noto al popolo, e della maniera del popolo imitatore,
Olimpo da Sassofekrato, cosi scrive nella l'henice: Voi siete un gentil
letto da posare, Siete una gentil sedia da sedere.
(2) TiGHi, n. 1120.
(3) Kannarelli, p. 20.
(<) Dal Medico, p. 120.
(6) Tigri, n. 1141.
(0) Vigo, n. 2G.")8. Cfr. Imbriani, C. 2>op. prov. merid., II, 280; Mar-
COALDi, C. pop. umbri, n. 73; Gianandrea, p. 58.
(') IvE, p. 195.
(8) Tigri, n. lUfi; Mazzatinti, il 274.
(0) FlNAMOKE, p. 295.
(10) Gianandrea, p. 125.
(11) Tigri, n. 1155.
(12) Vigo, n. 2991.
(13) Tigri, n. 1162.
LA POESIA POPOLAKE ITALL^.KA. 281
E se andassimo insieme in Paradiso,
Per non vederti accetterei l' Inferno. (^)
S' iu vaJLi 'mparadiso e tu a hi 'nferiui,
Vegnu a lu 'iifernu pri vidiri a tia. C^)
E ci muresse, e scesse a 'u Paradiso,
Bella, non ci si' tu? Ju uu' ci trasu. (^)
S' intrassi in Paradisa santu santu,
E iiun truvacci a tia, mi n'esciria. {*)
In Paradise je a ce vad', o cara,
Se no a ce sì vo', a tome fora. ('")
Fior d'erba mora
Io me no vado in Paradiso, o cara,
Se non ci trovo te, ritorno fora. (^)
Sa jji me mor' e vvajje 'm baradise.
Se non gè trov" a tte, nemmene ce frase. (^)
Si lesse 'mparaviso cu' li sante
E min truvesse a te, me n' isciarria. (^)
E quando moro, vado iu Paradiso,
Se non ti trovo mi ritorno indietro. (^)
Quando passi di qua, passi cantando. (")
Quannu passu di cà, passu cantannu. ("j
(I) Nannarelli, pag. 36.
(■2) Vigo, n. 1718. Forse di origine letteraria: v. Pitek, StHiJJ,i>. 194.
(3) Imbriani, C. pop. prov. merid., I, 34-.3Ò.
(*) Viale, C. pop. corsi, Bastia, Fabiani, 1855, p. 235.
(5) GlANANDREA, p. 100.
(6) Lezione toscana presso di me.
(■) FiNAMORE, Vocab., p. 274, n. 13.
(8) Moi.iNARO, p. 134; e cfr. 268.
(0) MuELLER-WoLFF, p. 5. L'immagine è anche della poesia letteraria.
Jacopo da Lextino : Io m'aggio posto in core a Dio sei'vire Cam' io potessi
gire in Paradiso : Seirza Madonna non vi vorria gire Ch'el mi terria
in gran consolamento Veggendo la mia donna in yioja stare: v. Nannucci,
Mannaie, I, 12.3-5. Nel romanzo di Partenopeiis : Ciiite li clam (a Dio) son
Faradis, Se Dani ni entre od dar vis. Per altri raffronti, vedi Nannucci,
Manuale, I, 124. Aggiungi che il poeta tedesco Rììckekt imitò il sonetto
del Da Lentino, dicendolo nach eineni ultitalianischen iionctt: Mir in Uerzen
vorgenotnnien ecc.
(10; Tigri, Stornelli, n. 11.
(II) Vigo, n. 1001.
282 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
LA'i. In mezzo al mare c'era una colonna,
Quattordici notari a tavolino
Scrivevan le bellezze d'una donna. (^)
In mezo al mar glie xe 'na coIona,
Con dodese nodari a tavolino. (')
Fiore de lemone,
Quattordece nutare 'n davuline
Scrivene le bbellezze d'ju mij Amore. (^)
Lvii. In Paradiso senza scale andate.
Parlate con i Santi, e poi scendete. (^)
E vui, signnra, hi celu accliianati,
Parrati cu li Santi, e po' scinniti. (=)
LViii. All'erta, all'erta, che il tamburo suona,
I Turchi son armati a la marina. (^)
All'armi, all'armi, la campana sona,
Li Turchi sunu junti a la marina. (')
Ma sora mare, le campane sona,
I Turchi xe rivati a la marina. (*)
A Roma, a Roma le campane sona.
Li Turchi so' arrivati alla marina. (^)
(') Tigri, Stornelli, n. 19. Una miglior lezione presso di me: In mezso
dello mar c'è una colonna, Quattordici notari colla penna Scrivevan le bel-
lezze d'una donna. A Venezia si contentano di dodexe (Garlato, p. 265),
ma a Cento (Ferraro, n. 7) ce ne vogliono trentasia. Ai più bastano quat-
tordici.
(-) Bernoni, puiit. IV, n. SI; Caliari, p. 37.
(3) FlNAMORE, p. 321.
(4) Tigri. Stornelli, n. 9G.
(=) PiTEÈ. e. pop. sicil., I, n. 25.
(6) Tigri, Stornelli, n. 157.
(■) Vigo, n. 5177. Cfr. Piteìs, C. popol. sicil., I, pag. 108.
(8) Bernoni, pnnt. IV, n. 73. Cfr. Gaelato, p. 200.
('-') Gianandrea, p. 211. Il primo verso è sempre simile: il secondo
identico : varia il terzo. Nella versione toscana, il terzo verso accenna a
rapimenti di donne: nella sicuLa, concorde con altra meridionale (Im-
BRiANi, lì, 73), segue un consiglio sarcastico, che clii ha lo scarpe vecchio
le rinnovi; la monferrina (Ferrako, n. 47) e l'istriana (Ive, p. -27) ag-
giungono l'osservazione che chi lia la moglie vecchia la rinnovi, o chi ha
moglie bella se ne innamori; la lezione veneta conchiude: / Turchi .re
rivati ai do castei. Dove che fa la Irata i lìnranei. Questo serva di saggio,
e faccia vedere a quante diverse significazioni si prestino comuni priucijij
di Canti.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 283
Lix. Quante pietre ci vuole a fare un ponte!
Quanto ci vuole a farsi un fido amante! (')
Quantu petri ci vonnu a fari un ponti,
Tanni saluti mannu a la me amanti. (^)
Quant' mattune ci vo' pe' fa' 'nu pont',
Tant' suspir' pe' te agge 'ittat'. (")
Lx. 0 caro amuri, purtinii dir pummi. (*)
Moi'oso belo, portime dei pomi. (^)
Lxi. In mezzo dello mar c'è una tartana,
I Turchi se la giuocano a primiera. (^)
'Mmiezzo a lo mare è nata 'na scarola,
Li Turchi sse la jocano a primera. C)
E nata 'na scarola 'mmiez' ó mare,
Li Turche se la locano a tressette. (^)
LXii. Se ben che canto non son cantarina.
L'amor l'è grande, e io son piccolina. (')
r canto, i' canto, e i' nu' son cantareìna.
L'amor xi grande, e mei son pichineìna. (^°)
Lxiii. Quantu sì bella, Dio te benedica.
Pare che t'abbia pinto Santo Luca! (^')
Quantu sì bella. Dio te benedice.
Pare ca santo Luca t'ha pittato ! C'')
Ma qui facciam punto, sembrandoci clie il già
detto possa bastare al nostr'uopo. Concliiuderemo,
(1) TiOKi. Storn., n. 213. Cfr. n. 152.
(2) Vigo, n. 1426. Cfr. Purè, C. popol. sicil., I, 657.
(3) Imbriani, C. popol. proe. merid., II, 28.
(■*) Ferearo, C. popol. ìììonferr., Stramb. n. 86.
( ) Beknoni, punt. I, II. 40.
( ) Tigri, Storn., il. 125.
C) Imbriani, C. popol. avelliti., p. 35.
(8) MoLiXAEO, C. p. napolet., p. 187.
(0) Marcoaldi, C. popol. piemont., n. 24. Ma la deiivazioiie toscana è
evidente.
(1») IvE, p. 9.
(11) De Nino, p. 12.
(12) Imbriani, C. popol. avellin., p. 70.
284 LA POESIA POPOLARE 1TALLA.XA.
adunque, questi raffronti fra componimenti d'ogni
parte d'Italia, affermando che non si tratta di rasso-
miglianze generiche prodotte da conformità di sensa-
zioni e di vicende, come sembra opinare il Pitrè, C)
o da special esaltamento intellettuale e bollor di
passioni, come pensa il Lombroso, (") o da spontanea
tendenza all'idealità, secondo la sentenza dell' Im-
briani; (^) bensì di sostanziale identità del componi-
mento stesso, modificato qua e là variamente in
alcuni particolari col passar di bocca in bocca e
migrar di luogo in luogo, e derivato da una sola
fonte, che nel pili dei casi, è sempre la medesima.
Vili.
I raffronti fatti fra le versioni insulari e penin-
sulari dei Canti del popolo nostro ci menerebbero
dritti ad una plausibile congettura sulla origine e
le trasmigrazioni di quelli, e sulle varie fermate di
provincia in provincia, se in molti casi non man-
casse la serie intera e continuata dei paralleli. Il
lettor nostro già forse ormai intravede la conclusione
alla quale vogliamo giungere rispetto alla patria
della maggior parte dei Canti popolari; ma sin d'ora,
e prima di porre la regola e dimostrarla, dobbiamo
mettergli innanzi agli occhi le eccezioni ; le quali
vedremo poi se siano di natura tale, da infirmare o
da confermare la regola stessa. Non pochi Canti vi
(•) e. popul. sicil., voi. I, Profaz. p. 19.
(-) Tre mesi in Calabria, nella liiviata ConteDiporanea del 1863, fa-
scicolo 121, voi. XXXV, p. 415-ie.
(3) C. popol. di Somma Lombarda e Varese, nella Nuova Antologia
del 1867. voi. V, p. 190.
LA POESIA POPOLARE ITALLA.NA. 285
ha dunque, dei quali i ragguagli possono farsi tra
versioni di diverse provincie, salvo tuttavia o la Si-
cilia, secondo i casi, o la Toscana: la patria, cioè,
di origine e quella di adozione. Qualche volta, per-
tanto, dalla versione toscana non si risale alla si-
cula, ma i riscontri si trovano in altre provincie ;
qualche altra, non manca soltanto la lezione insu-
lare, ma anche la mediana. Anche per questo ri-
spetto ci sia concesso di procedere per via di esem-
plificazioni.
Un notissimo Canto toscano cosi enumera le
bellezze della donna:
Sette bellezze vuol aver la donna
Prima che bella si possa chiamare;
Alta dev'esser senza la pianella,
E bianca e rossa senza su lisciare;
Larga di spalle e stretta in centurella,
La bella bocca e '1 bel nobil parlare;
Se poi si tira su le bionde trecce,
Decco la donna di sette bellezze. (')
Se in qualche modo si riduca alla terminazione in
ella il primo verso, e trecce si legga all'antica trezze,
avremo una perfetta ottava, con certo sentore di
antichità. Non molto diverso ci si mostra il Canto
marchigiano :
Sette bellezze l'ha da ave' la donna,
Prima che bella se possa chiamare:
Dev'esse' alta senza la pianella,
Bianca e rossetta senza fasse bella;
La deve avere 'na bella statfira,
Larga de petto e stretta de centura:
Du' occhi neri con da' bionde trecce:
Queste se po' chiama' sette bellezze. {'^)
C-': Tigri, n. 78, G. Giannini, C. p. tose, n. IS') e Xieri, n. 725. Cfr., ma
senza renunierazione intera, Maesiliani, n. 90.
(^) GlANANDREA, pag. 199.
286 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
A Venezia:
Sete belezze glie vovia a una dona,
Perchè la se podesse ciamar bela;
Larga de spale e streta de sentura, (')
Carta de passo e 'na bela statura:
E ghe vorave dò bei oci in testa,
Nel so parlar che la fosse modesta:
E ghe vorave quatro bionde trozze:
Allor se poi clamar sete belezze. (^)
A Vicenza :
Sete belezze ghe volo a una dona,
Avanti la se fa^a clamar bela:
Piinia de tuto una bela andatura,
Larga de spale e streta in la cintura. (^)
Prima de tuto un'andatura bela,
Larga de spale e streta in centurella;
Prima de tuto de un bel cao de drezze:
E quele se ciama le sete belezze. (*)
In Lio'uria
Sette bellesse a deve avoi 'na fija,
Prima che bella si possa chiamare ;
A deve esse' bella e galantin-na,
Gras'iusetta nel so raxunare:
Larga di s'palie, s'treita di sentura;
(1) Questo solo verso, eonixino a quasi tutte le lezioni, è rimasto in
un canto napoletano (Moli.n'aro, C. pop. napoìet., p. 257):
Si t'he' a 'nziirare, pigliatella bella,
Kn' tanto bella eli e te fa paura;
Pigliatella nu poco schiavnttella.
Larga do spalle e strotta do centura,
Ca quannu The' a fare 'na vunnella
Sparagno seta, fil' e cusetura,
E quannu l' he" a fa' 'n'abbracciatella,
Pare ch'abbracce nu mazzo de sciure.
{-) Bekkoni, punt. I, n. L Cfr. Cai.iaki, p. 42, e lezione istriana in
IvE, p. 39.
(3) Meglio, altra lezione vicentina: Alta da fera .teiua la pìniiela.
(*) AlveiìÀ, n. <S6, 87 : Pasqualigo, C. p. vicent., n. 20. Una monca
lezione veronese è in Righi, ii. 57,
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 287
Quella si chiama bella di iiatiira;
E gli occhi neri colle bionde tresse:
Quelle si chiama le sette bellesse. (^)
Or qui non soccorre, come nei casi addietro visti,
ninna versione sicula, sebbene le sette bellezze della
donna non sieno ignote al Canto popolare dell'isola,
trovandosi in un d'essi:
Veni la donna di setti bellizzi. (-)
Ma le versioni centrali e settentrionali mostrano
evidente la loro derivazione da quella toscana, che
perciò, fino a prova in contrario, terremo per ma-
dre delle altre. Però questa versione toscana altro
forse non è se non un compendio di poesie anticlie,
del Tre o del Quattrocento, che trattano lo stesso
(1, BIarcoaldi, C. popol. ligia-i, n. 18: e con qualche diversità, in
Celesia, Savignone e Val di Scrivia, Genova, 1874, p. 94. Cfr. lezione bo-
lognese in Cokazzini, 192.
{-) Vigo, n. 147, 4.30. Cfr. un Cinto marchigiano in Giaxasdeea, p. 72:
L'avete tutte sette le bellezze. Ma in alti'o di Cento (Feebaro, n. 7. p. 81)
le bellezze femminili sono nove : e in un Canto siculo recato dal Salo-
mone-Maeixo, n. 18, esse salgono a trentatre: vero è che non vi sono enu-
merate : ma però si leggono tutte ben distinte e raggruppate nelVEijloga
(li Fileho e Dinarco pastori, che trovasi fra le rime di V. Calmeta (C'iii-
vasso, GaiTone, 1529} riprodotta da S. Mokpurgo insieme al Costume delle
f?o«»e (Firenze, libr. Dante, 1889). Il numero, come si vede, cresce e cala:
per Jacopo di Dante sono dieci; in alcuni testi francesi, sessanta o set-
tantadue; pel BRAjrrÓME trenta; ma per Hans Sachs, diciotto. Una frot-
tola del sec. XIV (in t-ropugnatore, XIV, 2, 289) ne accenna nove : mentre
A. Pucci, esposte "le bellezze che suole avere una donna,, nonne dà il
preciso numero. Ti-entatre, disposte al solito modo, sono anche per I'Alunxo
nella Fabbrica del mondo (v. Mokpurgo, op. cit., p. 34). In un libro raro e
curioso intitolato Idea del giardino del mondo di Mess. Tommaso Tojiai da
liavenna, fisico ed acccdeniico Innominato, Bologna, 1742, è detto a pag. 94
che " bellezza di donna vuol trenta cose, distinte a tre per tre „. e dopo
averle enumerate, si allega l'autorità di Giovanni Xevizzani nel suo Xiqj-
tiale, lib. II, n. 93, per asserire che Elena le possedeva tutte quante. Ma
per maggiori ragguagli sulTargomento si veda la nota del Kohlee in Im-
BKIANI, La Posileclieata di I\ Sarnelli, Xapoli, Morano, 1885, p. 120; Kenier.
Il tipo estetico della donna nel medio-evo, Ancona, Morelli, 1885, p. 119; e
V. Rossi, Lettere del Calmo, p. 292. — Per Tenumerazione delle bellezze
dell'uomo, vedi G. Volpi, Note di varia erudizione, Pistoia, 1903, p. G3.
288 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
argomento delle bellezze della donna, recandole però
fino a diciotto. Noi ne abbiamo dinnanzi due ver-
sioni, alquanto divergenti fra loro, ma in am1)ediie
le quali si riscontra qualche verso o frase del Ri-
spetto. In una già a stampa :
Prima esser lunga senza la pianella....
Efc vuole esser sottile in centureila. (')
Di quella inedita riferiamo quanto la decenza con-
sente :
Se per ventura à diciotto bellezze
Ciascuna donna, è ben perfetta e bella;
Prima vuol esser lunga, e no' in pianella,
Le braccia e '1 collo; e queste è tre lunghezze.
La bocca e 'I mento e '1 pè son tre cortezze,
E assai ben compresa in centureila;
]je dita di sua man vói aver ella
Col naso e colla bocca in sottigliezze . . .
La gamba e '1 braccio e l'occhio grosso a sponda,
Bianco il dente, e l'occhio suo bianco,
Negre luci, le ciglia aperte in fronda.
... Se cotal donna ara la trezza bionda,
Di le' mirar no' mi vedrò mai stanco.
Fra tutte donne Amor vole e comanda
Che di beltà costei porti ghirlanda. (^)
Ecco altri casi ancora, ne' quali il Ivispetto to-
scano non si raffronta a lezioni siciliane, ma sì ad
altre del mezzogiorno. Dice, dunque, il cantore to-
scano:
La lepre va pascendo rv?rbe fresche.
Non vede il cacciator che l'imprigiona;
Il tordo se ne vien dalle foreste,
E quando sente il fìstio s'alibandona;
(1) Wesselofsky, KoveUa ileìla figlia del Re di Dacia, Pisa, Kistri.
ISfiC, p. XXV.
(,2) Codice lidia Bibl. Comunale di Perugia, C. 4.1, cart. 37.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 289
Il pesce in mare nota per dolcezza;
Così face' io della vostra pei'sona.
Cosi face' io, bellina, e tanto t'amo,
Che son rimasto al fistio, al canto, all'amo;
Così face' io, bellina, e t'amo tanto.
Che son rimasto al fistio, all'amo, al canto. (')
La lezione di Terra d'Otranto presenta maggior
perfezione di rime, ma vi si nota la ripresa finale
all'nso toscano : sicché per qnesto fatto si potrebbe
conchiudere che il Canto sia nato nel mezzo d'Italia,
anziché nello stremo:
Lu turdu vae vulandu alla fnresta,
Sente lu fiscu, e ratta sse 'bbanduna;
La cerva vae pascendu l'erva 'resta,
Nu' bidè lazzu, e sula sse 'impriginna ;
Lu pisce vae natandu all'acqua fresca,
Nun bidè l'amu ci morte li duna:
Cussi 'ccappai cu' tie, ci tantu t'amu,
Tie si' la pescatora, e puerti l'amu ;
Cusì 'ccappai cu' tie, frunti de fata,
Jeu su' la cerva ci stau 'mprigiunata ;
Cussi 'ccappai cu' tie, stiddha lucente,
La prima fiata ci te tinni mente. (-)
Di questo che segue abbiamo riscontro perfetto
con altre lezioni :
Bella, bellina, se vieni alla vigna, (")
Ti ce l'ho fatta una gentil capanna:
Il letto te l'ho fatto di gramigna,
('^ Tigri, n. 276 e Xieri, n. 4. Un'.iltra lezione A'vie:
Il pesce in mare nota per dolcezza,
Xon vede l'amo che morte gli dona.
E così faccio io da che vi ho visto,
Come fa il pesce all'amo, il tordo al fistio:
E così faccio io. che tanto v'amo
Come fa il tordo al tistio, il pesce all'amo.
(-) Imbriaxi, C. popol. prov. inerirl., II, 425.
'■') Xella forma tetrastica umbra (.Mazzatinti, n. 27) qui erroneamente :
aJIa guerra,
D'Ancosa, La poesia pop. Hai. — 19
290 LA POESIA POPOLARE ITALIAKA.
E le lenzuola di foglia di canna:
In questo letto tutto gentilezza,
Vieni, riposerai con dolcezza. (')
Esclusi questi due ultimi versi, la cui leziosaggine
è patente, sicché sanno d'apocrifo, abbiamo il se-
guente ragguaglio in vernacolo abruzzese :
Care, si voi venir cu nime a la vigne,
Te U'aggiu fatte na bbella capanne;
T'aggiu fatte nu lette de gramigne,
Lu capezzale de fronna de canne. (^)
E, sebbene un po' malconcio, è facile riaccostarvi
anche il seguente Sfraììioffo (^) monferrino :
0 caro aniuri, andumnia a ra me vigna.
Si farumma ì'n lettu di gramigna;
Pir lensoi farumma ina foja di cana,
E pir cuerta ra steira diana. (*)
Medesimamente un semplice tetrastico teramano
corrisponde al Rispetto colla ripresa, che cosi suona:
Che giova dir: ci amiamo, sì, ci amiamo?
Che giova lo volerci tanto bene?
Che giova che a una tavola mangiamo,
Se poi di casa non istiamo insieme?
Che giova del limone avere il gambo,
E non poterne avere al suo comando?
(1) Tigri, ii. 49.3. Vengono a mente a questo propo.sito certi versi del
EoNSAED (ediz. Blancliemain, Paris, .Tannet, 1857, I, 190):
Je veiix faire un beau liet d'une verte joncliée,
De parvanclie fucilluo encontro bas couchée.
De tbym qui fleure bon et d'aspic porte-epy,
D'odorant poliot contre terre tapy.
De neufard tousjouis-verd qui Ics tal)les imite.
Et de Jone qui les bords des rivières liabite ecc.
(") Molina RI DEL Chiaro. C.pnpol. tercnnesi, n. 26: cfr. Fin amore, 11,22;
SCHERILLO, 11. 11; SeVERINI, p. 189.
(3) Cos\ scrive il Ferrako. C. popol. ìiionf evi-ini, Stramb. n. 5G, 64:
(ma al n. 112: Strambot). — Cfr. per la forma veneta, Garlato, p. 349 e Ca-
LIARI. p. 144.
{*) Ferrako, ibid., n. t>' : Nk;ra, p. 577.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 291
Che giova del limone avet la foglia,
E non poterne aver quand'un n'ha voglia? (')
E in Abruzzo , con più perfetta rispondenza di
rime :
Che sserve che ti;a mnie gam' e i' te game?
Che sserve cusctu bben che nce vnleme?
Che sserve c'uniti a ttaula mangiarne,
Quande la notte nnu ddurniini'assieine? (^)
Versioni mediane, settentrionali e meridionali,
escluse però sempre le insulari, offre il seguente Ri-
spetto :
Non posso più di notte camminare,
Che ni'è contrario il lume della luna;
Non posso più le gente praticate,
Che non ci trovo fedeltà nessuna:
Non posso praticar più colla gente,
Che non ci trovo fedeltà di niente. (^)
A Lecce :
Nun bogghiu cchiù de notte camenare,
Percè de notte nce luce la luna:
Nun bogghiu cchiìi co' donne pratecare,
Ca culle donne nun ci aggiu furtuna:
Nun bogghiu cchiù la rete minu 'mniare,
Ca nim'ae centra lu 'jentu e la fortuna. (*)
Ma il tetrastico veneto deriva verisimilmente dal
Canto toscano:
No posso più de note andar a spasso,
Perchè al contrario gò sina la luna:
Fava l'amor, no lo vogio più fare.
Perchè non trovo fedeltà in nissuna. (^)
(1) Tigri, ii. 145.
(2) MoLiNARi DEL CHIARO, C. pop. terain., 11. 25.
(3) Tigri, ii. 1127.
(•t) Imbriani, C. popol. proi'. mei-idinn., I. 183.
(6) Dal Medico, p. 115; Bernoni, punt. II, ii. 41.
292 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
E similmente il Canto istriano, che aggiunge altri
quattro versi :
Nun posso pioùii de nuote camiiiare,
Perchè vago al cuii travio de la loùna:
Nun posso né cun ponte raginnare,
Cameino incontro al vento e la Fortonna.
La Fortoiìna m'à ciulto per filgiolo,
E mei ra(;ieto cnine mare meìa ;
E per mnjer i' prenderò la loùna,
Dirò ch'i' son tilgiol de la Fortoùna. (')
Lo stesso caso è da notare pel seguente Ri-
spetto: che, cioè, non soccorra niun ragguaglio di
lezione sicula :
Bella, che censessanta ne chiamate,
E centottanta innamorati avete,
E quando alla finestra v'affacciate
Come un branco di storni li vedete;
Amane uno, agli altri dagli bando:
Se toccherà a me, sarà mio danno;
Amane uno, e agli altri dai licenza:
Se toccherà a me, avrò pazienza. (-)
Nell'Umbria, al tetrastico si aggiunge soltanto:
Chi con un sguardo, e chi co' un baciamano.
Tutti, bellina, ve li mantenete; (^)
e nelle Marche invece:
Quanno dalla finestra t'affaccerai
Come un branco de storni li vedrai. (■*)
Ma in Terra d'Otranto, con forma più compinta
delle altre:
(1) IvE, p. 105.
ip) TiciRr, 11. 009: olV. Cìiannini. ('. pop. pis., ii. S.
(•') Marcoai.di, C. lìupol. umbri, il. HO. In .iltr.i lezione miilirii plAZ-
ZATINTI, n. 240): Bella, che cinquecento vi chiamale E cinquecento 'nnaniovati
avete. Quando sarete per prende' marito, De cinquecento 'n ce n'hai tino amanti'.
Cfr. Marsiliant, n. 712.
(») GlANANPREA, ]). 130.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA, 293
'Na donna Cinquecentu sse chiamava,
Ca cinquecentu 'nnamuiati avia:
Quandu de la fenescia sse 'nfacciava
Conni 'nu sciamu d'api li vidia;
A ci 'nu lisu, a ci 'na basanianu,
Tutti cori contenti li facia;
'Rriau Tura de In 'nimaretare,
Nuddlui de cinquecentu la 'nlia. (')
Infinite varianti, ma sempre nessuna insulare, ci
dà il Canto che in Toscana suona così:
]1 primo giorno di Calen di Maggio
Andai nell'orto per cogliere un fiore;
E vi trovai nn uccellin selvaggio, (^)
Che discorreva di cose d'amore:
— 0 uccellin che vieni di Fiorenza,
Insegnami l'amor come comincia. —
— L'amor comincia con suoni e con canti,
E poi finisce con dolori e pianti ;
L'amor comincia con canti e con suoni,
E poi finisce con pianti e dolori. — (^)
Talvolta altri prende il posto dell'uccellino, e altri
luoghi sono surrogati a Firenze, che però predomina
sui diversi paesi. Così, a Bergamo:
— 0 piacenti, che vien da la Piacenza,
Disimi un po' l'amor dov'el comenza ? —
(1) IjiBRlANi, C. popol. 2)rov. meriflion., II, 235: Mandalaki, p. 19");
FiNAMORE, Vocab., p. 333; ima lez. napol. (Molinaro, p. 226): 'Xa ronna
Setteciento se chiammava E setteriento 'naminuvati aveva ecc. Eidotto a Stor-
nello, in Blessig, part. II. ii. 22.
(-) In un canto popolare francese (Rolland, Herueil de Ch. popid.
frani;., Paris, 1882, IV, 39) è un usignuolo :
Darrié clieu nous lui a-t-un vert bocage,
Le rossignol y chante tous les jours.
En y disant dans son charmant langage:
Les amoureux sont mallieureux toujours!
(3) Dalla mia Raccolta ms. ; il Tigri, n. 322, finisce col verso 8»:
altra lezione toscana, in A. Giannini, C. pop. pis., n. 41-2. Cfr. per r Um-
bria, Mazzatinti, n. 98 ; pel Veneto, Garlato. p. 414 ; pel Piemonte,
NiGRA, p. 578.
294 LA POESIA POPOLARE ITALLWA.
— L'amor comenza a ridar e a scherza,
E po' el finisse a pianz e sospira. — (')
In Avellino con forme non veramente vernacole:
— Bella, elle vai e vieni da la Francia,
Dimmi l'amore come ss'accomincia?
— Ss'accomincia co' suoni e co' canti,
E sse finisce co' pene e tormenti. — (^)
Altrove chi parla è nn confessore, come in questa
lezione marchigiana:
La prima volta che passai lo mare.
Trovai una cliiesola bella e fatta;
Drento ce stava un frate confessore,
Che confessava le donne d'amore;
E '1 confessore era de Firenza,
Volea sape' l'amor come comenza:
L'amor comenza con soni e con canti.
Poi finisce con lagrime e con pianti;
L'amor comenza con canti e con soni,
E po' finisce con lagrime al core. (^)
Altro principio, per agglomerazione in uno di due
Canti diversi, ha la lezione istriana:
E mei ch'i iè fato gniera cui meio Amure,
E loù m'uù cundanato in la sentenzia.
Andaremo davanti li duturi;
Guiera de amur a nu' se tien ndienzia.
(1) Imbriani, C. popol. proi\ lìierìdion., I, 43.
(-) Imbriani, C. popol. avellinesi, p. 15: Molinai;», C. pop. napolet.,
p. 2G9.
(3) GiANANDREA, p. 162; FiNAMORE, II, 67. Cfr. coii Li lezioiie vicentina
(Pasquai-igo, C. p. vicent., n. 25), in Imbriani, C. popol. prov. merid., I, 45:
e vedi ivi T ipotesi, alla quale non consento, die nel predicatore men-
zionato dalla sola lezione vicentina sia indicato il Savonarola. E nemmeno
consentirei con C. Tenoa ij'roxe e poesie sceUe, II, 255), clic a causa del
comenza, l'origine del canto fosse lombarda, e anclie perchè i suoni o
canti della forma toscana appaiono " amplificazione rettorica „ di rider
e scherza. In altra lezione vicentina (AlverX, n. 40) clii rispondo al
dubbio è rAmore: in una toscana da me raccolta: L'n mnralor venuto da
Venezia. Il Dai, Medico, p. 165, riferisce questo Canto inoastrato in una
Ninna-Wanna.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 295
Guiera de amur e guiera d'InfiureiiTia:
Deìmela a mei, cume la se scumenzia?
— La se scumenzia cun soni e cun canti,
La se furneìsso cun lagreme e pianti;
La se scumienza cun zoghi e cun reidi.
La se furneìsso cun pianti e suspeiri. — (')
Il Canto ci sembra più perfetto nella forma toscana,
che non nelle rimanenti, clov'anclie abbondano i to-
scanesimi ; né ci farebbe ostacolo la voce comenza
che dovrebbe porsi al v. 6 sull'esempio delle va-
rianti di altre regioni, perchè anticamente così di-
cevasi anche in Toscana, e il noto poema del fioren-
tino ser Brunetto comenzava appunto così :
Lo Tesoro comenza:
Al tempo che Fiorenza
Fiorìo e fece frutto ecc. (-)
Questi che ora registreremo sono Canti toscani
con rispondenza di altri del Lazio:
Bella, bellina, quando vai per acqua
La via della fontana ti favella;
E '1 rusignol che canta per la macchia,
E' va dicendo che sei la più bella:
Sei la più bella e la più graziosina.
Sembri una rosa colta sulla spina;
Sei la più bella e la più graziosetta.
Sembri una rosa in sulla spina fresca. (^)
In Arlena si canta il solo tetrastico:
E quando Maddalena va per l'acqua
Il fresco della fonte le favella:
Gli uccellini che stanno per la macchia
Vanno gridando: Maddalena bella. [*)
(1) IvE, p. 244.
('-) V. altri esenipj di comenza anclie fuori di rima in antiche scrit-
ture toscane presso il Nannucci. Voci derivate dal Provenzale, Firenze, Le
Monnier. 1840, p. 104.
(.3) Tigri, n. 1G6.
(*) Nannarelli, p. 34.
296 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
In Toscana :
Ti possa intravvenir come a quel cane
Che andò alla riva di quel dolce fiume;
In bocca aveva un pezzolin di pane,
Allo snieriggio gli parevan due;
E lassò quello per aver quell'altro,
Rimase senza l'uno e senza l'altro;
Così potesse intravvenire a te,
Rimaner senza lei e senza me. (')
In Arlena :
Bella, non fate come fece il cane.
Che camminando alle prode del fiume,
Ci aveva in bocca 'na fetta di pane.
Dentro dall'acqua gli parevan due;
Lassò quell'nna per pigliar quell'altra.
Rimase senza l'una e senza l'altra. (")
In Toscana :
E ti credevi colie tue parole
Di un tigre, di un leon fare un agnello,
E ti pensavi di aver fermo il sole,
L'acqua del mare di farne un vasello.
Ti pensavi d'avermi alla catena,
M'avevi per un filo a mala pena ;
Ti pensavi d'avermi incatenato,
M'avevi per un filo, e s'è strappato. (^)
In Arlena, accodandovi uno Stornello:
Che te credevi co le tue parole
Da serpi e da leon formarci agnelli?
Che te credevi d'incantarlo il sole?
Metter l'acqua del mar dentro un vascello?
Te voglio mette' nome Spreca-amore,
Che fermo non ce stai col tuo cervello ;
Te voglio mette' nome Va-e-vieni,
Te metti a fa' l'amore e non sai fare.
Te metti a fa' l'amor, non lo mantieni. ("•)
(i) Tigri, n. 736. Lezione iimlua in Mazzatinti. n. 320.
(") Nannarei.i.i, p. 41.
(3) Tigri, n. 102r,.
(*) Kannabeli.i, p. 18.
LA POESIA POPOLARE ITALIAXA. 297
In Toscana:
E sono stato in fino in Bettelemme !
Eccomi, caro amor, son ritornato:
L'albero va dove la cima pende,
L'uomo ritorna dov'è innamorato.
L'albero va dove pende la cima,
L'uomo ritorna dalla dama prima:
L'albero va dove pende la rama, (')
L'uomo ritorna dalla prima dama. (^J
Nel Lazio :
Mi son partito da Gerusalemme,
Ecco che avanti a voi sono arrivato.
L'albero va dalla parte che pende.
L'uomo ritorna do' s'è innamorato;
La fronda va dove lo vento vuole.
L'uomo ritorna do' ha lasciato il core. (^)
Nel seguente la forma toscnna, appunto per l'in-
tenzione di localizzare il Canto, si direbbe meno
perfetta nelle rime, e perciò non primitiva:
0 bello, che di maggio rivenisti.
Passasti per lo mezzo alla Toscana,
Dove passasti gli alberi fioristi.
D'oro e d'argento portasti la rama:
Poi alla sera dove tu dormisti
Rose e viole il tuo fiato spirava :
Alla mattina quando gli occhi apristi,
Allora appunto il sole si levava:
Bello d'amor vi possono chiamare;
Vostri begli occhi fanno il sol levare. ("')
(1) Rama è voce clie ritorna spesso ne' Canti toscani, specialmente
in rima con dama, ma non è forma soltanto toscana, e nell'uso del con-
tado, pur fuori di canto e di rima. s"i anche sicnla: cfr. Vigo, n. 1864: rama
di fimi; lì. 10tì9: Di gilusia n'havi'na rrania ; n. 2346: Chista è la riama
di la gilusia ; n. 2465: Una rrama d'Amiiri mi manteni ; n. 2381: Veni a
pusari 'nta la megghitt rama ; n. 2384 : Ardi hi ziirfu. e cunsuina la rrama, ecc.
(2) Tigri, n. 719.
(3) Marcoaldi, C. popol. latini, w. 19.
(4) Tigri, n. 704.
298 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
Lievi variazioni mostra la lezione picena, che per
aver rime perfette clirebbesi più presso alla forma
originale :
0 bello, che de Maggio rivenisti,
Pe' rivedere la tua cara dama;
'Ndo' che passasti l'alberi fioristi.
D'oro e d'argento portasti 'na rama:
Da po' alla sera 'iidove tu dormisti.
Rose e viole il tuo fiato spirava,
E alla mattina quanno l'occhi apristi,
Allora appunto '1 sole se levava:
Bello d'amor te se puole chiamare.
Ch'i tua bell'occhi fanno '1 sol levare. (')
Dalla media Italia passiamo alla superiore, e
registriamo Canzoni toscane che hanno raffronto
solo con venete. Ecco un lamento cFamore in forma
di Rispetto:
Ho visto per pietà movere un sasso.
Un legno trasmutarsi dal suo loco :
Bella, per me non movereste un passo, (^)
Ed io per voi starei sempre nel foco.
Sto nel foco, e consumo la mia vita;
Vo' siete un'ambra, sole e calamita;
Sto nel foco, e consumo lo mio core:
Vo' siete un'ambra, calamita e sole. (•')
Il solo tetrastico è passato ai Veneti :
Go visto per amor spessarse un sasso,
Un albaro partirse dal so loco:
Toni per me no movarave un passo,
E mi per lu' anderìa in ardente fogo. (■*)
v'I) GlANANDREA, p. 20.
i") Serafino dell'Aquii,a in ino Stiaiuliotto:
E tn, ciiuiele. iioii fare.sti mi passo.
(3) TitìRi, 11. 527. Cfr. Livi. i>. l«.
(*) Bernoni, punt. VL ". U. Cfr. I>al Medico, p. 7.">, 84.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 299
Parrebbe pertanto originale la forma toscana,
della quale troppe vestigia restano nella dizione ve-
neziana : e così nel caso seguente :
A Napoli s'è fatto lo consiglio,
Che non si piange l'uomo quando muore:
Piange la madre quando alleva un figlio,
Che lo fa schiavo e servitor d'amore :
Piange la madre quando il figlio alleva,
Che lo fa servo e schiavo di galera;
Piange la madre quando il figlio allatta,
Che lo fa schiavo e servitor di piazza. (')
E a Venezia :
A Napoli xe sta fato un consegio.
Che no se pianza l'omo quando el more:
Cussi la dona quando la fa un filgio
Sa dove el nasce, e no dove eh' el more. (-)
Anche da quest'altro è stata stralciata la ri-
presa toscana :
Giovanottina, chi v'ha fatto gli occhi.
Chi ve gli ha fatti tanto innamorati?
Di sotto terra cavereste i morti,
Del letto levereste gli anjmalati ; (^)
Di sotto terra cavareste mene:
Mi son cavato '1 cor, l'ho dato a tene. (^)
A Venezia:
Sia henedeto chi t'à fato i ochi,
Chi te l'à fati cussi inamorati.
Che de la terra resussita i morti,
E dal Ietto risana i ammalati. (^)
(1) Tigri, n. 537.
(2) Beenoni, piint. IV, n. 88. Cfr. lezione istriana in Ive, p. 120.
(3) Cfr. Vigo, n. 188: Tanti malati cc'è, Canti ni sana.
(4) Tigri, ii. 108: cfr. Rondini, p. 46.
(5) Dal Medico, p. 27. II primo verso di questa lezione è più simile
a quello della lezione marchigiana raccolta già dal Leopardi in Recanati:
Io benedico chi t" ha fatto gli occhi.
300 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
E qui pure il Canto veneziano ha tolto via la
ripresa del corrispondente toscano :
Era una volta clie t'amavo tanto,
Ora non me ne fa più fantasia:
S' i' ti vedessi mettere all'incanto
Per un quattrin non ti ricomprerìa:
S' i' ti vedessi mettere alla tromba,
Non ti ricomprerìa dalla vergogna.
S' i' ti vedessi iscritto su d'un foglio.
Amici più di prima, e non ti voglio:
S' i' ti vedessi iscritto in sulle carte,
Amici più di prima, amor da parte. (')
A Venezia:
Gèra una volta che te amava tanto,
Adesso m'è passa' la fantasia:
Mi te vorrìa veder in t' un incanto,
Che per un bezzo no te scoderia. {-)
In quest'altro caso la ripresa e rimasta, ma va-
riandone le parole:
Cara compagna, non ti sgomentare,
Che degli amanti n'è tanti per via;
E n'è sbarcati una barchetta in mare.
Di que' più belli che nel mondo sia; (^)
E n'è sbarcati una barchetta al porto:
Per un sol bolognin ne dan diciotto.
E n'è sbarcati una barca a Piombino:
Ne dan diciotto per un bolognino. C)
Sarebbe però difficile assei-ire che la lezione veneta
non possa esser l'originale:
[^ Tioiìi, 11. losi.
(-) Dai, Mkdico, p. V22. CIV. Bi:nNOxi. juuit. Il, ii. :!8, E lezione i.stiiaiia
in IVE, p. ItU.
(^) Questi duo versi, ma in bocca di donna, si fiovano anche in un
Cauto presso Makcoai.di, C. popol. Hi)., u. 'ìì.
0) Ticinr, n. 1108. Cfr. n. 1014 e lOól ; Giannini, p. l'JS. Ma ora w'h
venuta fuori una lozione uapolot.nna in Mólinaro, e. j'op. >i<ipo!el., j). 100,
e altro uieridionali .sono notate in (ìahi.ato. p. 27-.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 301
Amore, aiiioie no te tliibitare,
Cile de le (Ione no glie ciirestia:
Glie n'è rivato una barcìieta in mare,
De le più bele che al mondo glie sia.
De le più bele e de le più galante,
Anzola bela supera la parte:
La supera la parte e la partia:
Anzola bela xe l'anema mia. (')
Il seguente artificiosissimo Rispetto trovasi in
Toscana e a Venezia: ma nel dialetto, pur serbando
intatte le rime, sembra quasi star a disagio. In To-
scana, adunque, si dice:
Voglio fare un invito d'amatori,
Voglio invitar gli sfortunati amanti; ('-)
Da mangiare vo' dar pene e dolori,
E da bere darò lagrime e pianti.
I sospiri saranno i servitori
Glie serviranno a tavola gli amanti:
Poveri amanti, a che siete ridutti.
Per un amante avete a morir tutti! (^)
A Venezia la chiusa è variata e senza nesso col
resto :
Vogio far un iiivido di amatori, (^)
E invidar vogio i sconsolati amanti:
Da magnar ghe darò pene e dolori.
Da bever ghe vói dar lagreme e pianti.
(1) Dal Medico, p. 153, e C. popol. di Chio<)i)iii, n. 5. Cfr. Alverà,
11. 56: Ciarlato, p. 220. Il solo tetrastico in Bernoni, pimi. VII, ii. 2; Ive.
p. 166. Una lezione ligure, ma di evidente origine toscina, in Marcoaliii.
C. popol. lì(j., n. 57. Cfr. pel Friuli Gortani, n. 12 e Arboit, n. 65: per Roma,
Blessig, I, .321.
(-) In una lezione consimile, al ii. 1110. il Tigiu. ha lasciato correre:
rtffoitunuti.
ts) Tigri, n. 1117.
(■•) Questo verso ritorna in un Canto veneziano del Bertoni, pun-
tata VII, n. 81:
Vogio fare 'na ^ena de amatori;
E vói invidare tutti i tartanari:
In tola glie sarà stogi e barboni ;
Vogio fare 'na (^ena de amatori.
302 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
E li sospiri sarà i servitori
Che servirano le tele d'i amanti:
E sta mia vita te la lasso in pegno,
Sto cor incatena sina che vegno. (')
Una buffonesca discesa all'inferno è così nar-
rata in un Canto toscano:
Andai all'Inferno e vidi l'Anticristo,
E per la barba aveva un molinaro,
E sotto i piedi ci aveva un tedesco,
Di qua e di là un oste e un macellaro :
Gli domandai quale era il più tristo,
E lui mi disse: Attento, or te l'imparo.
Riguarda ben chi con le man ranipina:
E il mulinar dalla bianca farina.
Riguarda ben chi con le mani abbranca :
E il mulinar dalla farina bianca. (*)
Dalla quartina se ne va allo stajo;
Il più ladro fra tutti è il mulinajo. i;^)
E a Venezia:
So stato a Roma e ò visto l'Anticristo,
Soto la barba el gaveva un tedesco:
E soto i pie el gaveva un mulinaro,
Quelo che pesa giusto e vende caro. C)
Qui sarebbe difficile l'asserire che la forma nioìinaro
o Dìolinajo non sia toscana, e perciò offra indizio di
derivazione aliena del Canto, quando la veggiam pure
adoperata qualche secolo addietro dal Barberino e
dal Sacchetti. E se anche in altri casi volessimo da
parole o desinenze trarre induzioni circa alla prima
(1) Dal Medico, p. 71.
('-) Questi iiltinii quattro versi sono innostnti in un Rispetto ni.irolii-
giano di altro aigoiuento, presso Gianasdrea. ]i. 1"i7.
(3) TiGKi, n. 1184.
{*) Bernoni, punt. I, n. 04: Gari.ato, p. 459; Caliari, p. 124; ag-
giuntivi altri due versi, in IJal Medico, p. 188. Lezione istriana in Ive,
p. 228; di Lagoscuro, in Feriìaro, ii. 61. piemontese in Nioea, p. 582: ro-
mana, in Sabatini, in Jiii>. lett. popol., I, 2G e in Menohini, n. 247.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 303
origine dei Canti, non andremmo maggiormente sul
sicuro. Ad esempio questo Rispetto, ciie va fra' To-
scani :
Oh quante me ne fa questa puttella, (')
potrebbe farci supporre una prima forma veneziana:
eppure il Forteguerri, scrittore toscanissimo, ado-
pera putteììi per giovanetti I
É noto il bel Rispetto toscano, che dice:
Questa partita la vo' far piangendo
E sospirando per tutta la via:
E gli ocelli bassi e la niente dicendo:
Ove ti lascio, dolce anima mia?
Ove ti lascio, mazzo di be' fiori?
Alla partita mia pianti e dolori. (-)
Nella forma veronese ci pajono evidenti le remini-
scenze dell'esemplare toscano:
La bona sera te la do piangendo
E lagrimando par tuta la via:
Le mane al peto, e la boca dicendo:
Andò se vedarenti, anima mia?
Anima mia, anima mia, che fètu,
Le to belezze a ci le lassaretu?
— Le mie belezze no jè da lasciare.
Parche soto tera jè da portare — . (^)
A Chioggia questo Canto è divenuto l'addio della
sposa alla casa paterna:
Tiogo partenza, la tiogo pianzendo
E lagrimando per tuta la via.
La mano al peto, e la boca disendo:
A rivederse, cara mania mia ! (^)
(li Tigri, n. 1016.
(-) Tigri, li, 590. Cfr, Imbriani. C. popul. avellhi., p, 29. Cfr. con una
antica Canzone di partenza pubblicata dal Gian, in Giom. stoi: leti, ital,,
IV, 48.
(3) Righi, u. 79. Gli ultimi quattro versi appartengono al Canto: M'h
stato detto che ne rien la morte, di cui a p. 198; cfr, Caliari, p. 195,
(*) Berjìoni, Tradizioni popolari veneziane, Venezia,, Antonelli, 1S59,
304 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
Invece nel vicentino il primo tetrastico toscano serve
di chiusa ad altro Canto:
Dago la bona sera in questa casa
Prima dai copi infina al fondamento:
Prima la dago a in', patron de casa,
E po' a la gioventù che glie sta drento:
E se '1 patron de casa no' glie fosse,
Dago la bona sera a le so' piite:
La bona sera a la dago piangendo,
E lagrimando per tuta la via.
Le mani al peto e la boca disendo:
Quando se vedaremo. anima mia?(')
Osserva lo Sclmcliardt (") che la menzione del
mare in un Canto del popolo non può essere sufficiente
argomento dell'origine di quello presso popolazioni
marittime, essendo l'idea del mare comune anche a
genti abitanti dentro terra: cosicché, se ciò fosse,
non potremmo dire posteriore e derivata rispetto
alla veneta, la lezione toscana del Canto che segue;
senza che, poi, anche la regione nostra è bagnata
dal Tirreno:
Tu sei di là dal mare, e non m'intendi;
Passa di qua, e tn m'intenderai:
Tu m'hai rubato il core e non lo rendi.
Va a confessarti e me io renderai.
Va a confessarti, e confessati bene.
Che la roba degli ali ri non si tiene;
Va a confessarti, e confessati giusto,
Che la roba degli altri non fa frutto. {^)
La lezione veneta ha ([iia o hi deiraulico:
0 tu di là dal mar che non m'intendi,
Vieni de ((ua clic tu ni' iiitcnderiii.
p. Ili; Wiutkiì-Woi.i'. m. 4.'). In (iAh-i.ATo, p. :!!)'.», lia osiii-essaniciite il ti-
tolo (li " Canto della sposa unaiuio aliliamluiia i genitori „.
(1) AlverÀ, n. 1.
-') <>i>. cit., p. 11,';.
(3) Tnuìi. 11. «."iti.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 305
Tu m'ki rubato '1 cuor, vien, me lo rendi,
Cagna, sassina, noi credeva mai.
Cagna, sassina, prendi sto pugnale,
Ferissi '1 peto mio, ch'io vo' morire:
Per quante stiletàe che tu mi dai,
Damene un'altra, che morir mi fai. (')
Anche in quest'altro ov'è ricordato il mare, po-
trebbero le Marche, la Venezia e la Liguria conten-
derlo alla Toscana:
Fossi sicuro di poterti avere,
L'arte del marinajo vorrei fare :
Dipinger ti vorrei nelle mie vele.
Dipinger ti vorrei nella mia nave.
Oh che diranno la gente che vede.
L'amor del marinar dipinto in vele !
Oh che diranno la gente che passa,
L'amor del marinar dipinto in barca! (-)
Fra' Piceni :
Se fossi certo di poterti avere.
L'arte del marinaro vorria fai-e:
Dipinge' te vorrìa nelle mie vele.
In Francia bella te vorria portare:
E te vorria mena' do' se fa guerra.
Dove se tira li colpi d'amore;
Dove se tira li colpi mortali:
Bella, sei nata per farmi penare.
Dove se tira li colpi più forte;
Bella, sei nata per darmi la morte.
Dove se tira li colpi gentili ;
Bella, sei nata per famme morire. (^)
(1) Dal Medico, p. 101 ; cfr. Gaelato, p. 356. Il solo tetrastieo in
Beknoni, punt. IV, n. 49, e in Gianandrea, p. 17. Nella lezione veronese
.presso Righi, n. 60, e Caliaei, p. 189, il 3" v. dice: non me lo rendi, e no
me 'l »•., e la ripresa varia. Lezione istriana, in Ive, p. 194.
(-) Tigri, n. 823. Ridotta a Stornello, in Nerucci, p. 165, e Ferkaeo,
C, popol. di Lagoscitro, n. 54.
(3) Marcoaldi, C. popol. i}iceni,n. 28; Gianandrea, pag. 60; Rondini,
pag. 23.
D'Ancona, La poesia pop. ital. — 20
306 LA rOESIA POPOLARE ITALIAXA.
A Venezia :
Sei nata bela e no te posso amare,
L'arte del marinar me meto a fare;
Depenzar mi te vói su le mie vele,
E in alto mare te vogio portare:
I me dirà: Che insegna la xè questa?
Amor di dona me la fa portare.
Amor di dona, e amor di donzela:
Altro non amo, se non amo quela. (')
E in Liguria:
Prima clie t'abbandun-ne, o faccia bella.
L'arte do marina la vogliu fare.
Te voi dipenze' 'ut' iiiia nave bella.
In Cartagena ti voglio menare.
Tutti me diran: Coni' a l'è bella!
Duve la men-ni 'sta faccia reale?
Mi ghe dirò ca l'è la mia surella.
La mennu in Franza per nu l'abbandunare. (-)
Siamo sempre a' viaggi di mare con questo Canto:
Me ne vo' vire, Amor, me ne vo' vire.
Questi paesi li vo' abbandonare:
Me ne vo' vire verso il levantino,
Yo' fa' un viaggio, e non vo' più tornare.
E tutti mi diranno: Poverino,
Questo viaggio chi te lo fa fare?
Me lo fa fare un'amante infedele,
Che m'ha lasciato, e non mi vuol piìi bene;
Me lo fa fare un'amante sleale,
Che m'ha lasciato, e non mi vuol piii amare. (^)
La lezione picena dice :
Vado cercando, e non posso trovare
Un fiume che ribocchi alla marina;
(1) Bernoni, piint. ITI. ii. 17. Varia lozione in Dai. Medico, p. 124.
Meglio in Garlato, p. 290: Xo' t'ò puodesto avere ti, domela, L'arte del
marinar m'ò messo a fare ecc.
(2) Marcoaldi, C. popol. liguri, ii. 60.
(3) Tigri, n. 784. Cfr. ii. 54G. Ma in una lezione del Tommaseo, p. 25G,
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 307
E se lo trovo, mi ci vo' buttare,
L'acqua me menerà contro rovina;
I pesci me verranno a visitare,
E mi diranno: Povera meschina!
'Sta penitenza chi te la fa fare?
Me la fa fare un giovine crudele,
Che m'ha lasciato, e non mi vuol piii bene:
Un giovine crudel me la fa fare,
Che m'ha lasciato, e non me vuol più amare. (')
Né diversamente i Liguri :
Me vojo 'nbarca 'nt ques'tu brigantinu,
L'èva del ma' sarà lu miu giardinu:
Li pesci mi venranu a ritruvare,
Me ne diran: Che fai, oh li mes'chinu?
E questa vita chi te la fa fare?
Mi glie dirò, eh' l'è'na donna crudele,
Cli'a l'ha 'na fija, no' me la vuol dare.
Se nun me la vuol dare 'n cortesia,
'Na seira o 'na mattin ra menrij' via. (^)
La varietà apparente non distrugge l'identità
di questo Canto toscano con varie lezioni venete :
Son stato a Roma e sou stato in battaglia,
Son stato al corpo dell'artiglieria;
Non ho trovato spada che mi taglia,
Se non le grazie di tua signoria:
Non ho trovato spada né coltelli.
Se non la grazia de' tuoi occhi belli.
E non ho trovo spada né lancette.
Se non la grazia di vostre bellezze. (^)
Il corpo deir artiglieria è forse moderna modificazione
della forma antica, meglio rappresentata nel Canto
veneto :
e cos'i in una pisana (A. Giannini, n. 3C) sono, come nel Canto piceno e
ligure, i pesci, non le genti che vengono a salutare.
(1 Makcoaldi, C. po])Ol piceni, n. 77; Gianandeea, p. 27: lezione
beneventana in Cokazzini, p. 18.3, umbra in Mazzatinti, n. 218 ecc.
{-) Makcoaldi, C. pcpol. liguri, n. 14.
(3) Tigri, n. 290.
308 LA P0ESL4. POPOLARE ITALTAXA.
Su' stato in Cipro, su' stato a la bataglia,
O combatudo el fior de la Turchia;
Non ò trovato arme che me taglia,
Noma le to' belezze, anema mia. (')
Notiamo adesso talune rassomiglianze pili o meno
strette di Canti toscani ed istriani. In Toscana:
Ch'hai meco, brutta, che mi miri in torto?
Mirami dritta, tu possa accecare !
E m'hai mandato le capre nell'orto,
E l'insalata m'hai fatto mangiare.
E m'hai fatto mangiare l'insalata,
Civetta che civetti fuori e in casa.
E m'hai fatto mangiare il pitorsello,
Civetta che civetti questo e quello.
E m'hai fatto mangiare l'erba mora,
Civetta che civetti in casa e fuora. ('"')
0 come lo cantano a Casale in vai di Cecina (le-
zione inedita) :
0 che t'ho fatto, che mi guardi torto?
E guardami diritto come prima !
Non t'ho mandato le capre nell'orto;
Nemmeno i bovi a pascer la saggina.
Se t'ho fatto del male, vammi a accusa,
E guardami diritto come s'usa.
Se t'ho fatto del male, vall'a stima, (^)
E guardami diritto come prima.
Cosi nell'Istria:
Vardame drito e nu' me varda stourto;
Frigo lo (^jil che ti te puossi urbare ;
E s' i' t'ò fato dagno in tei tu' uorto,
Clama lu cataver, manda a stimare.
(1) Garlato, p. 260; Dal Medico, p. 187, e Rondini: co»fìn de Bar-
barla; Bernoni, punt. VI, n. 7: confini de Turchia; Pasqualigo, n. 28:
so' stato in Italia. €fr. Canto simile in Marcoaldi, C. popol. piceni, n. 80.
(2) Tigri, n. 798.
(3) Accusa e stima son di quegV infiniti con apocope e accento ritratto,
che s'usano assai nelle nostre campagne, specialmente dopo gl'imperativi
dei verbi andare e venire. Cosi p. es. vienl'a piglia, vall'a pesca ecc.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 309
E s' i' t'ò fato dagno in la tu veigna,
Ciama lu cataver, manda la steima. (')
Direttamente dalla Toscana sembra provenire
quest'altro Canto istriano fra noi:
Ti vantarai d'avermi lasciato,
Ma io mi vantarò d'un'altra cosa:
Mi vantarò d'averti vagheggiato,
Nel bel giardino aver colta la rosa.
Mi vantarò d'avesse stato il primo
D'aver colto la rosa al tuo giardino;
Mi vantarò d'avesse il primo stato
D'aver colto la rosa e vagheggiato. O
Nelle Marche varia alquanto:
Te vai vantenno per lo vicinato
Che me potevi ave', non m'ài voluto;
Io me vantarò d'un'altra cosa,
Dirò ch'all'occhi mia non sì piaciuto;
E io me vantarò d'un'altra mia
Dirò che 'n sai piaciuto all'occhi mia. (')
Pili aderente' alla lezione toscana è pertanto quella
delle coste adriatiche:
Tu vai disando, amor, che m'ki lassato,
E mei me guanterò d'un'altra cuossa:
1' t'uò tucà li man, i' t'uò basato,
E drento del giardeiu frisca la rusa. (■*)
(1; IvE, p. 154.
(-) Tommaseo, p. 299. Cfr. variante in Tigei, ii. 1104.
(3) GlANANDREA, p. 215.
(*) IvE, p. 178. Non si potrebbero però dissimulare le rassomiglianze
di parole e di immagini con questo Canto di Bagnòli Irpino .Imbkia.vi, C.
popol. prov. meridion., II, 101):
Donna, non t'avvanta' ca mm' hai lasciato.
So' stato io che non faggio voluta.
Rinto càseta tua gè so' stato,
Gè aggio mangiato, e bippeto e dormuto.
E 'ssi frutticielli tui l'aggio mangiati,
Re tutti tiempi che l'aggio voluti;
Porte e finestre faggio sconquassate,
Entra chi vo' entra', ca io ne songo assuto ecc.
Cfr. anche Fekeako, C. popol. monferi:, Stramb. n. SO.
310 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
Uu canto di vitupero suona così nell'Abruzzo :
Bbrutta, tu sci 'na pomadora sfatta,
Abbad' ai fatti tije, ca n'aji bbisogno :
Tu sci cchiù nnera de carvone muorto,
Tu puzzi come l'acqua puzzulende;
Che jjuvare te po' la lavatura,
Bbiauga pe' fforza e nnera pe' nnatura? (')
E certamente risale a un originale toscano:
0 biuuettaccia dalla ghigna sfatta,
Attendi a' fatti tuoi, che n'hai bisogno.
Tu sei più nera che un corvo di macchia
E dove passi tu, l'acqua c'intorba.
Giovare che ti può la lavatura.
Bianca per forza e nera di natura?, (^)
ed è un Rispetto letterario popolarizzato, che ci resta
in forma assai guasta, ma risale al sec. XV e forse
ebbe l'Umbria per patria:
Tu se' più nera che mora di macchia.
Per te si perde tanta lavatura:
Quando ti lavi il viso inganni l'acqua.
Perchè ti lavi il viso col sapone?
Più nera se' che uno calabrone.
L'acqua che il fiume di Viterbo niena
Non ti laverebbe, tanto se' nera. (^)
Del seguente Canto toscano la piìi stretta ri-
spondenza è con un monferrino:
E pure un bel seren con tante stelle, (■•)
Fatti di fuori se lo vuoi contare:
(1) FiSAMOEE, Vocab., n. 234.
(2) Tigri, n. 1102.
(5) L. Gentile, Cinque Rispetti ined. del sec. XV, Firenze, Arte dclLi
Stampa, 1881, :i. 1. Ma veramente non era inedito: era stato pubbl. nel
Mure di Livorno (n. 4; 18 luglio 1872) col 2" verso letto cos'i: l'er te si
perde tutta lavatura: e i due ultimi così: i' fulla l'acqua che Viterbo mena
Xon ti lavrebbe, tanto tu se' nera.
(*) Verso che nella raccolta dell'Ai.vERÀ, n. 55, dice: Vardè che bel
seren con tante stelle, ma il resto varia a seconda di altro Rispetto toscano
LA POESIA POrOLAEE IT.VLIAXA. 311
Le pene che mi dai son più di quelle,
Quando ti vedo con altri parlare. (')
E nel Monferrato, con mal dissimulate sembianze
toscane:
Signura, quante stelle, quante stelle !
Sorti di fora, venile a contare:
Le peni che mi dai son più di quelle.
Quando ti veg cuu li altri a parlare. ('^)
In tutti i casi sopra riferiti si può facilmente
ammettere la precedenza del toscano sulle lezioni
dialettali, le quali quasi sempre ritengono qualche
traccia di letterario. Ma che dire quando di Canti
comuni a varie regioni manca non solo ogni riscontro
siciliano, come nei casi finora esaminati, ma pur
anco la lezione toscana ? Le probabili ragioni del
fatto discorreremo in appresso: intanto rechiamo
alcuni esempj.
Si confrontino dunque fra loro due Canti di re-
gioni assai lontane. A Mercogliano nel Principato
ulteriore si canta così:
Qnanno Locia mmia da qua cadivo,
'Nterra si vedde e l'ajuto chiamava;
Lo suo amante che c'era vicino,
Come a lo pesce all'acqua ssi menavo.
Lo pesce dint'a l'acqua e puro fete;
Chi fa l'amore a luongo pena paté. (^)
I due ultimi versi sono evidente appiccatura, occa-
^ToMMASEo, p. 365, n. 11; cfr. anche Fekraro, C. popol. monferi:, n. 97 e
C. popol. di Lagose, n. 17; Mabcoaldi, C.i3opol. liguri, n. 97; Muller-Wolf.
p. 11; IvE, p. 19). Jfel Bernoni, punt. VI, n.82, e punt. X, n. 38: Varda che hd
seren con quante stelle. I due primi versi in un canto istriano dell' Ive, p. G,
L'ultimo in un siciliano: Qicannu eie autri vi viju parrari (Pitkè, C. popol.
sicil.,l, n. 250) e in uno veneto: Quando ti vedo co i altri a parlare (Dal
Medico, p. 116).
(1) Tigri, n. 755.
(2) Ferkaro, Stramb., n. 45.
(3) liiBRIANI, C. popol. di Mercogliano, n. 18.
812 LA POESIA POPOLARE ITALIANA. /
sionata dalla menzione del pesce; ma nell'Istria aò-
biamo intero il Canto a questo modo:
Quando la biela in acqua la cadìa,
E per sucurso, agioùto la ciamava;
Quando che lu su' amante la vedìa,
Come lo pisso in acqua el se butava;
E per la man sineìstra el la prendiva,
E pioùn de meìle basi el ghe dunava,
E la ghe deìse: Dul(je inamorato,
M'avV vussoùdo ben, ni'avi' ciapato. (*)
Quest'altro è comune ai Liguri ed ai Veneti. La
lezione ligure è la seguente:
Mi sun annamura' di quattru vegie,
E tiitte quattru le vogliu s'pusare;
La primma che la voi cacce' 'nt iin saccu,
Ra voi mandè' ar murin a maxinare;
A la secunda a j voi de tante botte,
Che ra niattin se riorda di levare;
La terza a vòju fene d'iin bel giocu,
Mettra 'simma a 'n paje', e piji deje 'r focu;
La quarta voju lene d'un cucosu,
D'iin bel cucosu pr' is'tu carlevavi. (-)
E così si canta a Venezia:
Me vogio m aridar co quatro vece,
E tute quatro le vói contentare;
E co la prima vogio far un pato,
Dormir con eia e mai no la tocare;
De la seconda vói far un barato,
Far tanta carne per sto carnovale;
E de la terza vogio far un zogo,
Meterla s'un bari), e darglie fogo;
E de la quarta tante bastonae,
Coparle tute ste vecie rapae.
— Dopo che ave copà tute ste vecie,
Ma cessa volèu far de tanta pele?
(1) IVE, p. 85.
(-} Marcoaldi, C. 2>02>o1. Hijuvi, n. 48.
LA POESIA POPOLARE ITALL\XA. 313
— Faremo de le corde da violili,
Per darghe spasso a ste ragazze bele. (')
Altre concordanze di Canti piemontesi e veneti.
In Piemonte:
lera auti l'ortu ca basava ir gatta,
L'urturanin-nha mi stava a videri;
— Cosa ti fai? ti smije mezu niattu,
Basarne mi, e lassa stèe lu gattu. — {^}
E nel Veneto:
Gera in te l'orto che basava el gato,
L'ortolanela me dasèa da mente;
E la me dise: — Cosa fetu, mate?
Baseme mi, e no' basare el gato. — (^)
Medesimamente a Venezia:
Misericordia, ch'el mondo è finio,
Che preti e frati se voi maridare:
E muneghe de Cioza tol marie:
Misericordia, ch'el mondo è finìo ! (^)
E in Piemonte:
Misericordia! il mondu l'è finita.
Fina li previ voglion maridarsi:
Fina le manie voglion tor marita:
Misericordia! el mondu l'è finitu. (^)
(1) Beenoni, punt. X, n. 78. Cfr. lezione istriana in Ive, p. 152. Ma ora
M. Bahbi (Poes. popol. pistoiese, Firenze, Carnesecclii, 1895, p. 121) ci dà
una lezione toscana; però il primo verso: Mi sono innamotà di quattro vec-
rliie, con codesto innamora parrebbe tradire la derivazione veneta. Il B.arbi
stesso indica una forma letteraria, primitiva o imitata che sia, contenuta in
una stampa del Quattrocento di Strambotti e Barzellette: Quattro de queste
regie voglio amare, dove pure il vegie sa di veneziano.
(-) Feeraho, C. x>oi>ol. monferr.. Stramb., n. 42. Monca, è ancbe in
GlANANDEEA, p. 183.
i?) Alverà, n. 28. Cfr. Bernoni, punt. I, n. 4.3; Righi, n. 7; Maeson,
Villotte dell'alto trevisano, Treviso, Zoppelli, 18'J9, n. 11; IvE, p. 134.
(*) Beenoni, punt. I, n. 53: Caliaei, p. 218. Cfr. Feeraeo, C. popol. di
Lagoscuro, n. 31.
(5) Maecoaldi, C. x'opol. xìiemont., n. 13: Nigea, p. 578. In un Canto
di Airolo e di Napoli (Imbeiani, C. popol. prov. merid., I, 97 e Molinaro,
p. 121): Le monache sse vonno maritare.
314 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
Ultimo raffronto sarà questo fra un Canto pie-
montese ed un istriano, senza intermedio conosciuto
di lezione toscana:
Sappi, 0 signiiia, cli'a sun Romagnolo,
E son venuta d'in siilla Romagna:
Tiitti me disu ch'a suu brav figliolo,
Cli'a nieiitreiva 'na brava compagna. (^)
E nell'Istria, con evidente aggiunzione di altro fram-
mento :
Sapì, niadona, ch'i' son Rumagnolo
E gioùsto adiesso i' viegno de Rumagna:
Sapì, madona, ch'i' son bon filgiolo,
Drento de mei nu' se truva magagna.
Cu' la pazienza i santi acqueista el 9ÌI0,
Cu' la pazienza i guobi va in muntagna.
Che ne darenno un suoldo a la bussita.
Chi gà guoba stuoita se la drissa. (^)
Qualche volta a prima vista non si intravede la
relazione de' varj canti fra loro. Giacomo Leopardi
notava nel 1820 alcuni frammenti di Canzoni popo-
lari, ch'ei sentiva cantare dai contadini delle Mar-
che, (^) e questo fra gli altri:
Una volta mi voglio arrisicare,
Nella camera tua voglio venire.
Il canto intero recato a forma vernacola dice così :
L'ho ditto, bella, e te ro vojo fare:
Ne ra cammora tua vojo venire:
Te vojo tanto stringere e 'bbracciare,
E nelle braccia tua vojo morire:
Te vojo tanto stringe' e 'bbraccià' forte,
Ne ri braccetti tua vojo ra morte. ('')
;i) Makcoai-DI, C. popol. piemont., n. 21.
(2) IvE, p. 58.
(3) Teza, Artic. nell.a Rivista italiana di scienze, lettere ed arti, To-
rino, 1863, anno IV, n. 145.
(*) GlANANDKEA, p. 59.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 315
Cercando fra i canti veneti, ben troveremo:
Sangue de mi, la vogio risegare !
Ne la camara tua mi voi vegnire;
Voi tanto strensarte e tanto braziare,
Che ne le brazie tue mi vói morire. (')
Può invece sfuggire l'analogia con un Canto napo-
letano, dove questo tema è un secondo tetrastico
accodato ad altro, ma tale, che forse tutt' insieme
dà più intera lezione :
Quanto ch'è bella l'aria de lo mare!
Core non mme ne dice de partire.
Nce sta 'na figlia de 'no marenare,
Tanto ch'è bella che mme fa morire. (^)
'Nu giorno mme nce voglio arrisicare,
'Ncopp'a la casa soja voglio saglire;
Tanto la voglio stregnere e vasare,
Mentre mme dice: Ammor, lassarne ghire. (^)
Ma quanto abbiamo finora notato non è prova
concludente contro quella probabile genealogia dei
Canti popolari italiani, della quale già demmo al-
cun indizio, e che meglio esporremo in appresso.
Imperciocché noi non possediamo intero il tesoro
dei Canti di ciascuna provincia; ed è mera conget-
tura, la quale può tuttavia cangiarsi in affermazione,
che molti Canti sieno qua e là caduti dalla memoria,
sicché necessariamente manchi qualche anello inter-
medio della catena. Giova intanto osservare un altro
fatto assai rilevante. Se noi esaminiamo le Raccolte
fatte nelle provincie non soltanto venete, ma, che è
(1) Bebnoni, punt. II, n. 24. Cfr. Ive, p, 129.
(-) Notisi anche che questo tetrastico, appiccatagli la ripresa alla
toscana, è diventato nelle Mai-che un Rispetto a sé (Gianandbea, p. 57),
che alla sua volta riconduce al Canto siciliano: Guarda ch'è beila l'unita
di lu mari ecc.: Pitrè, C. popol. sicil., I, n. 6.5i.
(3) Imbkiani, C. popol. prov. ineri(ì.,ll, .398. Cfr. C. popol. aveUin.,p.iì,
e C. popol. di Marigliano, n. 24; Molinako, p. 206; Amalfi, C. p. di Sor-
rento, n. 48; CoRAZZiNi, p. 184.
316 LA POESIA POPOLARE ITALIAIn'A.
più, liguri e gallo-italiche, del Piemonte cioè, della
Lombardia e dell'Emilia, sarà agevole il vedere che
una parte dei Canti è in dialetto locale abbastanza
puro, ma un'altra parte è in forma mescklata di to-
scano, presso a poco come il parlare di Donna Fabia
Fabron de Fabrian del Porta; e altri non pochi sono
in toscano, punto o sol lievemente alterato. Apriamo
la raccolta ligure, (^) e troveremo scritto:
0 bella giovili, che al balcon vi state,
Il fresco della sera vi godete,
Il petto del balcon voi lo frustate. (-)
In mezzo del mio core e' è una spina.
Non c'è barbier che la possa levare;
Solo il mio amore colla sua manina. (')
0 bella figlia, o bella garzona
Baciate me, che il Papa vi perdona;
Baciate me, che io bacerò vui,
Che il Papa ci perdona tutti e dui. (■*)
Prima d'abbandonarti, o faccia allegra,
Quattro castighi avrai da rimirare;
Prima vedrai cader la neve negra,
E vedrai le montagne camminare;
E ritornar vedrai li morti in terra,
E gli uomini campar senza mangiare:
Allora, 0 bella ti vo' abbandonare. (^)
(1) Su questo carattere del canto popohuo ligure vedi anche Ku-
BIEEI, p. 421.
(-) Makcoaldi, Canti popol. liguri, n. 12.
(3) Id., ihid., n. IG.
(4) Marcoai.di, ihid., 11. 29.
(5) Id., ibid., 11. 31. Cfr. quanto al concetto col n. IS della raccolta
Visconti :
Prima ch'io lasci te, gentil signora,
I duri sassi si faranno cera;
Madre dell'ombro diverrà l'aurora,
II mezzo giorno sonerà la sera;
Saranno il foco e l'acqua uniti ancora,
Eterna durerà la Primavera.
I nostri amori finiranno allora
LA POESIA POPOLARE ITALLVXA. 317
Stella diana, fammi tanta grazia
Saluta lo mi' amore quando passa;
Quando ci passa, ci passa cantando,
Cogli occhi bassi, e in core sospirando:
Sospira, core, che ragion ce n'ài;
Mi fai morire, poi mi piangerai;
Sospira core, che ragion ne mena;
Mi fai morire: porterai la pena. (')
Nessuno dirà che questo sia dialetto genovese, (") né
che assomigli, per conseguenza, al dettato di questi
altri Canti:
0 bella fìja, che '1 frunte ve liixe,
Ch'u pa' ch'i j' aggi sentu ciarabelle;
Sciarti di fora quand'a l'iui-na a luxe,
Pijrte' l'avantu sii tiitt'er ciil' belle. (^)
S'telle del cielu, femi d'iin favure,
Fé cresce' ques'ta notte sciiisant'ure;
Pregate n'augerin si metta j'are,
Ch'u vagga 'n cielu a trattener le ure. {*)
Quando il mondo ritorni a quel che era.
Prima ch'io lasci te, gentil signora,
I duri sassi si faranno cera.
Cfr. anche i n. 818, 820, 821, 834, 8:35, 836 (varie lezioni del cit. romane-
sco), 837, 838, 856, 860 del Tigki, e due Rispetti pur toscani nel Gii-liani.
Lett. sul vivente linguagg.tosc.,Tp.ìO\. Cfr. anche De Nino, p. 28, 30; Mar-
co aldi, C. popol. piemont., Ti. 7, e C. popol. latini, n. 24; Morosi, n. 79 ecc.
n NxGRA, p. XXV, opportunamente ricorda a questo proposito il virgiliano :
Ante leves ergo pascentur in aethere cervi,
Et freta destitiient nudos in litore 2^'sces etc.
(1) Makooaldi, C. popoJ. liguri, n. 74.
(2)- E COSI pure pei n. 38, 44, 45, 50, 55, 57, 67, 68, 73, 81, ecc.
(3) Marcoaldi, C. popol. liguri, n. 32.
*) Marcoaldi, ib!d.,n.i1; Rondini, p. 49; Caliari, p. 55. Cfr. Pigo-
kini-Beki, C. popol. marchig., p. 37 :
O sole 0 luna, non mi abbandonare.
Fame questa notte a sessant'ore;
Cliiamo Cupido che si metta l'ale,
E vada su in cielo a fermar l'ore.
Ognuno conosce quel che dice il Petrarca:
Con lei potessi stare
Solo una notte, e mai non fosse l'alba.
318 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
Pretto piemontese sarà, ad esempio, il seguente :
0 fia bela, da la cà di fanga,
La cà l'è pcita, l'ambisiun l'è granda;
L'è pi i biudei eh' parte' giii per le spale,
die la dota ch'a voja de vost pare. (*)
Anche le diansoìis dit XJ' siècìe (pag. 63):
Et le soìeil fiist conche
El le joiir n'adjoicrnast jà,
Et Je voiis tensisse, belle,
Xite a mi enire mes hras !
Kei Canti siciliani si legge (A'igo, n. 517; cfr. n. 674":
Vi addimannu 'na grazia e fnssi ora.
Di starimi ccu vui quattru nuttati,
E clii li notti fussinii quant'ora.
Lunghi qnantn li jorni di la stati:
Medesimamente un Canto napoletano (Isibiìiani. C. popol. prov. merid.
II. 177):
Vorria dormV 'na notte a 'sto tuo lato.
Non facesse mai ghiorno la mattina :
Uno leccese:
0 stelle, a bui m'aggiu raceuniandare.
Sta notte ca mme sia di nocient'ore.
E uno avellinese (Imbriani, C. popol. avellin., p. 41):
Lasciatemi dormi 'sta notte co' vui ;
Domani quannu è juorno nime ne vavo:
E mo' che accanto a voi nee so' venuto.
Notte pozza fa' 'mpressa e .iuorno mai :
A Napoli quest'i; l'augurio dell'amante (Molinaeo, p. 1.56':
r rent' a buie me farria nu suolino:
'Sta notte che ce fusse nuvanti anne.
Un Canto romano (Mueller-Wolf, p. 12):
Questa notte per me duri cent'anni:
In Umbria (Mazzatinti, n. .301):
£ de sta notte min se faccia mai dine.
E con più discrezione, per solo intento di discorrere (ibid.):
Vorrei discorre' col mi' amore un'ora;
Che un'ora fosse una gbioruata intera.
E finalmente nelle Villotte friulane (Arboit, n. 93):
Se dos noz fussin in fune
Che mai plui a vigniss dì,
Cile bambine di che scune
Jo' nicciàlle e iè durmì !
(1) Marc-caldi, C. popol. piemont., n. 38.
LA POESIA POPOLARE ITALL'^KA. 319
Ma meno piemontese è quest'altro:
Mi vada in lettu e non possu dnrmire,
E li lensoi mi disti: Cosa t'iiai?
Risponde la coverta de In letta:
Spasa 'na dona bela, e 't durmiiai. (')
E toscano, salvo nel troncamento di una voce, è
quest'altro, pur raccolto in Piemonte:
E lo mi' amove l'ha nome Francesco,
E l'è un bel noni' che si domanda presto:
L'è come un uccellin sovra 'na rama:
Francesco l'è un bel noni', presto si chiama. (^)
Anche quest'altri sono nulla piìi die letterali tra-
duzioni da un primitivo originale toscano:
Uarda là an po' se ti la voi vedere.
Si fa alla finestra poco a poco:
Ra fa come lo pess, che l'è ant l'algua,
Si fa alla finestra, e poi u scappa. (^)
Pensi che t'ama, e che ti voja bene?
Mi t'amerò, se la fartin-nha viene;
Quandi chi ra fiutin-nha sia avnija,
Pruvedte, amar, che mi san pruvedija. {*)
A Somma Lombarda si canta :
M'è stato detto dall'ortolani na
Che l'insalata la rinfresca il cuore;
Ma tanto più mangiarla alla mattina,
In compagnia dell'ortolanina. {°)
Questo è pretto toscano; ma in altre Canzoni la dia-
lettizzazione è appena cominciata:
Yorria vess lina gallina nana
Per andar nel c;iardin dell'ortolana;
(1) Makcoai.di, ihid., n. 26; cfr. Gianandrea, p. 104 ; Mazzatinti, n. 96.
(3) Marcoaldi, ìhid., n. 29. Cfr. anche i n. 6, 16, 24.
(3) f EEEARO, C. popol. lìioiiferr., Stramb., n. 50.
(■>) Feeraro, ibid., n. 79.
(5) Imbriani, in Nuova Antolog., p. 191. Cfr. Bernoni, punt. IV, n. 12;
Dal Medico, p. 54; Alverà, n. 65; Righi, n. 43: Ive, p. 84.
320 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
Favìa finta de beccar i fiori,
E all'ortolana mi farla l'amorre. (')
M'è stato detto e poi m'è sta' conta
Che a far l'amur in chiesa l'è peccàa :
E mi che sont iina brava figliola,
Quand voi far l'amur, vengo de fora. (^)
Sulle rive del Po abbiamo lo stesso fatto di evi-
denti vestigia toscane nei Canti del popolo:
Dove spasseggi tu, l'erba vi nasce,
La primavera tutta vi fiorisce:
Fiorisce d'ogni erba e d'ogni fiore:
Bello, tu ami d'uno vero amore. (')
Al mie amor l'è un mancator di fede:
Lu s'innamora in quanto donne vede:
Se ne vedesse venticinque l'ora.
Di tutte venticinque s'inamora. (*)
Oh quanto tempo che desiderava
D'aver per mio amante un sonatore !
Al sona cusì ben su la chitara,
E colla bocca fa i versi d'amore. ('")
E mi vurrìa andar alla salita
Duv'è quella casetta rovinata,
Duv'al mio ben al gh'lia lassa la vita. (^)
Bella, se tu vedessi al mie ritratto.
Apri la sepoltura e mira il morto.
Bella, tu mi vedrai tutto disfatto. C)
Odansi, per ultimo, questi versi, pretti toscani,
che mischiati ad altri in dialetto, si trovano nei
(1) Imbeiani, ihif?., p. 190: cfr. Giannini, C. p. ìucch., p. 230.
(-) Imbriani, ibiil.
(i) Ferraro, C. popol. di Lagose, il. .37. Pei due primi versi, cfr. Bles-
siG, n. 105; Tigri, Stoi-nelL, n. 100.
(*) Ferraro, ibid., n. 43.
(•'>) Id., ibid., n. 56.
(«) Ii>., n. 06. E tale e quale, salvo le poche forme dialettali, nella
mia raccolta manoscritta.
(7; Id., n. G8.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 321
Canti veneti, e che fanno testimonio di una primi-
tiva forma toscana di tutto il componimento:
Perchè la lingua mia parlar non pole; (')
Vedo l'amante mio spiegar le vele; (-)
La voce bassa al mio parlar somiglia; (^)
Alza la bionda testa e non dormire; (^)
Lo giuro per quel Dio che m'ha creato; (^)
Sospira, cuore, che ragion tu ài; (®)
Dove ch'el ferma el pie, l'erba s'inchina; C)
e COSÌ all'infinito, per non recare interi Canti, dove
le forme toscane sono pari, o anche maggiori delle
venete, (®) Né altrimenti si dica pei Canti umbri e
piceni.
IX.
Uno Strambotto siciliano così descrive le pe-
regrinazioni dell'amata fanciulla, ancor nelle fasce:
Bella ca a Taormina fusti nata.
Scritta a Palermu, e crisciuta a Missina,
A la fonti di Rroma vattiata
E in faccia frunti di Santa Cristina. (^)
(1) Bertoni, punt. II, ii. 15.
(2) Id., punt. Ili, B. 11.
(3) Id., punt. IV, n. 5.
(4) Id., punt. IV. n. 45.
(5) Id., pujit. IV, n. 58.
(6) Id., punt. VI, n. 45.
(") Id., punt. VII, n. 16.
(^) L'AlveeÀ. nelLi Prefazione ai Canti vicentini, dice: "E mia cre-
denza che si gentile maniera di poesia possa esserci venuta di Toscana,
anziché d'altrove, per la grande rassomiglianza che tali Canzoni tengono
sì pel genere che per le voci, con gli Stornelli cantati in quella magica
contrada „. Lo stesso dice per quelli raccolti nel Parmigiano il Basetti,
presso il Tommaseo, p, 16; il Kighi pei veronesi, p. xx. Altri consimili
giudizj di raccoglitori di canti delle diverse regioni italiane, vedili in Ru-
BIERI, p. 226.
(9) Vigo, n. 389. Cfr. n. 129.
D'Ancona, La poesia pop. ital. — 21
322 LA POESIA POPOLARE ITALLA_XA.
Uno di Terra d'Otranto:
Fice gran festa Napoli e Messina,
Genova, Siena e la Papa de Roma;
Nata a Venezia, cresciuta a Melami,
Dimme ci mo' a Firenze 'nei stai bona;
0 ci te piace niegghiu dtlai la mani
A ci nascili a Bulogna o a ci d'Ancona; (')
ed altro del Lazio:
0 bella clie da Napoli venite,
E poi passaste in mezzo alla Toscana; (^)
e finalmente nn Rispetto toscano:
Bella, che sei di Napoli padrona....
Nata a Firenze, allevata in Verona,
E battezzata a una cliiara fontana;
A una chiara fontana battezzata.
Nata a Firenze, in Verona allevata (^)
Altrettanto può dirsi di qnesti Canti, che in
ogni parte d'Italia appariscono, ma de' qnali è in-
certa la vera patria e il fonte battesimale: che sem-
brano cittadini d'ogni città, e in nessnna stabilmente
dimorano: siciliani ad nn tempo e toscani, napole-
tani e veneti, veronesi e genovesi : ma, ad ogni modo,
essenzialmente italiani. La cìiiara foniana alla qnale
furono battezzati, e di che parla il Rispetto, è, nel
caso nostro, quell'onda sotterranea, sempre fresca
e vivace, che scorre da un capo all'altro della Pe-
nisola; è quella misteriosa Aretusa, che sgorga nel-
l'Isola ed attraversa lo stretto, e nella quale fa suo
lavacro la Musa del popolo: e quando n'esce fuori.
(1) Imbriani, C. pnpoì. prnr. nieridion., 1, 06. Cfr. .TiK-he H, 150; De
Nino, p. 2.3; Fbkraro. Cpopol. monferr., Stramb.. n. 13; MAitcoALur. C.po-
X>ol. liguri, li. 54.
{-) Maesii.tant, 11. .30.
(3) Tigri, ii. 70. Cfr. ii. C9 ; Maiìcoaldi, C. popul. umbri, ii. 58; Ca-
LIAEI, p. 157.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 323
le stille che le cadono ai piedi sono come dolce
pioggia di perle e di rubini, sciutilìanti a' vividi
raggi del sole d'Italia.
Ma a noi, dopo aver notato e provato la iden-
tità del Canto popolare nelle diverse parti della
Penisola, giova indagare qual è veramente il suo
luogo d'origine, e come e quando e in qual forma
siasi sparso in ogni provincia, e cosi abbia in ogni
provincia posto radice, da parervi fiore nativo.
Noi crediamo, e il lettore cortese ed attento deve
aver già più volte intraveduto quel che diremo, che
il Canto popolare italiano sia nativo di Sicilia. (^)
Né con questo intendiamo asserire che le plebi delle
altre provincie sieno prive di poetica facoltà, e che
non vi sieno poesie popolari sorte in altre regioni
italiane, ed ivi cresciute e di là anche diramate at-
torno. Ma crediamo che, nella maggior parte de' casi,
il Canto abbia per patria di origine l'Isola, e per pa-
tria di adozione la Toscana: che, nato con veste di
(1) Carlo Tenca, in un suo bell'articolo sulla pubblicazione dei Canti
popolavi toscani del Tigri, già inserito nel Crepuscolo dell'Aprile e Mag-
gio 1857. e ora riprodotto nelle sue Prose e Poesie (il. 240^, aveva toccato
già di questa ipotesi della derivazione dalla Sicilia, e addotto per esempio
il Rispetto della Campania : Cupido cTte slei giudice d'Amore, ponendolo a
confronto con uno siciliano, die vi aggiunge due versi come risoluzione
del dubbio amoroso esposto nei primi quattro, e ritrovando nel componi-
mento una specie di temone, che ai siciliani avrebbe potuto venire dalla
poesia provenzale. Vide egli adunque, l'acuto critico, l'importanza della
ricerca e ne intravide la soluzione, ma con scarsa copia di prove : senza
che poi, la tenzone su casistica amorosa è essenzialmente propria della
poesia cortigiana. E il dire, com'egli dice, elie ' la poesia dei trovatori può
aver dato ai Rispetti il tema e quasi diremmo l'intonazione, la nota fon-
damentale del canto ,, ci par che confonda, anzi che schiarire il difficile
problema. Ad ogni modo, per via non diritta e con deduzioni storiche non
esatte, egli giunge alla conclusione che la culla del Rispetto più che in
Toscana, ha da rinvenirsi nel volgo siciliano (p. 209); e in ciò consentiamo.
Dobbiamo però aggiungere che l'articolo del Tenca, in che si rinvengono
queste divinazioni, lo abbiamo letto soltanto nella raccolta dei suoi scritti
fatta dal Massarani (Milano. Hoepli, 1S88) e che alla stessa conclusione ci ha
condotto soltanto un ampio studio comparativo dei canti popolari italiani.
324 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
dialetto in Sicilia, in Toscana abbia assunto forma
illustre e comune, e con siffatta veste novella sia
migrato nelle altre provincie. Però se questo è il
caso più generale, esso non esclude punto le ecce-
zioni. Abbiamo visto che di taluni Canti, diffusi in
molte parti d'Italia, manca il corrispondente siculo:
se non clie, prima di sentenziare ricisamente che
una lezione insulare primitiva non sia mai esistita,
può dubitarsi che sia o del tutto perduta, o soltanto
smarrita. Medesimamente abbiamo visto che parec-
chi Canti qua e là sparsi per varie regioni non tro-
vano ninna rispondenza fra' toscani ; e anche qui
può ripetersi lo stesso dubbio; ma, dato l'impulso,
può ben ammettersi, che e in Toscana sieno nati
Canti senza anteriore esemplare siciliano, e altrove
ne sieno germogliati senza particolar prototipo to-
scano. E neanche negheremmo che, ad un dato mo-
mento, il corso regolare della trasmissione non possa
essersi rimutato, avvenendo un rimescolamento di
Canti d'ogni regione, coììie di rena quando a turbo
spira. (') Questo, però, ripetiamo che la maggior
parte dei Canti popolari è evidentemente nata nel-
l'Isola, e poi venuta su su, più o meno moditican-
dosi per via, finché giunta nel mezzo d'Italia, ha
spogliato la veste originaria, O e per l'efficacia della
nuova forma toscana, così simile al linguaggio co-
(1) Qualclie esempio di Canti originariamente napoletani in Sicilia
nota anche il Vigo: ad esempio n. 566 (Vtirria fari 'na casa 'mmemu mari);
e vedi anche nel PrrBÈ, SliulJ ecc., p. 287 e segg. rarticolo: Canti popol.
non siriliani in Sicilia. Tuttavia (> da notarsi che del Canto che ambedue
registrano come napoletano, il Salomone-Maeino, n. 527 in nota, offre una
lezione siciliana: forse però derivata e secondaria.
(-) Forse nel lo invece dell' i7 dinanzi a parola, la quale cominci per
consonante che non sia s impura, e che è cos'i frequente nei canti popolari
(lo mio amore, lo mio damo ecc.) può rinvenirsi con segno originario del
Volgare siciliano, in che lu è unica forma dell'articolo di genere mascliile.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 325
mune, ha raggiato all' intorno. E se nelle Marche,
nel Lazio, nell'Umbria si trovano Canti, ne' quali
parrebbe di prima mano il vernacolo locale essersi
sostituito al nativo, molti più ve n'ha che mostrano
venire piuttosto dal centro, che dall'estremo raggio
della circonferenza. Essi in certo modo sarebbero
tornati un po' addietro dopo essere andati avanti :
ma quanto alle regioni di là dal Po e dall'Appen-
nino è chiaro, per quello che abbiamo mostrato, che
il più dei Canti abbiano passato il fiume, il monte
e il mare partendo dalla Toscana, e conservandone
al possibile la forma del linguaggio. Quel poco di
nuovo che ivi si produce, tiene tuttavia lo stampo
aulico e toscano: anzi, ed è ben notevole, il dialetto
del luogo in niuna manifestazione dello spirito po-
polare meno apparisce, che in questi che se ne direb-
bero spontanei prodotti. Anche allorquando predo-
minano le flessioni del dialetto ne' vocaboli, ad altro
tipo rispondono il giro della frase e la struttura del
verso. Potrebbesi dubitare che ciò derivasse da uno
sforzo di riaccostare la forma poetica del popolar sen-
timento alle sembianze proprie della poesia dell'arte,
se qui non fosse da riconoscere piuttosto l'efficacia
del primo esempio. Le fogge del parlar comune pre-
valgono, perchè, quando l'origine non è letteraria e
scritta, i Canti sono stati oralmente dedotti dalla
Toscana; e anche lo stampo dei nuovi è sempre to-
scano. E se sulla riva del Po, secondo ne avverte
il Ferrare, (^) questi Canti diconsi Eomanelle, non
l'idioma romano vi predomina, sì il toscano; e tal
denominazione si direbbe null'altro indicare salvo la
notizia confusa dell'origine da altra regione posta al
(5; e. popol. di Ferrara, Cento e Pontelagoscuro, p. 10.
326 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
meriggio, e con quel vocabolo essersi voluta deno-
tare soltanto, per la menzione di Roma, l'eccellenza
della forma idiomatica.
Ben è chiaro certamente, che ai Canti privi di
rispondenza in altri dialetti, o che la trovano sol-
tanto in qualche provincia contermine, non è da pen-
sare, anche perchè sono la minor parte; ma bisogna
trattare e risolvere la questione rispetto a quei mol-
tissimi, dei quali abbiam dato solo un saggio, che
trovansi diffusi quasi in ogni regione d'Italia, e
hanno forma in quasi ogni dialetto. A nessuno po-
trà mai venir in capo, dopo le prove molteplici da
noi addotte, ch'e' sien nati isolatamente, spontanea-
mente, pur avendo identiche sembianze dappertutto,
né altro essere le differenze se non modificazioni
naturalmente indotte dal passaggio di bocca in bocca
e di paese in paese. Or noi abbiamo visto, che nella
maggior parte de' casi, la Sicilia porta innanzi il suo
Canto, al quale gli altri tutti si ragguagliano diret-
tamente 0 indirettamente, e che esso è quasi sempre
privo di quelle imperfezioni nelle rime, che altrove
si riscontrano, e meglio dedotto ed unito nelle sue
parti. Senza che, se modica è la mèsse dei Canti
popolari nelle provincie superiori della Penisola e se
ormai può dirsi esaurita in Toscana, via via aumenta
avvicinandosi all'Isola: e nell'Isola i raccoglitori,
sol che vogliano, hanno sempre le pugna piene di
nuovi manipoli. Le condizioni particolari della ci-
viltà e della cultura popolare in Sicilia fanno si che
la produzione del Canto vi sia sempre in fiore, e
gagliardissima e perenne la vena poetica; la quale
non potrebbe certamente dirsi essiccata neanche
nelle provincie peninsulari del mezzodì. Ma in que-
ste continui sono i contatti coli' Isola, e 2;ià antico
LA POESIA POPOLARE ITALIAXA. 327
il predominio del Canto che indi proviene. Né è
da tacersi che ivi, nelle città almeno, la melodia
colla novità e feracità sua tiene in bilancia la poesia,
che di preferenza si manifesta in quelle Ariette, (^)
le quali hanno già troppo sentore d'arte, e in che
il motivo musicale è da piìi del poetico, (') Venendo
poi più su, s'incontrano volghi di maggior cultura,
ne' quali la forza poetica è quasi spenta o si estrin-
seca ormai soltanto in improvvisazioni sgarbate, se
non in semplici rimpasti dell'antico tesoro di Canti;
quasi spiantati nepoti che campino sul patrimonio
degli avi, disperdendolo e sciupandolo. E chi salisse
ancor piti su, ai paesi di popolazione celto-romana,
troverebbe la strofa sicula scarsa in numero, dimez-
zata di corpo, mista e divisata nel linguaggio. Ivi
la poesia indigena e tradizionale ha relazione non
col mezzogiorno d'Italia, ma con altre popolazioni
ed altri idiomi, stendendosi alla Provenza, alla Fran-
cia, alla Catalogna, al Portogallo. (^) Invece nel ter-
ritorio veneto, per conformità di razza e d'idioma,
il Canto siciliano si è diffuso nella forma secondaria
(1) Sugli Afii o Arietti, non molto comuni in Sicili.a, e ivi pure di
origine letteraria o semiletteraria, vedi il Pitrè, C. popol. sicil., I, 34, e
gli esempj nel voi. U. pp. 81-109.
(2) Fin dal secolo XVI e XVII erano celebri queste Canzonette del
niezzod"! d'Italia, di alcune delle quali daremo più oltre maggiori indica-
zioni, e che col nome di Villanelle o di Napoletane o di Siciliane si span-
devano per tutta la Penisola. Il Costo nel suo Fuggilozio (v. Ijibriani,
C. popol. prov. niericlion., II, 438), le cliiama Napoletane: il Malispini
fv. Imbriani, ihid., I, 56), due volte le dice Napoletane, una volta Siciliane.
Più costante è dunque la denominazione di Napoletane; e certo è soltanto
che venivano dal mezzodì. Avverti che il Malispini qui citato è il novel-
liere del sec. XVI, non il dubbio cronista del XIV, come sembrerebbe cre-
dere il PiTRÈ, Stìidj ecc., p. 46. — Per le varie raccolte di Napolitane,
V. Rossi, Lett. del Calmo, 6, 394, 423, 426, 432. Nella mia raccolta, ho un
Giardino di Villanelle napolitane nuovamente poste in luce per me Paolo
Ignaro napolitano, s. n. t. — P.er quelle accompagnate da musica, che del
resto sono le più, vedi la Bibliothek d. gedruckten Weltlichen Vocalmusik
Italiens del Vogel, Berlin, Haack, 1892.
(3) NiGKA, p. XXVII.
328 LA POESIA POPOLARE ITALIAXA.
toscana, servendo di modello ad altri consimili compo-
nimenti poetici ; mentre poi una piccola gente, chiusa
nelle Alpi carniclie, come forma gruppo separato nel
parlare, così nei suoi Canti serba sembianze proprie,
e fecondità simile a quella dell'estrema Sicilia. (')
Lionardo Vigo, primo e benemerito collettore
dei Canti dell'Isola nativa, preludendo alle cinque
migliaia (") di Poesie popolari da lui pubblicate, as-
severa esserne " interminata la messe ,,, e che " la
prima e la seconda sua collezione, e quelle di Salo-
mone e di Pitrè non sono un vigesimo di quanto se
ne può adunare „. (^) E già altri, l'Avolio, (*j il Gua-
stella, (°) il Cannizzaro, (®) hanno fatto o preparano
non lievi aggiunte alla ricchezza messa insieme dal-
l'operoso acitano. Niun'altra provincia d'Italia può
neanche per questo lato stare a petto dell'Isola, dove
la produzione del Canto popolare è antica, continua,
abbondante ; e del quale, come una minima parte
soltanto è nota per le stampe, solo una minima fra-
zione ha tragittato lo stretto. Ivi soltanto sono can-
tori che, componendo di vena senza cognizione di
lettere, C) sempre rinnuovano l'antico repertorio co-
0) Il sig. Akboit (p. 9) dice esser solo una terza parte della sua
raccolta, il migliajo dei Canti friulani ch'egli ha pubblicato. E larga messe
di Villote aggiunsero poi il Gortani e il Leicht, ed altri.
(2) La somma posta in fondo al voi. porterebbe alla cifra di 6068, ma
conviene osservare che il Vigo ha notato progressivamente tutte le ottave
o strofe di uno stesso componimento, cosicché effettivamente si passe-
ranno di poco i cinquemila, oltreché sono da togliersi dal novei'o alcuni
componimenti non popolari.
(3) Prefazione, p. 88.
(<) I Canti dell'AvoLio sono 656.
(6) Il primo voi., solo uscito finora a luce, contiene 167 canti; ma è
da notare che la Prefazione occupa gran parte del volume stesso, cioè
130 pagine.
(<') Da gran tempo si annunziano di questo culto poeta due volumi
di Canti popolari messinesi.
(") Varila chi scnzu ch'appi sin viihlanii ! . . . Xiin appi inga e niancii
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 329
mune, (^) quando invece in Toscana, ad esempio, il
più valente canterino o la più baliosa canterina del
contado è quella clie sappia maggior numero di
versi tradizionali ; e la nuova ereazione, come già
più volte notammo, si riduce a frapporre o intra-
mettere, o, come direbbero i drammaturghi latini,
a contaminare più poesie fra loro, e dalle mescliianze
cavar nuove forme. (")
Al prof. Arboit la celebrata Beatrice di Pian
degli Ontani nella montagna pistoiese dava infatti
per suo il Rispetto:
Bella, bellina, non ti par peccato
Rubare un cuore, e non Io render mai, (')
e l'altro:
Se gli alberi potesser favellare.
Le foglie che c'èn su sarebber lingue, (*)
calamaru E tutti cosi su fatti a mmeinoria .' : Guastella, L'antico Carne-
vale nella Contea di Modica, Modica, Secagno, 1877. p. 65.
(1) Vedi nella prefazione del Vigo il § X sui Ciechi trovatori e Ku})-
sodi, p. 59; negli tS^Hrf/ del Pitrè, p. 81 e seg., l'articolo: I Poeti del popolo
siciliano, e nella Prefazione del medesimo ai C. popol. sicil., I, p. 40, quello
che dice dei concorsi poetici di Carini.
(2) Cfr. ScHUCHARDT, op. cit., p. 114. E il EuBiEEi, p. 242: " Oggi la
vera improvvisazione è assai rara, o al più consiste nel dare o nuova ap-
plicazione o diversa forma a cose ormai vecchie „. E altrove: "Il poeta
popolare fa della sua memoria un universal serbatoio di tanti mescolati
pezzetti, tra i quali, a seconda della fantasia, pesca, sceglie, innesta, mo-
difica quelli che gli sembrano piìi acconci a formare un Rispetto o un Di-
spetto esprimente l'idea, e per lo più la passione, che è nell'animo suo ,.
(p. 347). E anche : " Nella poesia popolare non è tutto vecchio ne tutto nuovo.
non tutto inventato ne tutto copiato, non tutto improvviso né tutto arti-
ficiale; ma mentre sono per lo più vecchie e copiate e artificiali le parti
separatamente prese, nuovo e inventato e improvviso è spesso il concetto
che ne risulta, considerato nel suo tutto „ (p. 407). E infine: "La miglior
parte e la più legittima della poesia popolare, la campestre, sopravvive,
ma poco o punto si rinnova, e pub considerarsi ridotta piuttosto ad un
esercizio di memoria e di passatempo, che ad un impeto di fantasia e di
passione „ (p. 680). Vedi anche consimili considerazioni e notizie in JVI. Babbi,
Poesia popol. pistoiese, Firenze, Carnesecchi, 1895, p. 10 e segg.
(3) Akboit, p. 73.
(1) Id., p. 119. Il PiTEÈ, Studj, p. 87, dice che i poeti del popolo "■ spesso
non si fanno scrupolo di dar come proprie intere ottave tradizionali,. E
330 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
de' quali già addietro abbiam discorso, e che certa-
mente sono piti antichi della vecchia poetessa mon-
tanina. Ma colla mente cosi zeppa di versi, e pel
continuo rimescolarsi ch'entro vi fanno i suoi proprj
con quelli degli altri, la Beatrice deve aver finito
col perdere l'esatta notizia del suo e del non suo,
del tradizionale e dello spontaneo; (^) e del resto, i
Canti sono come la moneta, eh' è di tutti, ma più di
chi l'adopera e la spende, C) All'udire la Beatrice
ed altre sue pari, si può esclamare come il Pietro
della Tancia :
Può fare il cielo, coni'ella sta in tuono !
Come le voci ella sa ben portare !
Ma que' Rispetti detti a mente sono;
Credo avergliene uditi già cantare;
a p. 205: " M. di Martino mi mandò come composto da campagnolo vi-
vente in Noto, V. Cilestri, il canto che si sa più antico del Cilestii : Cc'è
malata una bedda 'nfa ati parti . . . E il canto dianzi citato per poesia del
Veneziano: Bedda, la to bidd.izza mi manteni,{n mandato al Vigo e stam-
pato da lui come composizione di A. Billecci „.
(ij Vedi in tal proposito anche M. Barbi, Poes. popol. pisi. (Nozze
Bacci-Del Lungo), p. 11-12. — Su Beatrice veggasi, oltre ciò che ne scris-
sero il Tommaseo, il Giuliani, lo Zumbini ed altri, A. Chiappelli, Una pa-
stora poetesifu ; nel centesimo anno dalla sua nascita, Firenze. Seeber, 1902.
(2) Il prof. Nanxakelli credè che la Teresa di Arlena, dalla quale
ha avuto i Canti ch'egli ha stampato, non sia semplice " ripetitrice „ ma
autrice dei Canti stessi, e invoca su di ciò l'opinione che di lei si ha in
Arlena (p. 35). Ma parmi che la maggior parte sieno Canti tradizionali e
assai più antichi della Teresa, che ci è descritta come donna di 29 anni.
Cos'i, ad esempio il Canto :
Dov' è tutto quel ben che mi volevi.
Dov'è tutto l'amor che mi portavi ecc.
è detto esser della Teresa (p. 64). Ma poiché lo trovo anche nei Canti vi-
centini dell' Alveka (n. 85):
Dov'è quel tanto ben che mi volevi,
E qnele carezine che me favi ecc.;
e l'opuscolo dell'ALVEKÀ è del 1844, risalendo addietro dal 1871, data
dell'opuscolo del Nannakelli, si dovrebbe concludere che la Teresa com-
ponesse il Pispetto all'età di duo anni, e che subito esso si diffondesse nel
Veneto 1
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 331
uè va creduto
Ch'ella gli improvvisasse per di buono. (')
Anche noi abbiamo udito improvvisatori ed improv-
visatrici del Contado toscano ; ma i loro canti sono
altra cosa dai Rispetti, i quali sin dal primo aprirsi
dell'anima e dell'intelletto, sin da quando la me-
moria ebbe forza recettiva, furonvi conservati sen-
z'accrescimento e quasi come intangibile deposito:
e sono, perchè tradizionali, la sola cosa buona che
esca di bocca ai presenti poeti campagnuoli.
Se il lettor nostro fosse così persuaso come noi
siamo, di quanto sopra dicemmo, potrebbe passarsi
adesso a ricercare il tempo in che i Cauti siciliani
si diffusero nella penisola, le vie per le quali vi giun-
sero, la forma che avevano quando uscirono dalla
terra nativa.
Sarebbe ridicolo il supporre che dovessero es-
serne usciti tutti in una sola volta, come un carico di
merci, e tutti in tempo remoto, quando ai dì nostri
e sotto i nostri occhi vediamo le Ariette napoletane
una dopo l'altra spargersi in un momento per tutta
Italia. O Ma senza negare risolutamente che i pro-
dotti poetici dei cantori siciliani vengano anche
adesso ad accrescere il patrimonio dei cantori pe-
ninsulari, noi crediamo che, quanto agli Strambotti,
ciò debba al presente accadere assai di rado e in
(1) Buonarroti, Tancia, att. I, se. 4.
(-} La trasmissione è antica. Da un cod. scritto verso il l-t'O da un
fiorentino, i proif. Novati e Pellegrini (Nozze Venturi-Fanzago, Ancona,
Morelli, 188-1) trassero e pubblicarono una Canzone siciliana, una calabrese,
una che vien dalla Puglia. Nella raccolta di C. Volpi, Poesie popul. ital. del
sec. XV (Verona, Tedeschi, 1891) si trova una Canzona calahi-ese e una
siciliana. Poesie popolari contiene cxuel codice magliabechiano, che T. Ca-
sini chiamò Canzoniere popolare ragionandone nella Rassegna settimanale,
Vn, 3, 13.
332 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
scarsa misura. Altra cosa è invece per le Ariette o
Canzonette del mezzodì, nelle quali le parole corrono
dietro al motivo musicale, senza il cui ajuto proba-
bilmente non uscirebbero donde son nate: ma per
c|uel cli'è degli Strambotti non ci pare che da un
lustro all'altro, in Toscana almeno, vi sieno notevoli
accrescimenti per importazione estrinseche.
Resta adunque che la migrazione sia più antica.
E noi abbiamo il fatto della Serenata del Bronzino,
che ci insegna dover essere alcuni Canti siciliani già
arrivati in Toscana prima della metà del cinque-
cento. Ed anteriormente abbiamo il Poliziano ed
altri, che evidentemente appellano ad una forma non
dissìmile da quella menzionata un secol dopo dal
Bronzino, già largamente diffusa nel popolo, e non
ignota ai più culti. Crediamo perciò che debbasi ri-
salire più addietro, e congiungere fors'anco il fatto
con altra migrazione poetica dall'isola al continente.
E generalmente noto che alla Corte di Fede-
rigo II e di Manfredi si poetò d'amore in volgare
seguendo l'esempio e le forme dei trovatori proven-
zali; ma checché ne dicano il Perticari e certi suoi
antichi e nuovi seguaci, la lingua adoperata nelle
rime del secolo XIII altro non fu se non l'idioma
nativo degli autori di quelle. Né altro potevano
usarne; se anche cercassero di ripulirlo ed ador-
narlo, non già a ragguaglio di altro idioma italico,
ma secondo una capacità sua propria di perfezione,
e al possibile avvicinandolo al provenzale, donde
traevano e voci e desinenze e frasi ed immagini.
Quanta fosse la celebrità di questa scuola poetica,
che sorgeva col merito di esser prima, irradiata dalla
luce che su di lei riflettevano i Trovatori, accom-
pagnata da' trionfi del ghibellinismo, e sorretta dalla
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 333
potenza degli Svevi, si vede, non foss'altro, dalla
pi'ofezia di Dante: che, cioè, alla poesia volgare ri-
marrebbe l'epiteto di Siciliana, né i posteri avreb-
bero potuto mutarlo. O Per tutta Italia si cominciò
allora a rimare sull'esempio di Federigo e de' suoi
cortigiani; e quando in Bologna ed in Firenze sor-
sero altre e diverse fogge di poesia, al nascer di
queste fu impulso efficace non solo la civiltà o cul-
tura propria di quei Comuni, ma anche l'esempio che
veniva giìi dal fondo della Penisola. I poeti siciliani
e pugliesi furono riveriti come precursori, anche da
coloro che ne disertarono le orme : e Dante che ha
severe parole pei toscani, come Guittone, Buona-
giunta, Mino e Gallo, i quali servilmente si posero
ad imitare quegli imitatori dei Provenzali, non ha
se non parole di encomio per Federigo, per Man-
fredi, per Guido Giudice. E le poesie di costoro ven-
nero festosamente accolte in Toscana, e specialmente
in Firenze: e quando cadde la potenza sveva, quando
la giojosa corte di Manfredi cedette il posto a quella
tutta militare del conquistatore angioino, che, se-
condo la pittrice frase del Villani, quasi non ridea,
se «o/i poco; allora, interrotto il lieto corso dell'arte
erotico-cavalleresca, si spense ogni memoria di quelle
rime e di quei rimatori nella terra nativa, e invece
le une e gli altri ebber dritto di cittadinanza in Fi-
renze. Fin da' primi anni del secolo XIV e giù giìi
fino all'età del Magnifico, quando a lui quelle antiche
rime furono dimandate da un principe napoletano,
noi troviamo cotesto poesie copiate in Toscana da
Toscani e specie da Fiorentini : e se queste raccolte
non fossero, poco o nulla sapremmo di quanto venne
(1) De VHÌg. eloq., I, 12.
334 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
composto e cantato nelle regali residenze del mez-
zodì. Ma poicliè siffatte poesie, entrando a far parte
del patrimonio poetico Toscano, dovetter esser can-
tate e lette, a poco a poco andarono smettendo la
loro veste primitiva, per assumere altre sembianze,
proprie al paese di adozione. Questo toscaneggia-
mento trovava naturalmente ostacolo nella strut-
tura delle strofe e nelle consonanze finali de' versi:
SI che spesso l'una e l'altre furono alterate: non
però tanto che l'occhio esperto non possa ancora ri-
trovarle sotto al posteriore raffazzonamento, come
si riconoscono i tratti originali di un quadro sotto
nn mal fatto restauro. Quando, ad esempio, vediamo
fra loro rispondere in fin di verso amoroso ed uso,
nutrisce ed accresce, audivl e vive, noi pensiamo fa-
cilmente ad un amxtrusu ed iisu, accrisci e vici, che
debbono essere spariti nel travestimento toscano, e
che è facile rimettere al posto che loro spetta. (^)
La cittadinanza toscana conferita alle poesie
antiche siciliane nel sec. XIY, si agguaglia al tosca-
neggiamento che abbiamo veduto essersi fatto anche
rispetto alle poesie popolari, e ci riporta all'età stessa
€ poco appresso. Lo scambio intellettuale e poetico
tra gli ordini culti delle due provincie e per la poesia
letteraria, se non è contemporaneo, dovette di poco
precedere lo stesso scambio fra le classi piìi umili
€ per la poesia dei volghi. In questa faccenda noi
dobbiamo procedere per induzioni; ma se hi nuova
(1) Qnest.a questione ho tratt.ita più diffusamente nel mio L-ivoro cri-
tico su Cielo dal Camo, inserito nelle Anticìie i-inie roUiari, secinuin ìa le-
zione del cod, vellicano 3793, Bologna, Romagnoli, 187.">, voi. I, p. 288-295,
e poi riprodotto nel voi. SI udj sulla letter. ital. ne' primi sec, p. 295 e segg.
— Vedi a questo proposito C. Avolio, La qne^^tione delle rime nei poeti si-
<iliani (ì(l nei: XIII, in Miscellanea Caix-Canello, p. 2.)7. e I. Sanesi, Il to-
■scaneggiaiìiento della poesia siciliana, in Giorn. stui: leti. iVmZ., XXXIV, 354.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 335
veste data alle poesie illustri evidentemente appar-
tiene allo scorcio del Dugcnto e ai primordj del se-
colo successivo, l'ugual tramutamento delle poesie
popolari non dovrebbe esser più in qua del mezzo
del secolo XVI, quando certamente esse eran già
note e diffuse in Toscana.
E come a rincalzo dei fatti già addotti com-
mentando il temale del Bronzino, donde rilevasi
che nel Cinquecento già fra noi si conoscevano al-
cuni Canti Siciliani, un altro qui ne soggiungiamo,
che ci riconduce alquanto più addietro, e perciò fa
assai al caso nostro. In un codice conservato nella
Biblioteca di Modena e scritto nel 1495, leggesi que-
st'ottava:
Come ti puote uscire dalla mente,
Come non ti ricordi più di mia?
Come non pensi quanto dolcemente
Son state mille cose fra me e tia?
Bastiti l'alma di non dirmi niente,
Quando mi vedi afflitto per la via?
Se me '1 dicesse tutta umana gente
Che non m'amassi, non lo crederla. (^)
Basterebber la quadrupla alternazione delle due
rime e le forme iiìia e tia per isvelare una primitiva
origine siciliana, sotto una veste nel rimanente to-
scanizzata: ma non senza ragione il Lizio-Bruno ("')
ha fatto notare la rispondenza fra questo Bispetto
e un Canto siciliano, il quale in un luogo dice:
Si' barbara, crudili ed incnstanti ;
Ccu quali cori tu lassasti a mia?
(') Pubblio, dal Cappelli, Brillate, Rispetti d'amore e Poesie varie
tratte da cod. musicali dei secoli XIV, XV e XVI, Modena, Cappelli, 1886.
pag. 27.
(-) C- X>opol. Isol. Eoi., p. 131.
336 LA POESIA POPOLARE ITALLIXA.
e anche:
Ti hi scardasti e ti nisciii di menti,
Comu un jornu t'amai fida e distanti?
E altrove in altro modo; ma mantenendo sempre
qualche cosa, specialmente per le rime in ia ed in
enti, di un archetipo, al quale recare la lezione let-
teraria e insieme la popolare.
Se non che, ci si dirà, in qual modo le poesie
popolari dell'Isola poterono giungere in Toscana?
Le relazioni fra popolo e popolo della Penisola si
sono andate per modo rallentando in questi ultimi
secoli di divisione, di servaggio, di inoperosità, di
letargo, e dal secolo XVI in poi siamo stati tanto
estranei gli uni agli altri, e il muoversi, e il cono-
scere le varie regioni del nostro paese è stata im-
presa così ardua e rara, ch'e' ci sembra debba esser
sempre stato così, anche ne' secoli anteriori. Nel
1809 poteva scrivere il Napione che " in Italia di-
stanti sono i paesi vicini „; e, fino alla metà e oltre
del secolo XIX, eran più prossimi all'Italia supe-
riore e centrale la Francia e l'Inghilterra, che non
il regno di Napoli. Questo un tempo non era, e sin
da quando si destò in Italia l'operosità civile, com-
merciale ed intellettuale, fu un rimescolamento con-
tinuo di idee non solo e di prodotti, ma anche di
persone: sicché dal secolo XIII al XYI si può dire
che non vi fosse nativo d'Italia che stesse fermo al
suo posto, e per amore o per forza non la girasse
per lungo e per largo. Cominciata la tirannide, nei
personaggi da commedia del Cecchi troviamo chi,
non essendo un dappoco, professa e si vanta di non
aver mai perso di vista il cupolone; ma anterior-
mente, Messer Nicla, che è stato sino a Prato alla
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 337
fiera, anzi sino a Pisa e a Livorno e lia visto il
mare, è personaggio ridicolo, del quale tutti si bur-
lano. Qual differenza dai tempi, in che i Fiorentini
erano il quinto elemento: e Dante era stato per le
parti quasi tutte, alle quali questa lingua si stende,
peregrino ; {^) e il Petrarca stava in moto su e giù
per l'Italia, anzi pe '1 mondo; e il Boccaccio, nato
in Parigi, amoreggiava in Napoli, politicava in Avi-
gnone, professava in Firenze, villeggiava in Certaldo ;
e Giovanni Villani governava in patria, mercatava
in Fiandra, e a Roma concepiva il disegno della sua
storia I Non vi era uomo operoso, che, almeno una
volta in vita sua, non uscisse dal guscio, o per ra-
gione di negozj e d'armi, o per amministrare la cosa
pubblica qual Potestà o Capitano, o per studiare
alle Università od insegnarvi, o sbalestrato dalle
ire di parte o dalle conquiste o ribellioni, o per
semplice vaghezza di nuove cose e nuovi costumi.
Né solo Fiorentini, ma Genovesi e Veneziani erano
per tutta Italia, anzi per tutto il mondo : e per ogni
dove eran disseminati i Lucchesi, che più di molti
altri serbano tuttavia tale usanza. I grossi mercanti
traevano seco i più umili artieri, per piantare qua
e là le industrie della seta e della lana; dalle più
lontane provincie, i Santuarj chiamavano torme di
pellegrini alle feste e ai perdoni; correvano soldati
ove fosse preda e paga, e operaj campagnuoli alle
mietiture e alle vendemmie. Altre volte erano in-
tere popolazioni, che cacciate dalla bufera d'oltre-
menti, a frotte a frotte fuggivano lontano; e troppi
esempj ve n'ha senza quello del sec. XVII narrato
dal Manzoni. Fin dal 1483 il diarista Landucci ve-
li, Convito, I, 2.
D'Ancona, La poesia poj}. Hai. — 22
838 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
deva " molte famiglie „ clie la guerra e la fame cac-
ciava di Lombardia: " passavano e andavano in quel
di Roma, a cinquanta e cento per volta, intanto che
furono parecchie migliaia, e anche per la Romagna
ne passava assai e d'altri paesi : dissesi che furono
più di 30 mila persone „: ed era " gran compassione
a veder passare tanta povertà, con un asinuzzo, colle
loro miserie d'un paioluzzo, una padella e simile po-
vertà, in modo che facevano lacrimare chi li vedeva
scalzi e ignudi „. (^) I grammatici del secolo XY,
come i letterati del successivo, hanno tutti un po'
dello zingaro, e vanno qua e là, tratti dai migliori
stipendj, ricercati da Principi e Repubbliche come
segretari o professori. Le provincie inferiori d'Ita-
lia, O separate poi dal resto della Penisola da una
muraglia ad uso della Cina, erano allora apertissime:
davano e ricevevano ; e se torme di genti ne esu-
lavano per le frequenti conquiste, torme di genti
vi si recavano per amor di guadagni. Dei casati
pisani, venuti meno in patria, gran parte si ritrova
anche al dì d'oggi in Sicilia: e Ruggero Settimo,
per dirne uno, era di pisana discendenza: che fa-
miglie di qua avevano migrato nell'Isola, prima
pe' traffici, poi per fuggire la soggezione fiorentina.
Tutti si movevano: andavasi per mare o per terra,
a piedi 0 a cavallo, a dorso di muletto o colla spe-
ditezza del cavallaro: ma si viaggiava; gli individui,
le famiglie, le popolazioni intere si tramutavano.
(1) Diario fiorentino dal 1450 al lóJtì, pubbl. da J. Del Badia, Firenze.
Sansoni, 1883, p. -16.
{-) Vedi nel Vigo il § LVIII contenente i Cauli lombardi di S. Fra-
tello e di Piazza, cioè delle Coionio monferrine, che migrarono nell'isola
ai tempi normanni. E altrove, n. 626, riferendo un Canto di Novara sicula,
al verso: Ecri dintra di mia, evci l'inferno, annota: "Ecco un altro ita-
lianismo. E da notare come i popoli lombardi ancora dopo otto secoli por-
tino vestigj del parlare natio ,.
LA POESIA POPOLARE ITALIAXA. 339
s'incrociavano, s'incontravano, mescolandosi: s'im-
paravano i varj idiomi, e mentre il toscano si span-
deva coll'efficacia degli esempj letterarj, degli altri
vernacoli si apprendevano per dimora sui luoghi le
forme particolari.
Non è quindi da far meraviglia se diremo aperte
allora tutte le vie per le quali i Canti del volgo di
una parte d'Italia potevansi trasmettere alle altre.
Li imparava il toscano che soggiornava in Sicilia,
e poi li riportava seco in patria, come memoria de'
giovani anni ; (^) li portava seco, come preziosa e
cara suppellettile domestica, il siciliano che abban-
donava l'isola natia: il cantore girovago li diffon-
deva per tutte le città, cantandoli sulle piazze. Mille
vie, mille modi erano pronti alla propagazione loro:
e se non fosse stato altro, questi alati prodotti della
fantasia sarebbero stati recati di qua dal Faro dal
soffio del vento, germogliando coìne gran di spelta
dovunque posassero: dal soffio, dico, di vita, di opero-
sità che aleggiava allora su tutta la Penisola, prima
che v'incombesse sopra l'atmosfera di piombo del-
l'età dell'inquisizione e degli Spagnuoli. ,
X.
Un altro quesito resta tuttavia da studiare; (")
rimane da sciogliere, se è possibile, uu altro groppo.
(1) Un Giovanni Alberto Antognoli lucchese raccolse poesie siciliane
nel 1631 stando a Messina, e le trascrisse in un eodicetto, ora posseduto
dal prof. U. A. Amico, che dovrebbe darne ampia notizia. Altrettanto fece
un Agostino Cancellieri pistoiese: vedi G. Nerucci, Mescolanza ecc. Pistoia,
Fiori, 1905, p. 5. È presumibile che prima e poi altri ancora facessero con-
simili raccolte.
(-; Non abbiamo trattato di proposito della origine e significato della
340 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
Ammessa ia identità del Canto popolare in tutte le
Provincie e in tutti i dialetti d'Italia, noi troviamo,
messe da parte le differenze di minor conto, tre es-
senziali tipi di strofa: il Siciliano, il Toscano, e quello
dell'Italia superiore. Al primo consuonano le forme
piìi consuete delle provincie meridionali ; al secondo,
quelle umbre e marchigiane; al terzo, le emiliane,
venete, lombarde, piemontesi e liguri. La poesia po-
polare del Lazio ci presenta indifferentemente i due
primi tipi. Ciò, s'intende, in regola generale, e salvo
le eccezioni.
Il tipo, adunque, siciliano sarebbe la strofa di
otto versi; (^) il tetrastico, con pili o men lunga ag-
giunta, dà proprio carattere alla poesia toscana; e
il semplice tetrastico a quella della terza regione, (^)
Tali sono gli schemi piìi costanti della metrica po-
polare nell'Italia insulare ed inferiore, nelhi, media
e nella settentrionale. Le altre forme sono varie
combinazioni di queste tre, e su di esse crediamo
voce Sti-an>botto, clie, come è noto, ha dato origine a molte e varie opinioni.
In argomento cosi discusso, ci pare poterci per ora accostare alla soluzione
proposta dal Nigra, C. p. Pieni., Prefaz., p. xii, secondo la quale, prove-
nendo daWestramps provenzale, Strambotto non significherebbe però verso
non appajato col rimanente per la rima, ma strofa a sé. non legata col resto.
11 diminutivo Strambotto, pur derivando dal provenzale, avrebbe assunta fra
noi diversa appropriata significazione, come il diminutivo Sonetto, jtrove-
niente dalla medesima lingua, designò altra cosa che il Son. " L'appellativo
che in Provenza, ei conchiude, fu applicato al verso, in Italia si applicò alla
strofa „. Su questa controversia vedi anche T. Ortolani, Studio riassnntiro
sullo Strambotto, Feltre, tipogr. G. Castoldi, 1896, speei.almente a p. 24 e segg.,
dove è riassunta la dottrina del Nigra, son ricordate le obiezioni di G.Paris,
ed esposte le proprie. Questa lis è sempre sub Jiidice.
(1) " I nostri villani dicono che la Cnmuna è di quattru piedi, che
cos~i chiamano 1 distici, e quando non ne ricordano qualcuno, diranno:
Manca di un piede, ma V lio dimenticato ecc. „ : Guastella, Prefaz., p. cxxi,
(2) Avvertasi però che parecchio volte nel Veneto il tetrastico è di
mera apparenza, non altro essendo il quarto verso se non ripetizione esatta
del piimo: v. ad es. Bernoni, punt. I, n. 14, 25, 53, 7tì, 78 ecc. E cos'i anche
nel Piemonte: v. Ferraro, C. popol. monferr., Stramb. n. 24, 28, 92, 99. Il
che è riprova che la forma normale ò il tetrastico, se ad essa vien tratto,
per tal modo .allungandolo e compiendolo, anclie il ternario.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 341
inutile fermarci, tanto più che lo Schucliardt e il
Nigra lo hanno fatto pazientemente e dottamente.
Certo, anche in Toscana trovansi ottave perfette, (^)
che però spesso sanno di letterario: nel Veneto e
in Lombardia si rinvengono tetrastici colla coda,
all'uso toscano: 0 nel Napoletano si ha l'uso pro-
miscuo di varie forme; ma nella massima parte de'
casi le diverse fogge metriche rispondono all'accen-
nata distribuzione topografica. Degno è invece di
nota, che la ripresa toscana non apparisca mai nei
Canti siciliani, (^) e raramente nei Napoletani. (*)
Studiamo più attentamente lo schema di queste
tre forme principali. La strofa siciliana è composta
di otto versi con sole due rime, che quattro volte
si alternano, mancando così della chiusa propria al-
l'ottava letteraria. Un suo quasi costante carattere
è l'uso di quella che il Nigra chiama consonanza
atona, la quale colla diversità della vocale tonica
finale produce una particolare omofonia, che potrebbe
dirsi dissonante o di contrasto (ad es.: uri, ari; iti,
ati; aru, ari; uri, ari; utu, atu ; aìiza, enza ; isti, asti;
(1) Tigri, ii. 133, 177, 346, 360, 562, C50, 682, 691, 859, 993, 1132 ecc.
Ma ili questi casi si riconosce, mal dissimulata, la derivazione letteraria.
E così dicasi delle sestine perfette: ad esempio i n. 461, 493, 519, 1138 ecc.
(2) Ad esempio, Beknoni, punt. I, 51 ; VI, 22, 50 ; VII, 41 ; X, 28,
86 ecc.; Dal Medico, p. 29, 48, 52, 54, 55 ecc.; Righi, n. 60, 72, 73, 79 ecc.:
AlverÀ, n. 7, 8, 12, 15, 18, 21, 22, 23 ecc.; Makcoaldi, C. popol. liguri,
11. 1, 24 ecc.
(3) Il Salomone Marino, Baronessa di Carini, p. 103, sostiene contro
il Vigo che le ottave caudate sono cosa siciliana; il clie può esser vero
per quel che spetta alla poesia narrativa, o Storii (v. ad es. Pitrè, C. po-
poK siciL, II, 265 ecc.), non alla lirica. Che se alle poesie non narrative è
talvolta aggiunto un seguito di due o più distici, manca la ripresa, cioè
lo svolgimento ampliato, la ripetizione con cangiamento di luogo delle
parole dell' ultimo verso, come si usa in Toscana. Nella raccolta del Vigo
trovo un esempio di ripresa (n. 12), ma l'alternazione delle rime continua
sino a sei volte, sicché non c'è da far ragguaglio col Rispetto toscano, dove
questa coda è composta di distici a rima baciata.
(■1) Imbriani, C. popol. prov. merid.,vo\. I, pag. 277; II, 40, 49, 59, 79,
127, 146, 237, 245, 250, 291, 317, 320, 425.
342 LA POESIA POPOLARE ITALU.NA.
azzu, izzu ecc.). Talvolta anche si hanno quelle che
i trattatisti chiamano ottave incatenate, O nelle
quali ogni verso comincia coli' ultima parola dell'an-
tecedente: (") ma questo è sfoggio artificioso, e quasi
vaghezza della Musa popolare di superare quelle
difficoltà, che a sé stessa pone la Musa dotta.
Il tipo del Canto settentrionale corrisponde a
quello della prima metà del siciliano : è una quartina
nella quale rimano fra loro il primo verso ed il terzo,
il secondo col quarto. Generalmente, per una specie
di logoro, addotto dagli anni o dalla tradizione orale,
per necessità di rima o di travestimento idiomatico,
la consonanza atona è sparita anche in quei casi,
ne' quali indubbiamente v'è corrispondenza fra due
lezioni, anzi derivazione certa dell' una dall'altra che
la possiede.
La stessa organica struttura avrebbe il Canto
toscano, se al tetrastico non solesse appiccare una
coda, di maggiore o minor lunghezza. Questa però
non è arbitraria e indipendente: non contiene altri
sensi, 0 liberi ampliamenti del già espresso: ma, in-
tanto che per nuova ragione di desinenze e nuovo
annodamento ritmico si scioglie dal tetrastico, vi
resta in ciò connessa, che l'aggiunta riprende e
svolge novamente e variamente un concetto, una
(1, QuAr>Rio, St. e liagion. ecc., I, 232.
2) Vedine esempj in Vigo, n. 732, 2360, 3006, 3014, 3111 ecc. Re ne
trovano esempj frequenti anche negli eleganti strambottisti del Quattro-
cento; e valga per tutti questo di Serafino Aquilano:
Volgi gli ocelli pietosi a' miei martire,
Martir, clie per te porto, o car Signore:
Signor dello cor mio sino al morire.
Morir non curerìa per vostro amore,
Amor mi ha dato e insegnami a fuggire,
Fuggir non ho possuto al gran dolore,
Dolore allo cor mio, ch'io sento forte:
Porto per te, Signor, domando morte.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 343
immagine, ima frase, una parola dell' ultimo verso,
o al più del penultimo, e muta soltanto la colloca-
zione delle voci: né questa ripetizione si ferma quasi
mai ad un solo ritorno, ma va anche più oltre, seb-
bene comunemente si contenti di due volte. Questa
aggiunta, che noi chiameremo ripresa, è di due versi
rimati insieme, e la rima cangia ad ogni distico.
La ripresa è, dunque, forma essenziale e carat-
teristica del Canto popolare toscano, o Rispetto: (^)
e quando si rinviene in Canti di altre regioni si può
ben dire che ciò provi derivazione od imitazione.
Di essa può trovarsi qualche imperfetta immagine
anche nella poesia dell'arte, alla quale probabilmente
è passata pel tramite dei Cantari di piazza, e certo
è forma che fa molto comodo al genere narrativo.
Lo Schuchardt (") ne ha trovato tracce anche nel-
l'Ariosto, e il più notevole esempio è questo :
E fa crollar si il mirto ov'è legato
Che delle frondi intorno il pie gl'ingombra:
Crollar fa il mirto e fa cader la foglia,
Né succede però che se ne scioglia. (^)
Aggiungasi quest'esempio del Bojardo:
Cristiani e Saracin fuggìan smarriti,
Come fosser quei due d'inferno usciti.
Siccome due demonj dell'inferno
Fossero usciti sopra de la terra ecc. (■*)
(1) Il CARDUf'Ci, Stuclj ìefterarii, Livorno, Vigo, 1874, p. 418, opina clie
la ripresa sia venuta al Rispetto toscano dalle coppie finali del Madrigale.
A me non farebbe serio ostacolo la derivazione da una forma letteraria;
ma osservo che in tal caso la poesia popolare avrebbe tolto dalla eulta
soltanto la rima accoppiata o baciata, non già la rijiresa, cioè la ripetizione
modificata o la varia collocazione delle ultime parole o dell'ultima im-
magine, che è pur la cosa più caratteristica del Rispetto, e che nel Madri-
gale non v'è.
(2) Op. cit., p. 120.
(3) Cant. IV, ott. 26.
(4) Ori. innamor., II, e. 14, ott. 2-3.
344 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
E gran numero di raffronti ci offrirebbero gli umili
poemetti popolari del Quattrocento. Ma qualche cosa
di simile ci danno anche gli Strambotti letterarj :
questi, ad esempio, del Poliziano :
Ingrata, se tu m'hai furato il core,
Non sa' tu ben che render te '1 conviene?
S'essere isciolta vuoi del tuo errore,
Rendimi '1 cuore, e fa'mi qualche bene.
Non sa' tu che t'è infamia e disonore
Tenere il servo tuo in tante pene?
Rendimi il cuore, e non mi far penare.
Che troppa dura cosa è l'aspettare. (')
Del bel campo ch'arai con sudor tanto
Un altro ha preso le ricolte in erba :
Della vite eh' io posi all'alber santo
Un altro ha vendemmiato 1' uva acerba ;
E '1 frutto eh' io ricolgo è doglia e pianto,
Che lo 'ngrato terreno al cnltor serba;
Or di rabbia si strugge '1 core e rode;
Un altro ha il frutto e del mio stento gode. ('-)
Tuttavia ognun vede come la ripresa popolare non
sia la stessa cosa di questa figura di ripetizione ; e
come ne' due esempj del Poliziano manchi la imme-
diata vicinanza col verso da rimutare.
La forza della consuetudine è tanta nel cantore
toscano, e sì caro è il vezzo della ripresa, ch'ei l'ag-
giunge anche a strofe metricamente perfette, come
a questa che primitivamente era un'ottava secondo
le norme dell'arte:
Non so se fuori sto, se dentro torno,
Sento che lo mio cor brucia e dispera:
0) Ed. cit., pag. 194.
(2) Ed. cit., pag. 207. È con lievi varianti lo Strambotto che abbiamo
riportato qui addietro a pag. 194 col nome dell'A^riLANO, avvertendo il
frequente scambio dei codici e delle stampe fr.a i comj)onimenti di questo
autore e quelli del Poliziano.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 345
A tutte l'ore ho l'assedio d'intorno,
Son come il cacciator con cruda fiera;
0 mangi o beva, o sia notte o sia giorno,
Sento la pena mia sempre più altera;
Per doglia e per amor son qui venuto,
Non son dallo mio ben riconosciuto;
Per doglia e per amor son qui arrivato,
Mi trovo dal mio bene abbandonato. (')
Ma il caso più singolare è quello di due strofe
di dieci versi l'una, che, tratte fuori da un poema
notissimo al volgo, si sono indebitamente introdotte
nella raccolta del Tigri, (^) a far serie cogli altri
Rispetti veri e proprj. Appartengono esse, come fu
già da altri avvertito, (^) al poemetto di Paris e
Vienna, e sono le ottave 38" e 39» del quinto Canto:
Parisse per volendosi partire, (*)
E' corse Vienna ad abbracciarlo stretto.
Dicendo : Come mai potrò soffrire
Tanto dolor che sì m'affligge il petto ?
Meglio che adesso non potrei morire.
Che mi ritrovo in braccio al mio diletto !
Forse che, sposo, non ti vedrò pine!
Morte, fammi morir, che aspetti tue? (^)
Forse che, sposo, non ti vedrò presto :
Morte, fammi morir, che aspetti adesso ?
Ditte queste parole, andar si vede
In terra, e come morta s'abbandona :
(1) Tigri, n. 1159.
{-) Il buon Tigri non si è pur neanche avvisto die il n. 956, come notò
già il sig. Stef. Sindoni, Sulla jìoenia popolare italiana, Treviso, Friuli.
1868, pag. 19, è, malgrado qualche rima di semplice assonanza, un Sonetto
bell'e buono.
(3) Imbriani, Dell'Oì-ganisiìio poetico e della poesia popolare italiana,
Napoli, 1866, pag. 151.
(4) Se il Tigri avesse consultato anche la più dozziuale ristampa del
poemetto (io mi servo in fatti di una edizione in carta straccia, di Lucca,
Baroni. 1858) avrebbe visto che invece di per qui dovevasi mettere poi.
(5) Varianti della stampa citata: v. 2: Vienila corse — 4 che mi tra-
fìgge — 5 Deh, perchè adesso — 5 Ritrovandomi — 7 S2JOSO che forse non
vedrò mai più — 8 Amor.
346 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
Più nou si regge la meschina in piede
E da sé stessa alla terra si dona.
Non ode 0 pur non sente ne non vede
Qual è colui che per pietà la sprona:
Quando si pensa esser di vita priva,
In braccio del suo amor si trovò viva: (')
Quando si pensa esser di vita sciolta,
In braccio del suo amor si trovò tolta. (^)
Or dunque, se il passaggio dei Canti di regione
in regione fu quale abbiamo qui dietro descritto,
dovrà dirsi che l'ottava sicula giungesse perfetta in
Toscana e fosse smozzicata dopo il tetrastico, sosti-
tuendovi la ripresa, e che poi, passando il Po, rima-
nesse a sua volta priva dell'aggiunta fattale, tornando
ad un semplice quadernario ? A noi tutto questo la-
voro di scomposizione e ricomposizione sembra, a dir
vero, un po' complicato. Ammettiamo che nelle tra-
duzioni dal siciliano al toscano sparissero il più delle
volte (^) le alterne consonanze afone, per la ragione
che già dicemmo di minor vaghezza di tale omofonia
0 per necessità idiomatica; ma strano è che di ot-
tave siciliane un solo esempio si possa osservare fra
i Canti toscani, e questo di probabile derivazione
letteraria e scritta. {*)
(1) La stampa: v. 1. Dette — b E pia non ode non parla e non — 6 Chi
sia colili che sì a pietà lo — 1 Si crede al tutto — 8 E in braccio del suo
ben si trova.
(~) Tigri, n. 613. Anche nell'IvE. p.Tg. C2, si trova un frammento di
questo Romanzo popolare :
Se ti savissi, Viena, el mio dulure !
di' i" nel pito i' me sento, anema mela;
In nel pito i' me sento un caro afieto,
Clic ardo, me consoumo doùta vèia.
(^1 Ma non di rado son restate : v. Tigri, n. 28, 30, 43, 52, 70, 79, 88, ecc.
(<) Giudiclii il lettore :
Per confetti m'hai dato il sublimato,
Pretendi ch'io lo prenda e che sia quieto;
II magistrato che se n'è inquietato,
Bandito or ha per te questo decreto.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 347
Anche è degno di nota che dandosi nei Rispetti
toscani il caso di consonanze atone alterne, alla si-
ciliana, non si proceda, salvo rarissimi casi, (^) oltre
il tetrastico. O Se per esempio, il siciliano dice :
A la finestra non ti cci affacciavi,
Ca l'omini di pena fai murili :
Ssa bruna trizza non ti la 'ntrizzari,
Facci 'na rrosa, e lassila pinniri ;
Veni In ventu, e la fa spampinari,
E cchiu di l'oru la fa straUicin :
Bedda. quannu t'affacci e sta' a filari,
Cu l'occhi hi to amanti ti lu tiri ; (^)
il toscano si contenta di cantare:
Se vuoi vedere il tuo servo morire.
Questi capelli non te li arricciare.
Giù per le spalle lasciategli gire.
Che pajon fila d'oro naturale: (*)
0, se vorrà andar più innanzi, ai corrispondenti versi
siculi sostituirà la solita ripresa:
Pajono fila d'oro, oro infilato:
Son belli li capelli, e chi li ha in capo ;
Pajono fila d'oro e seta fina :
Son belli li capelli e chi li striga. (^)
Pel naso non son stato mai menato,
Manco ho bevnto il vino per aceto ;
O campo, che da me sei coltivato,
Ti vo' cinto di gran, non di canneto.
Tigri, n. 966: ma forse è unione fortuita di due diversi tetrastici: che al
primo dovrebbe seguire il tenore del decreto.
(1.) Esempj di tetrastici con consonanza atona, ma seguiti da più o
men lunga ripresa, v. nel Tigri ai n. 28, 29, 30, 43, 79, 142, 237, 286, 315,
320, 330, 339, 348, 356. 395, 424, 437, 516, 532, 533, 576, 605, 619, 633, 651,
690, 697, 748, 791, 792, 848, 909, 921, 926, 942, 1003, 1015, 1036, 1120, 1132 ecc.
Altrove, n. 196, 253, 345, 674, 721, 795, 1099, 1178 ecc. Tassonanza atona dura
per un esastico. Altrove ancora, n. 254, 829 ecc. dura per cinque versi.
{"-) Vedi ad es. Tigki, n. 366, 525, 547, 648, 897, 1072, 1119 ecc. che sono
meri tetrastici con consonanza atona alterna.
(3) Vigo, n. 428.
(4) Raccolta della stamperia Gino, e Tommaseo, pag. 78. Altra lezione
pistojese pur di quattro versi, ma applicata ad uomo, nel Tommaseo, p. 396.
(5) Tigri, n. 122. Vedi una lezione alquanto variata in Giuliani, Mo-
348 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
Ne meno osservabile si è che le lezioni ultrapadane
di Rispetti toscani abbiano ordinariamente gettato
via la ripresa toscana, conservandola nel minor nu-
mero de' casi.
Or non potrebbe essere che i Canti, i quali si
rinvengono nell'Italia settentrionale senza l'aggiun-
zione toscana, fossero già semplici tetrastici quando
vi giunsero, e gli altri colla ripresa rappresentassero
una posteriore immissione? E non potrebbe anche
essere che il Canto siciliano arrivasse in Toscana,
non già nella sua forma presente e normale, ma
stretto e racchiuso in soli quattro versi, i quali poi
qua ricevessero l'ornamento e la finitura della rima
baciata, (/) e in Sicilia l'appiccatura del secondo qua-
dernario? Sappiamo bene quanto in siffatta materia
debbasi concedere all'arbitrio de' cantori, che già
fanno assai se di padre in figlio e di secolo in secolo
trasmettono intatto questo lascito, affidato alla sola
memoria; sappiamo bene che abbiamo dinnanzi a
noi una materia scomposta, e quasi diremmo, inor-
ganica, che cangia sempre struttura e membra per
labilità di reminiscenze, e si annoda ed ordina va-
riamente al richiamo di una immagine, di una pa-
rola, di una desinenza: che la strofa ora è ottava,
ora esastico, ora tetrastico, ora tristico, or distico,
con perpetua vicenda, secondo luoghi e persone: (-')
che, insomma, il sistema della metrica popolare ha
ralità e Poesia, ecc., pag. 244. Cfr. Marcoaldi, C. popol. umbri, n. 9, 199;
Ferraeo, C. pop. monfei-i:, Stramb. ii. 15 ; Pigorini-Beri, pag. 47 ; GiA-
NANDREA, pag. 61.
(1) Anche pel Nigra (C. p. ci. Pieni., xxii), i versi con rime baciate
lianno il eaiattere di " aggiunta posteriore al primo tetrastico „.
(2) È da notarsi anche che Io stesso Canto, quando vi si nominino
luoghi 0 persone, differisce in ciascun paese, con visibile intenzione di na-
turarsi là dove si canta. Dal che potrebbero recarsi molti esempj, e adesso
uno ce ne viene a mente. Uno .Stornello toscano dice :
LA POESIA POPOLAKE ITALIANA. 349
più eccezioni che regole. (^) Ma pur tuttavia ferma-
mente crediamo che debbavi essere una forma rudi-
mentale e semplicissima, alla quale possano senza
sforzo recarsi le molte varietà, e in che faccian capo
tutte le altre fogge di versificazione, diramandone
come da nucleo primitivo e necessario.
Questa forma semplice e primitiva è, a parer
nostro, il tetrastico, proprio pur anco, salvo la di-
versa misura del verso, di una specie di Canti sardi,
le batto)- inas, (") e di quella particolar foggia di Canti
Fiorin di canna :
In carcere ci so' per una donna,
Dal caporale aspetto la condanna ;
e forse originariamente fu composto da qualche soldato sottoposto a pena
per amori vietati dalla disciplina, o per baruffe nate a cagion di femmine.
In Toscana si specificò meglio col verso: E di Firenze aspetto la condanna
(Tommaseo, pag. 345: Giaxxixi, pag. 50;, e Firenze o Fiorenza mantengono
le lezioni veneziane (cfr. Dal Medico, pag. 208; Beknoni, X. C. pojìol. ve-
nez., p. 1.3). Nella versione padana aggiungendo nuova rima si cambiò luogo:
La cundana la vien da Livorno: Bela ti sposerò al mio ritorno (Ferrako,
C. popol. di Lagose, n. 3), e Livorno non in rima ma nel mezzo del verso,
è in una versione delia valle tiberina (Coeazzixi, pag. 16:2). Ma in Sicilia,
e certo lo stornello vi giunse, o se già v'era si modificò dopo l'annessione,
si canta: E di Ttirinu aspettii la ciinnanna: cfr. PitrÈ. C. popol. sicil., I,
pag. 69. — Un altro esempio di quest'adattamento a luogbi e tempi, me
l'indica l'amico Michele Barbi. Nelle Marche suona questo Stornello (Gia-
nandrea, pag. 204) :
Fiore di grano :
Paura non avemo de nessuno,
Avemo buona lingua e mejo mano.
Nel piccolo paese di Taviano, nella montagna pistoiese, dond'è nativo il
Barbi, e di' è composto di una diecina di famiglie, lo Stornello ha preso
questa forma:
Noi siamo della cura di Taviano ;
Paura non abbiamo di nessuno,
Abbiamo buona lingua e meglio mano.
E a Casale in Val di Cecina lo dicono così, come me lo riferisce il pro-
fessore F. C. Pellegrini:
E siamo di Casale, e siamo e siamo;
Paura non abbiamo di nessuno
Abbiamo buona lingua e meglio mano.
(1) Vedi del resto, la Dissertazione dello Schuchaedt.
(-) E. Bellorini, C. pop. amorosi raccolti a Xitoro, Bergamo, Catta-
neo, 1893, p. 32.
350 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
popolari, che sono le Viìloffe friulane, nate e vissute
solitane in quell'angolo d'Italia, che appartiene al
dialetto carnico.
Data una volta la lusinga, la carezza musicale
della rima, basta, ad appagare il desiderio dell'orec-
chio e dell'anima, l'alternazione di due desinenze in
quattro versi; le successive ripercussioni ritmiche,
e i varj intrecciamenti vengono dallo studio, dalla
riflessione, dalla voluttà, diremmo, che ha ingenerato
il primo e più semplice esperimento. E noi vediamo
che il tetrastico basta infatti allo svolgimento poetico
ed all'appagamento del cantore presso le popolazioni
della Carnia, del Po, della Laguna, di tutta l'Italia
subalpina: nelle più ampie canzoni toscane larìpresa
altro non è salvo uno svolgimento del tetrastico: e
se si guarda la struttura del siculo Strambotto, si
vedrà che non poche volte gli ultimi quattro versi
sono soltanto una ampliazione, spesso superflua, una
appiccatura, non di rado incomoda, al tetrastico fon-
damentale. Ad ogni modo, anche quando la saldatura
delle due partì è perfetta, anche quando l'un tetra-
stico è omogeneo all'altro, alla fine del quarto verso
vi è come un riposo della voce e del pensiero; sicché
si direbbe che giungendo al quinto e l'una e l'altro ri-
prendano nuova lena. Certo, per l'aggiunzione di una
seconda quartina, pel suo allungamento fino ad otto
versi la strofa lirica appare più robusta, e la mani-
festazione del pensiero può dirsi piena in ogni sua
parte; ma ognun vede come la forma semplicissima
del tetrastico sia sufficiente al giuoco ritmico, e le
due ultime volte sieno un fatto secondario, riflesso,
artificioso. Il tetrastico è pertanto forma primordiale,
e da essa si sono ingenerati i metri più noti della
poetica dotta e della popolare. Aggiungendo un se-
LA POESIA POPOLARE ITALLWA. 351
condo tetrastico sulle stesse rime, la metrica dei
volghi ha creato la così detta ottava siciliana, che
perciò consta di sole due rime quattro volte alter-
nate. Ma ognuno comprende quanto poca saldezza
avesse una strofa, dove è mero arbitrio o mera im-
potenza fermarsi al quarto ritorno della rima. Così
dovette pensare il cantore popolare di Marittima e
Campagna, presso il quale troviamo bensì l'ottava
siciliana, ma quasi a conchiuderla si ripetono in fondo
i primi due versi. Al cantore dell'arte, quando l'ot-
tava fu assunta a più alto ufficio, questo spediente
doveva apparire troppo ingenuo, e in ogni caso di-
sadatto alla forma narrativa, che ben presto si ap-
propriò quel metro: e allora, dopo il sesto, furono
soggiunti due altri versi a rima baciata, che mira-
bilmente valsero a sigillare la strofa. (^)
A siffatta sapiente novità, che comunicava sal-
dezza vera alla strofa, e quasi le dava corpo, poteva
forse invitare la ripresa, pur a rima baciata, che il
popolo toscano metteva al posto del secondo tetra-
stico siciliano. Lo stesso fu fatto anche per la sestina,
che è il primo o più semplice allungamento artistico
del tetrastico: per la sestina, che è forma di versi-
ficazione più antica, che comunemente non credasi.
Medesimamente, il Sonetto, forma artificiosa se altra
mai, altro non è, chi ben veda, se non l'accozza-
mento, o meglio la fusione di due tetrastici alla fog-
gia àeW'ottava siciliana, e di un esastico senza le finali
(1) È noto clie circa l'origine e formazione dell'ottava letteraria, altri
pensò o pensa altrimenti: come ad es. T. Casini (Le forme metriche ita!.,
Firenze, Sansoni, 1890, p. 73), secondo il quale non sarebbe altro " che un.i
stanza di canzone usata come componimento speciale „ ; A. Borgogxoxi (X.
Antol., Xni, -I-li), che la faceva svolgere dalla strofa della ballata; e F. Fla-
mini [Studi (lì storia ìeffer., Livorno, Giusti, 1S95, p. 150-2; e Hass. hihl. letter.
iteti., IV, 167) che la fa derivare dalla strofa della Lauda (v. Ortolani, op. cit.,
p. 34 e segg.)
35'2 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
rime baciate. (^) Tuttavia è da notare clie nel se-
colo XIV troviamo numero grandissimo di Sonetti,
ai quali dopo la sestina finale si accodano due versi
in rima fra loro, quasi ultimo e fermo sigillo posto
al componimento di quattordici versi, come già a
quello di otto.
Or dunque, anziché supporre una serie di ag-
giunte e di resecazioni, noi opiniamo, e se erras-
simo ci piacerebbe di farlo coi valenti amici Nigra
e Scbucbardt, che il Canto popolare nella prima sua
forma fu soltanto un tetrastico. In tal forma esso
si sparse fuori dell'Isola, e giunse in Toscana, e
dalla Toscana passò ad altre regioni. Così si spie-
gherebbero agevolmente e il tetrastico caudato to-
scano e il tetrastico semplice transpadano. Ma ciò,
lo ripetiamo, non vieta che in altre successive mi-
grazioni, in altre sciamate di Canti la strofa siciliana
giungesse intera, dappoiché talvolta le rassomiglianze
vanno piii oltre del quarto verso, o il nuovo composto
è messo insieme di versi liberamente scelti per tutta
l'ottava: come anche non esclude l'ipotesi che oltre
Po giungessero posteriormente Canzoni toscane colla
ripresa. Ad una seconda migrazione potrebbero spet-
tare quei Canti di Marittima e Campagna, cui or
ora accennammo, dove all'intera ottava siciliana,
fors'anco per ragion della musica, è aggiunta la ripe-
tizione del primo distico. Se non che questi Canti
(1) Altri proposero altra origine al Sonetto, e questo non è il luogo
'li confutare le diverse opinioni e corroborare di nuovi argomenti la mia
qui appena accennata, ma svolta e dimostrata poi da H. Wei.ti. Gesch. d.
Sonetten in d. deutsch. Dichtung (Leipzig. Veit, 1881) e da L. Biadkne, Mor-
folof/ift del Sonetto (voi. X degli Studi di filol. romanza, Koma. LoescLer, 1888,
p. 219) e sostanzialmente accolta anche da A.Fouesti, Xuure osservaz. sull'ori-
gine del S. (Berg.anio, 1895), secondo il quale alla configurazione del Sonetto
deve però aver avuto efficacia l'esempio della Canzone, divisa in due piedi
e due volte (v. in proposito Biadene, in G. Stor. Lett. Iteti., XXVIII, 225).
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 353
riconoscono, come vedremo, un'origine letteraria, e
nel mezzo d'Italia dovettero giungere in raccolte a
penna o a stampa, piuttostocliè per orale tradizione.
Quando, adunque, il Canto popolare echeggiò per la
prima volta dall'Etna agli Appennini, e dagli Ap-
pennini si prolungò di rimbalzo fino alle Alpi, e' ci
par ben certo che non dovesse andare piìi oltre del
quarto verso: e se ciò fosse, avremmo un nuovo
argomento dell'antichità dei Canti, e della sollecita
loro diffusione dall'Isola al territorio peninsulare. E
al nostro opinare su tal primitiva forma del Canto,
porgerebbe rincalzo gagliardo quanto assevera il
Pitrè: che, cioè, chi canta, giungendo al quarto
verso, si riposa, perchè considera come regolarmente
divisa la Canzona in due parti uguali. (^)
Rimane adesso a dire di un'altra notissima forma
del Canto popolare italiano, cioè dello Stornello. (^)
Di esso parliamo per ultimo e brevemente, perchè
nella sostanza il più delle volte altro non è se non
un Rispetto compendiato. C) Piìi importante forse è
studiarne le varie configurazioni ritmiche.
Di queste la più semplice è il distico a rime
(1) e. popol. sicil., Prefaz. I, pag. 30. E il Nigra, C. p. ti. Piem., p. xxir:
" L'ottava siciliana è in sostanza un doppio tetrastico a rime alterne.
Infatti dopo i quattro primi versi v'è pausa, ed i due tetrastici dell'ottava
si possono facilmente separare. Kè sono rari gli esempj di ottave siciliane,
che cambiano addirittura l'assonanza nei quattro ultimi versi. Sembra perciò
molto probabile che la forma archetipa dello Strambotto sia il tetrastico
endecasillabo con rime alterne „. Vedi anche Rubieri, p. 46.3, il quale oppor-
tunamente osserva che " se non tutti i Canti popolari sono composti di
quatti'o in quattro versi, tutti bens'i si modulano come se tali fossero, perchè
se in alcuno i versi effettivi fossero tre come nello stornello o sei come
della sestina, nel cantarli si ripete un verso nello stornello o una coppiola
nella sestina per formarne o la quartina nel primo caso o l'ottava nel
secondo „.
(-) Gli Stornelli, per confusione coi veri e propri Bitornelli (frane, re-
frain), hanno preso in Roma quest'ultimo nome, che malamente fu seguito
dal Blessicì, dallo Schuchaedt, e da altri : vedi Nigra, C.p. del Pieni., p. xiii.
(3) Vedi SCHUCHARDT, Op. cit., § 3.
D'Ancona, La poesia pop. Hai. — 23
354 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
baciate: intermedia, è il terzetto imperfetto, com-
posto di un quinario, che ordinariamente contiene
l'invocazione di un fiore (donde la sicula denomina-
zione di Ciuri), e di due endecasillabi: (^) ultima, il
terzetto perfetto, cioè di tre endecasillabi. O Nelle
due ultime forme rispondono fra loro per ragion di
rime, il primo e il terzo verso, e il secondo, il più delle
volte, è cogli altri legato per consonanza atona. {^')
Come, e dove è nato lo Stornello? A noi sem-
bra verissima quella parentela cbe lo Schucbardt {*)
ha messo in chiaro fra lo Stornello e il Proverbio
rimato, non raramente costruito in forma di distico
e con consonanza atona. Anzi lo Stornello sembra
tuttavia ricordare siffatta cognazione, nel fare sen-
tenzioso ed epigrammatico, cbe serba nella massima
parte dei casi, e ne fa un motto breve ed arguto:
un romanzetto^ come lo dicono nel pistoiese, cioè un
(1) Kon sapremmo accordarci col NroRA, elie un tempo credette trovar
Torigine di questa forma nella strofa saffica. Lasciando stare la difficoltà
del passaggio di una foggia esclusivamente letteraria ad uso popolare, per
aver l'immagine di questa maniera di Stornello dovrebbesi togliere l'ul-
timo membro di una prima strofa saffica e poi i due primi di una seconda.
e con ciò formare il nuovo composto. Ma ogni controversia è inutile, poiché
l'egregio autore, ripi'oducendo il suo scritto come Prefazione ai C. p. (hi
Pieni, (p. XXI n.), ha ommesso queste considerazioni, le quali, ei soggiunge:
" non potrebbero trattarsi incidentemente in poche linee „.
(2) L'origine di questa configurazione dello Stornello sarebbe, secondo
lo ScHUCHARDT, op. cit., pag. 16, il tetrastico, donde sarebbe caduto per in-
debolimento l'ultimo verso, il quale, dice egli, ordinariamente contiene una
ripetizione o uno schiarimento superfluo. Il secondo verso senza rima coi-
risponderebbe perciò ad un verso caduto. Non negheremmo che qualche
Stornello di tal foggia possa esser nato cos~i : ma la semplice consonanza
atona dà corpo alla strofetta ternaria, senza bisogno di supporno perduta
ima parte integrante.
(3) Forma sporadica, ma osservabile, è quella di Reggio di Calabria
(Imbriani, I, 252) di due soli versi: un quinario coli' invocazione del fiore.
e un endecasillabo che rima con esso : ma il piìi dello volte, negli esemp.j
addotti, questi brevi componimenti si riducono a motti o proverbj in rima.
(<) Op. cit., § 9. E il Gi:astei,la, Prefazione ai Canti popoì. di Mofìici,
pag. csxxili: " I muttetti, simili allo Stornello toscano... non si cantano
ma si ripetono secondo l'occasione a guisa di proverbio, essendo veri pro-
verbj, come suona il vocabolo „.
LA POESIA POPOLARE ITALLIXA. 355
piccolo saggio di parlar volgare. Noi opiniamo, con-
tro la sentenza di un critico arguto, C) che il quinario
iniziale sia una aggiunta posteriore; tanto più che,
come osserva il Nigra, " raramente il nome e gli
attributi del fiore e dell' oggetto invocato hanno
una relazione logica col contenuto dei due versi
seguenti „. O Né forse quest'aggiunta del fiore altro
è se non una invocazione per ripigliare il Canto:
dacché lo Stornello é la forma preferita degli im-
provvisatori, e prevale nei contrasti, in che da quelli
si gareggia a chi piìi ne dica. O Egli è perciò che
degli Stornelli la produzione nuova è maggiore che
non pei Rispetti : essi sono tuttora forma vivente (*)
e non soltanto tradizionale: e in essi qualche volta,
non senza successo, si è manifestato il sentimento
patrio durante gli ultimi avvenimenti politici. O
(1) Imbeiasi, Dell'organismo poetico e della Poesia popol., pag. 134.
(2) La poes. pop. ital.,pag. 14: (il passo è però ommesso nella Fiefa-
eione ai C. p. piemont.) Cfr. Schcchahdt. op. cit., pag. 46 e segg.
(3) Se vuoi venir con mene a stornellare
Piglia la sedia e mettiti a sedere;
Di quante stelle è in cielo, e pesci in mare:
TisRi, Storn. n. 3, a proposito del quale il Nigra oppoi-tunamente ricorda
il virgiliano : Die qitibus in terris, et eris mihi magnus AiìoUo ecc. Lo stesso
carattere hanno altri Stornelli, raccolti dal Tigri sotto il medesimo para-
grafo : Ed io degli stornelli ne so tanti ecc. Ed io degli stornelli ne so mille ecc.
Cfr. GlASAXDREA, pag. 8; Marcoaldi, C. popol. picea., n. 81 ; C. popol. lignr..
n. 86. Xotisi che in questi Stornelli non può esservi 1" invocazione del fiore,
essendo essi inviti al cantare: le invocazioni verranno nei Canti successivi
dei gareggianti, per prender o riprender lena.
(■» Il genere veramente popolare, e che ha ancora produzione con-
tinua di nuovi canti, è quello degli Stornelli : cosi il Barbi, op. cit., p. 14.
(5) Vedine esempj in Jverucci, pag. 204-16. Nel 1859 ebbero notorietà
in Toscana questi Stornelli incatenati, che mi si concederà di trascrivere
a postuma onoranza del povero amico mio Francesco Coppi-Toscanelli,
il quale ne fu autore, e che felicemente seppe innestare l' intonazione po-
polare col sentimento delle foi-me artistiche :
Fior della bara :
Spunta la rosa della primavera
Al piede delle croci di Novara.
356 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
Che gli Storuelli coli' invocazione dei fiori sieno
cosa comune a parecchi popoli, specialmente neo-
latini, fu asserito più volte. (^) Anzi, l'Arbaud (^) va
O primavera,
E le croci dei campi di Novara
Dicono a quella rosa: Apriti e spera.
O rosa d'Aprile, amore dei fiori,
D' Italia i colori tu porti con te.
Verde è lo stelo.
Come Speranza che un vessillo solo
Sventolerà per questo nostro cielo.
O stelo di rosa, amore de' fiori
De' nostri colori sei pure un de' tre.
Bianco è il bottone.
Egli è la Fede che l'onde tirrene
Dovran baciare una sola nazione.
Bottone di rosa, amore de' fiori
De' nostri colori sei pure un de' tre.
E rosso il fiore,
Come l'Amore che dall'Alpi al mare
Ci Siam giurati ai giorni del dolore.
O fiore di rosa, amore de' fiori.
De' nostri colori sei pure un de' tre.
E sulla sera
Ai piedi delle croci di Novara
Sbocciò la rosa della Primavera.
O primavera,
E le croci dei campi di Novara
Dissero a quella rosa: Apriti e spera.
0 rosa d'Aprile, amore de' fiori,
P'Italia i colori rivivon con te.
Anche si ebbe allora qualche bel Rispetto politico, e fra gli altri vo' ricor
dare questo del buon Pietro Thouar :
E l'ho visto il vessillo benedetto
Da capo sventolar sopra la torre :
Il Marzocco lo tien fra 1' unghie stretto
Perchè nessuno glie lo vada a tórre.
De' tre colori quando è rivestito
Palazzo Vecchio par ringiovanito.
Quando splendono al sole i tre coleri,
Eingiovanisce la città de' fiori:
Quando risplonderan su l'Appennino,
Tutta l'Italia diverrà un giardino.
(1) Vedi, fra gli altri. E-.J-B. Ratherv, Les chants popiil. de l'Italie,
estratto dalla Berne des deux mondes, 15 Mars 1862, p. 30.
(2) Arbaud, Ch. poptil. de la l'rovence, I, 224.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 357
più oltre, trovandone, sulle orme del Fauriel, (^) la
prima origine presso i Greci antichi, in quelle poesie
popolari che Atenèo denomina ani ènti. Dalla colonia
focese dei Massalioti questa forma sarebbesi diffusa
in Provenza, colla denominazione di Flouretas, in
forme simiglianti a quelle degli Stornelli italiani.
Ma nelle flouretas provenzali il nome del fiore
non è soltanto invocato, bensì il fiore pur anco è
offerto alla donna amata: Belo, vous represente ecc.: (^)
e spesso si cerca, secondo la flora simbolica ed ero-
tica, una intima relazione fra l'avventura amorosa,
la condizione dell'amante o qualche qualità e difetto
della donna, e il fiore stesso. {^) Le flouretas perciò
rassomigliano piuttosto a quel " breve scherzo in
rima che si costuma (così diceva ai suoi tempi il
Redi), nelle veglie e nei balli del contado, e comincia:
Voi siete un bel fiore; a cui vien risposto: Che fiore? ec.
Lo scherzo è noto; e l'usanza di questo scherzo è
antichissima, dacché se ne fa menzione in una poesia
manuscritta di Ser Bello, antichissimo poeta:
Quando eo ve dico: Voi sete una flore,
Né pur alzate gli occhi a sguardar me:
Né volliete saper che bella flore ;
E con silenzio mostrate odiar me.
(1) Fauriel, Hist. de la poes. proveng., Paris, Labitte, 1840, I, 203;
C/i. 2>opul. de la Grece, Paris, Didot. 1824, I, pag. cui.
(2) Aebaud, op. cit., pag. 220, e Revue des langues romanes, IV, 460 e
segg. ; MoNTEL et Lambert, Petites coinposit. populair., Montpellier, 1873.
p. 34. Non molto dissimile dal giuoco delle Flouretas è quello dei Daije-
mans francesi descritto dal De Puymaigre neWArch. tradiz. pupul., I, 93, e dal
BoNNAKDOT in Mélusine, I, 570, reliquia degli antichi Ditz et ventes d'Amour
(cfr. MoNTAiGLON, Becueil, V, 204, e Christine de Pisan, ediz, Didot, 187)
in che d'ogni cosa offrivasi la vendita, ma più specialmente di fiori.
(3) Lo stesso carattere ha l'invocazione frunda verde nei Canti po-
polari i-umeni : vedi Alexandri, Ballades et Chants popul. dela Boumanie,
Paris, Dentu, 1855, pag. 182. Lo Schuchaedt, p. 65, nega però ogni rela-
zione storica fra l'invocazione italiana e la rumena: ma quel ch'ei dice
non mi par sufficiente a distruggerla.
358 LA POESIA POPOLARE ITALIANA,
In un libro scritto l'anno 1592, dove tra le altre
poesie sono copiati molti fiori :
— Voi slete un bel fiore —
— Che fiore? —
— Un fior di mammoletta —
— Qualche mercede il mio servire aspetta „. {^)
E in una cronaca del Borgo S. Donnino del 1615 (")
trovasi un altro esempio di questi fiori Essendo a
veglia alcuni giovani e donzelle, l'Eufrosina Modesti
così aprì il " giuoco dei fiori „ volgendosi ad un Po-
lidoro Ranzini, che le faceva la corte :
— Voi siete un bel fiore. —
— Che fiore? —
— Fior di formento,
(1) Annotaz. al v. 430 del Bacco in Toscana. Alcuni antichi fiori ha
raccolto S. Ferraei, nella pubblicazione per nozze Bassini-Cherubiui (Bo-
logna, Zanichelli, 1895, p. 32). Altri ne riferisce il Baetoli, I mss. della
Nazionale di Firenze, I, 245. Vedi anche il Bicciardetto, XIII, 86-87, citato
dallo ScHucHAKDT, p. 60, ed ivi stesso altre citazioni di autori italiani.
Odasi pertanto come il Foetegueeki descrive questo giuoco :
Le donne... con soave voce
Propongon giuochi...
or quello della Noce
Or quel de 1" Uovo-
Ma quel che piacque più fu quel del Fiore,
Perchè una d'esse... dicea :
Tu se' un bel fior : ed egli pien d'amore
Che fior son io, fanciulla? rispondea.
Ed ella co' begli occhi tutti ardore
Guardandolo, diceva e insiem ridea :
Tu sei, se non isbaglio, un fior di pero :
Dici d'amarmi, ma non dici il vero.
E quegli rispondea similomente:
Voi siete un fior di rosa o di viola,
E siete in beltà sola veramente :
E cosi intanto il tempo fugge e vola.
Fiori moderni sono raccolti nella JUrista di Letteratura popolare, Roma,
1876, voi. I, pag. 67, e uno è anche nel Giuliani, Moralità e Poesia ecc.,
pag. 259. Lo stesso carattere, salvo una modificazione iniziale, cioè: Che
fior son io ?, hanno i Fiori raccolti dal Fekraro in Cento, op. cit.. pag. 77.
Pel canto alterno dei fiori intrecciato al ballo in Romagna, vedi Bagli,
2ÌU0V0 saggio di studi sui proverbi, gli usi, i pregiudizi e la poes. popol. in
Rom., Bologna, Fava e Gaiagnani, 1884, pag. 6 e segg.
(2) Vedasi un articolo di L. Scaeabelli, nel l'ropugnulore, anno VII,
parte II, pag. 398.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 3o9
Di che si fa il pan :
Se mi volete ben,
Vi taglierete un dito de la man. —
Forse a questo l'aveva tratta la rima ; ma l'altro
rimbeccò :
— Siete un bel fiore. —
— Che fiore ?
— Fior di perfetto amore :
Se dite da deverò
Lo farò per vostro amore. —
— Siete un bel fiore. —
— Che fiore ? —
— Fior di radette :
Se mi volete bene
Presto vederò l'effetto.
E tratta fuori la spada, l'amatore si tagliò da do-
rerò il dito.
E anche sui primi del secolo scorso, il collettore
àQÌYEgeria trovava sulle bocche di giovani e giova-
netto romane questo " giuoco del fiore „ :
— Bella, ecco un fiore. —
— Chi me lo manda? — •
— Amore ve lo manda, e vi si raccomanda —
— E che fiore mi manda ?
— Un fior di giglio,
E in nove mesi vi predice un figlio. — (-)
E nell'Istria a dì nostri cosisi canta:
Ciulì stu fiur,
Ch'el xì de amur.
Mei eh' i ve lu dago
1 siè cumo chi stago :
E vui, eh' i lu ciulì
Che risposta me dì?(^)
(1) MUELLER-WOLF, pag. 12.
(2) IvE, pag. 260. Cfr. pel Piemonte, G. Nervo, per nozze Fietra-Cbioli-
Mendini, p. 10,
360 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
Ognuno vede ben chiaro che fra il " giuoco de'
fiori „ e r invocazione contenuta nel primo verso
degli Stornelli, non vi è se non lontanissima paren-
tela, avendo soltanto comune Torigine da certa gen-
tilezza di consuetudini e di affetti. (')
Quando poi paresse ai piìi, come a noi sembra,
che siffatta forma tipica dello Stornello fosse amplia-
zione di quella che si compone del semplice distico,
e avviamento all'altra di tre endecasillabi, si scior-
rebbe il dubbio proposto dallo Schuchardt, se cioè
questa terza foggia sia stata modello della terzina
letteraria. Noi crediamo invece che lo Stornello com-
posto di tre endecasillabi sia forma posteriore, e
quasi diremmo spuria, al cui nascimento debba aver
avuto efficacia l'esempio della terzina, e non per
contrario. La metrica popolare in tal caso null'altro
avrebbe fatto, salvo sostituire al quinario iniziale
un endecasillabo, serbando l'unità del componimento
in una sola strofa e la consonanza atona: laddove, se
vera fosse la supposizione dello Schuchardt, troppo
dell'immagine presa a modello sarebbesi cancellato,
togliendo quella strana specie di omofonìa, e troppo
sarebbesi aggiunto, facendo di una strofa in sé stessa
I
(1) Un antico componimento, clie trovo nel codice Laur. Gadd., Reliq.
198, e. 116, e che ha tutta la maniera delle poesie popolari, è intessuto tutto
quanto di fiori :
O fior, che fior mi par sovr'ogni fiore.
Fior di vertù e fior di gentilezza,
Fior che fiorisci ogni fiorito fiore,
Fior d'onestà e fior d'ogni bellezza,
Fior che fiorisci ogni fiorito amore,
Fior che sempre hai vaghezza.
Fior, s' io potessi con teco fiorire,
Fior, non mi far più dire,
Fiorisci con effetto, e fammi dono
Della cui flore al tuo servizio sono.
O forse :
Di quella fiore al cui servizio sono.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 361
compiuta ed intera, un semplice membro di piìi lunga
serie. 0
Resta adesso a sapersi di qual parte d'Italia
sieno nativi gli Stornelli. Considerando quello col-
r invocazione del fiore qual forma perfetta del ge-
nere, si potrebbe quasi per certo dirlo nativo del
dolce paese
Di Toscana gentile
Dove il bel fior si vede d'ogni mese. (")
Certo, la Toscana e il territorio romano sono le re-
gioni dove maggiormente alligna lo Stornello, e che,
in ogni caso, sole potrebber contendersene il nasci-
mento. In Sicilia invece i Ciuri sono poco apprezzati,
e paiono appartenere alle meretrici e alle persone
di mal affare: O il che ci par segno che non sieno
(1) Il prof. G. Giannini, così esi)eito in questa materia, ha testé messa
fuori nel Niccolò Tommaseo (I, 121) Una nuova Ipotesi sull'origine dello
Stornello, secondo la quale esso sarebbe nato dal ritornello, che spesso nel
canto si accoda allo Strambotto, e la sua forma sarebbe stata la più sem-
plice, quella cioè dell'unico endecasillabo preceduto dall'esclamazione, che
il più delle volte sarebbe stata di un fiore: indi sarebber venuti il distico
a rima baciata, quello con la consonanza atona, i due endecasillabi prece-
duti da un emistichio con invocazione, in rima col terzo e il secondo in
contrapposto di consonanza atona, per ultimo tre endecasillabi su codesto
stesso schema. In argomento cosi incerto forse questo sistema, sebbene
l'autor di esso lo corrobori di buone argomentazioni e di copia di esempi,
afferma troppo, e anzi che spiegare uno svolgimento naturale, sa di mec-
canico congegno. Ma è, lo riconosciamo, un tentativo ingegnoso, e che me-
rita attenta considerazione dagli studiosi della materia.
{-) Gino da Pistoia. Anche il Eubieiìi. " Lo stornello è certamente
d'origine campestre e probabilmenre toscana, poiché nelle altre regioni ha
tutta l'aria di cosa trapiantata, mentre in Toscana è così naturale e co-
mune, che par proprio nato a un parto co' mille fiorellini delle sue colline
e de' monti suoi „ (pag. 66). Il Tenca invece (II, 246 e segg.) nega tale
origine alla Toscana, come anche quella del rispetto, pur ammettendo che
la Toscana abbia la maggior parte nella produzione degli uni e degli altri;
ma si perde un po' troppo in vaghe indagini sulla poesia dei bardi brettoni
e su quella degli arabi.
(3) " 11 fiore, componimento niente pregiato dal popolo, dà non lieve
fatica a chi vuol raccoglierlo, poco o punto essendo cantato dal campa-
gnuolo, che ama a tenersi lontano dalle donne di mal affare e dalla gente
di galera; esso invece è comunissimo nel carcere, e può dirsi il canto pie-
362 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
prodotto indigeno. Nel Napoletano ed in Puglia non
hanno " vita autonoma, anzi si aggiungono al Ri-
spetto, col nome di mottetto o di raccomandare ,,. (^)
A Napoli erano, anzi, sconosciuti finché nel 1874
vi entrarono coli' invocazione iniziale Fromi' 'e li-
mone, che diventò denominazione del genere, anche
cangiando la qualità del fiore o dell'erba: fronn' "e
viola, fronn' 'e mortella ecc. O Nel bolognese i stiirné
sono cantati specialmente dalle lavoratrici dei campi,
ma hanno perduto l' invocazione del fiore e si sono
per lo pili allungati a quattro versi, mescolati poi
di forme dialettali. (^) A Venezia, dice il Dal Medico,
non sembrano natii, ma recati di fuori: " le donne li
chiamano roba senza sugo, e non li cantano „. O In
ogni regione d'Italia portano essi, adunque, l'im-
pronta di origine aliena, etrusca o laziale che debba
dirsi, ma forse più veramente etrusca.
diletto de' chiassi : di clie mi faceva ben avvertito una buona palermitana,
la quale, richiesta da me di codesti cih;-/, molto arrecandosene, mi rispon-
deva non senza qualche risentimento : La si procuri dalle cattive donne
queste cose, perchè io non ne so. E poiché io insisteva pregando, ella sog-
giungeva: Queste Canzoni si cantano a In 'nchhtituì-i (lupanare) e tra i guai
(carcere); ed io grazie al cielo, non sono mai stata in quei luoghi „ : Pitrè,
C. popol. sicil., Prefaz., pag. 33.
(1) Imbriani, Organism. poet. ecc., pag. 50.
(-) MoLiNARo Dei, Chiaro, pag. 305.
(3) CoROìiY.m-'B^nTi, in Arch.tradiz. popol. ,\,ài\. Ma invece, secondo
G. G. Bagli, Saggio in Romagna, i /?«>• sono gran parte della poesia popo-
larmente cantata: vedi Saggio di studi sui proverbi, i pregiudizi e la poesia
popolare in liomagna, Bologna, Fava e Garagnani, ISSCi, e Nuoro saggio ecc.,
iliid., 1886. L'invocazione ola menzione preliminare del fiore sarebbe cos\
negli Stornelli (fiur) come nei Rispetti (chènt), e molto comune il principiare
con un Senti: Senti che bel fior eh' è d'ulciprers, Senti che bel fior ch'i di
tdiv, Senti che bel fior ch'i di giacint ecc. E il Percoli dà alcuni esempj di
Stornelli romagnoli coli' invocazione del fiore: per es. n. 241-7, 294-301,
304-7, 358 e segg.
(4) Pag. 207.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 363
XI.
" Poesia popolare „ è locuzione facilissima a pro-
ferirsi: ma difficile è definire il genere che per essa
si designa. Delle molte condizioni clie si sogliono
annoverare a determinarlo, la poesia popolare ita-
liana, se ha quella dell'anonimia, non certo fa sempre
mostra dell'altra della semplicità, o mancanza d'arti-
ficio. Presso altri popoli possono nettamente distin-
guersi fra loro la forma artistica e la volgare; ma
in Italia la cosa è proceduta altrimenti. I poeti del-
l'arte si sono piaciuti di render simili alle più dotte
lire le rustiche zampogne, (^) e la poesia popolare ha
sempre mirato a quella dei letterati, come a desi-
derabil culmine di perfezione anche per sé medesima.
Una gente, erede di antichissima civiltà, risorta in
nome delle prische memorie, che ha capito e ca-
pisce Dante, che ha preso e prende sollazzo ai grandi
colpi di spada e alle avventure dei Paladini, e piange
ai casi di Erminia, ripetendo le ottave del Perni, del-
l'Ariosto e del Tasso, (") che, infine, ha senso raffi-
natissimo di poesia e di musica, ben si comprende
come, obbedendo nel comporre i suoi Canti ad un
istinto di natura, abbia però cercato di conformarli
a norma d'arte e a modelli di squisita bellezza.
D'altra parte, abbiamo visto come vi fu un tempo
in che i poeti culti, avvistisi che il troppo uso e la
(1) Tasso, Aminta, Prologo.
{-) Vedi notate alcune reminiscenze dagli ultimi due nel Eubieri,
p. 238.
364 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
soverchia ripetizione di certe formule avevano lo-
gorato ed estenuato l'espressione del sentimento,
per rimediare al male ritornarono all'imitazione della
natura, specchiandosi nelle umili composizioni del
volgo. Vi è stata, dunque, assai spesso, se non sem-
pre, e ci si perdoni la frase mercantile, vi è stata una
partita aperta di dare ed avere tra la poesia eulta
e la popolare, un conto corrente sempre acceso fra
i rimatori illustri ed i plebei. Di qui è venuto che
la nostra Poesia popolare nella sua espressione li-
rica, e così nelle forme del Rispetto, come in quelle
delle Canzonette, ha sempre mostrato e mostra tut-
tavia indole letteraria, e qualche volta un fare raf-
finato ed artificioso, quale non si riscontra nelle
composizioni poetiche di altri volghi. Vi è nella
struttura del componimento uno stampo cosi ben
disegnato, nel sistema di versificazione uno studio
così ricercato dell'armonia, tanta industria di parole
scelte e " alletterato, „ C) tanto bagliore nelle im-
magini, che niuno potrà dire esser quei Canti figli
dell'ignoranza.
A Firenze vedemmo già qui addietro esservi
stato un momento, quasi all'origine stessa della poe-
sia, in che le due forme erano insieme commiste, per
singoiar condizione della cultura cittadinesca; piii
tardi, quando si separarono, la divisione non durò
a lungo, e Lorenzo ed il Poliziano le riamicarono e
ricongiunsero. La poesia eulta modellata sulla plebea
lasciò prove tali, che se non furono largamente ac-
colte e fatte proprie dal popolo, servirongli tuttavia
d'esempio, e di stimolo a far meglio. Questo stesso
fatto dev' esser avvenuto anche in altre regioni
{}) Parrati li palori aUillerati: Lizio-Bkuno, C. iìo^ìoI. Inol. Eul., n. 3.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 365
(l'Italia, sebbene sia difficile citare per ogni luogo
nomi e date, se non fosse per la Sicilia. E invero
nell'isola, quando la vita politica e l'operosità intel-
lettuale andarono in tutte le provincie italiane rac-
cogliendosi in alcuni centri di maggior importanza,
e le varie regioni furono denominate nazioni, la poesia
popolare e la poesia vernacola confusero insieme le
ragioni loro. Sorsero allora a schiere poeti, che non
volevano o non sapevano o non potevano rimare
nella lingua illustre e nazionale, o cui piacque, ad
ogni modo, il plauso immediato delle genti fra cui
vivevano; e costoro scrissero nel proprio dialetto,
attenendosi al genere che già il dialetto possedeva, e
pel quale aveva rinomanza anche di fuori. Ritenendo,
dunque, la forma indigena e plebea dello Strambotto,
non pochi Siciliani poetarono nel nativo idioma: solo
alla strofa popolare aggiunsero, o maggiormente vi
accrebbero, l'indole epigrammatica e il fare arti-
ficioso. Parecchi di tali componimenti furono con
leggiere modificazioni fatti proprj dal popolo, che
tuttora li canta; ed i successivi, veramente formati
da cantori plebei, dovettero sentire l'efficacia di sif-
fatti esemplari e ricevere in sé qualche riflesso di
artistica luce. Quando, invero, in famiglia popolana
entra chi viene da gente di più squisita educazione,
ognuno cerca spogliare la nativa rozzezza dell'abito,
dell'idioma, degli atti, ed imitare il nobile modello
che ha dinanzi a sé. Anche in Sardegna, in quel-
l'isola per tanto tempo separata dal resto d'Italia
e chiusa ad ogni influsso del continente, sonosi tra
loro confuse la poesia popolare e la poesia dialet-
tale, e il volgo ha fatto sua gloria delle rime ver-
nacole dei dotti poeti; e chi di poesie popolari faceva
dimanda, rimaneva stupito nel vedersi additare coni-
366 LA POESIA POPOLARE ITALLIKA.
ponimenti, che altrove verrebbero classificati fra i
saggi di poesia aulica. (^)
Questa rispondenza ed affinità tra la poesia eulta
e la popolare non fu abbastanza avvertita finora
nelle sue ragioni storiche; e solo da poco tempo co-
minciarono a notarsi alcuni fatti particolari, (-) dai
quali però, e da molti altri, può dedursi il proprio
carattere della poesia del popolo nostro. Crediamo
che alla scienza e alla storia sia utile, e al lettore
non debba parer soverchio il notare e provare per
esempj le appropriazioni che il popolo ha fatto di
poesie auliche, e le modificazioni che vi ha arrecato
accogliendole nel proprio repertorio.
Se non che, prima di ricercare nelle raccolte di
Canti popolari quelli onde è certa od assai probabile
la derivazione da fonti letterarie, giova eliminare
alcuni componimenti che vi si sono introdotti per
astuzia 0 vanità di coloro che hanno pòrto aiuto ai
collettori, e vi hanno preso luogo per la costoro
imperizia o sbadataggine. Questi fuchi parassiti
vanno immediatamente scacciati dagli alveari, in
che si elabora lo schietto mèle della poesia popolare.
Sono componimenti apocrifi, che vorremmo espulsi
d'ora innanzi dalle collezioni, poiché già da troppo
tempo, ingannando la buona fede degli studiosi,
hanno usurpato un posto che ad essi non spetta. {^)
Il carattere principale onde si riconoscono questi
(1) PiscHEDDA, Canti pop. dei (lassici poeti sai-di, Sassari, Ciceri, ìS'yi;
Spano, Canzoni pop. ined. in dialetto sardo centrale, Cagliari, 1864-70. Vedi
rarticolo del PiTitìc sulle Canzoni popolari sarde e sul loro carattere let-
terario, nel volume degli Studj di poesia pop., pag. 357 e segg., noncliè
la Pi-efazione ai C. 2'oj>ol, sicil., 1. pag. 115. Ora però la vera poesia po-
polare sarda venne a conoscersi mercè le pubblicazioni del Ferraeo, del
CiAN, del Bellorini, del Kuhra, del Valla, del Carrara, del Mango ecc.
(-) Vedi NiGEA, specialmente a p. xxiv.
(3) Da queste intrusioni non è immune ncanclie il bel vohimctto di
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 367
Canti si è una leziosa semplicità, una naturalezza
affettata, colla quale gl'improvvidi contraffattori
hanno creduto d'avvicinarsi alla maniera del popolo,
che, quando si appropria poesie di autori, le tra-
sceglie, come vedremo, di preferenza tra quelle in
che l'artificio del concetto e della espressione è mag-
giore. Si fattamente scipito è il seguente Rispetto
accolto dal Tigri, ma che anche nella tessitura me-
trica nulla ha di popolare:
Un verde praterello senza piante
E l'immagine bella del mio amante:
Un mandorlo fiorito all'acqua in riva
È dell'amante mio l'immagin viva:
Tutti i raggi del sole e delle stelle
Sono l'immagin di sue luci belle:
Il dolce olezzo di giovane fiore,
E l'immagine vera del mio amore.
Amante, amante, amore, amore, amore!
0 vieni vaccio a ricrearmi il cuore. (')
Chi sa quanto avrà sudato il poetucolo che ha
scritto questi versi, per dar loro impronta d'autentici!
e chi sa quanto sarà stato lieto di aver ripescato
quel vaccio guittoniano !
Quest'altro è pure evidente fattura di un ine-
sperto, che però ha trovato nel raccoglitore uno più
di lui inesperto e sbadato:
Canti popolari scelti e annotati (Firenze, Barbèra, 1902) messo insieme d.il
mio caro alunno ed amico Giov. Giannini, pur cosi dotto conoscitore e
amatore oculato della poesia dei volghi. Ne ho indicate alcune nella Jiasò-.
libi. d. Ietterai, ital., X, 13: p. es. :
Son partite l'amiche rondinelle
E tu con loro vai di là dal mare.
A primavera torneranno quelle,
E tu con quelle non potrai tornare ecc.
0 anche:
Lino fiorito!
Un giovin senza dama è desolato,
Mesta la donna che non ha marito ecc.
(1) TiGKi, n. 228.
368 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
Caro amor mio, chi me lo avesse detto
Ch'io non t'avessi a por l'anello in dito !
11 naso mi sarìa tronco di netto,
E in un boccon me lo sare' inghiottito.
0 Nina mia, la mastico la mastico,
Ma mi pare un boccon troppo fantastico:
Troppo mi par fantastico, e il sai tu:
0 Nina mia, e' non mi vuole ir giù. (^)
Ascoltisi anche quest'altro :
Oh quanto tempo sola sono stata.
Sola, soletta come vedovella!
Che cor fu il tuo vedermi abbandonata,
E lasciar senza sole la tua stella?
Chi ti staccò da me fu il mar crudele.
Ma sei tornato com'eri, fedele:
E più amoroso t'ho visto tornare;
Se sei tornato, benedetto il mare.
E piti bello t'ho visto tornar io;
Se sei tornato, benedetto Dio! (-)
Del seguente è anche noto l'autore, che fu il
Dott. Stanislao Bianciardi, il quale lo mandò, e con
esso altri dieci, frammischiato ai Rispetti genuini
raccolti nel Mont'Amiata: (^)
(1) Tigri, n. 548. Nel Giom. filol. Eomama, II, 53 il sig. G. Salva-
dori mi ha fatto osservare die i primi sei versi appartengono alla Gam-
bata di Barbico del barbiere e poeta Lazzaro Migliorucci. Questo com-
ponimento, datato del 1621, prima clie il Trucchi lo pubblicasse come
inedito, era noto al popolo, ed io ne posseggo una edizione di Lucca 1816,
presso Francesco Bertini. Ha pertanto origine letteraria.
{-) Tigri, n. 715. Il sig. G. Salvadori (ibid.) osserva che prima che dal
Tigri questo rispetto fu pubblicato da T. Dandolo in certa sua Lettere al
e. Belgio,joso sui Bagni di Livorno. A ogni modo, è roba fatturata, e lo
sproposito possono dividerselo fra due.
(•') Il TojiMASEo che aveva in.serito i Canti del Bianciardi nella sua
raccolta, fece noto l'inganno in che era caduto nelle Scintille, p. 205. (Vedi
anche uno scritto di C. Arlia nel giornale Niccolò Tommaseo, I, 135.) Ma
il Tigri ristampò quei Kispetti nella prima edizione dei Canti popolari to-
s-ani: poi, avvertito dal Bianciardi, le" cenno di ciò nella Pref.Tzione
alla 2» e alla 'i"- ristampa, pag. xli. Ma, come ebbe a notare il Bianciardi
(/ liispetti dell' Amiata, Firenze, Tipografia Claudian.i, 1803, png. 15), nella
seconda edizione ne rimasero due, e l'altro qui trascritto nella terza.
LA POESIxV POPOLARE ITALIANA. 369
Quando incontri i miei occhi, e fai un riso
E poi gli abbassi, e pieghi il mento al seno,
Ti prego prima darmene un avviso,
Perchè in quel mentre io tenga il cuore a freno.
Perchè in quel mentre io tenga a freno il cuore,
Che mi vorrebbe uscir dal grande amore.
Perchè in quel mentre io tenga il cuore in petto,
Che mi vorrebbe uscir dal gran diletto. (')
Altra singolarità notata dal Bianciaedi è che il p. Giuliani asseveri aver
udito cantare popolarmente nell'Amiata uno degli undici lìispetti apocrifi,
cioè il seguente:
Una fila di nuvile d'argento
Innamorate al lume della luna,
Vanno per l'aria portate dal vento
Per salutarti, o bella creatura;
Per salutarti e rigirarti intorno,
Innamorate del tuo viso adorno;
Per salutarti, e girarti vicino.
Innamorate del tuo bel visino:
ove il Bianciaedi osserva, che se proprio il suo Rispetto è passato al
popolo, per lo meno il secondo verso non sarà cantato come lo stampa il
Giuliani: Innamorate al chiaro della luna. — Altro fatto meraviglioso è
che questo Strambotto del Bianciardi, ridotto al solo tetrastico, sia dato
come popolare fra le antiche vlllotte veronesi raccolte dal Caliari (p. 159):
Una fila de nugole d'argento
Inamorè dal ciaro de la luna
La vien par l'aria, porta qua dal vento
Per saludarte, o bela creatura.
Com'è avvenuto questo passaggio, colla relativa trasformazione idio-
matica, da un libro a stampa al popolo? e proprio davvero al popolo?
(1) TioKi, n. 283. L'inserzione del Rispetto del Bianciardi fra i po-
polari, dopo averne notato la paternità vera nella Prefazione, è di quelle
inavvertenze che dimostrano la poca cura con che fu condotta la tre volte
ristampata raccolta tigriana. Nella quale non mancano perfino componi-
menti identici più volte ripetuti: ad esempio n. 151-1170; 212-282; 281-358;
343-793; 315-437; 525-648; 6.3.3-1015; 817-827; 855-980 ecc. In altri casi si
hanno componimenti quasi identici, con varietà di poco conto, che sarebbe
stato bene raggruppare, anziché disseminarli qua e là; ad esempio: n. 4-26
68-382; 81-345; 100-279-480; 159-287; 193-421; 258-514-515; 251-545; 263-.350
268-306; 271-324; 300-326; 301-473; 373-403; 418-448-625; 495-574; 503-808-991
511-5.30; 524-580; 532-720; 546-784; 553-649; 592-606; 702-722; 706-718
724-732; 729-751-752; 738-790; 755-787; 777-799; 818-834-856; 820-957; 821-838
839-1079; 861-872; 885-972; 990-1139; 959-1148; 1005-1047 ; 1014-1108; 1024-
1090; 1046-1077; 1110-1117; 1129-1153; 1138-1149; 114.3-1159; 1145-1157 ecc.
Stornelli: n. 84-123; 151-192; 152-213; 185-207; 190-286; 200-259; 297-311;
392-406 ecc. Nulla dirò di certi singolari errori di trascrizione: ad esempio,
verso: Gli occhi nerelli e le incarnate ciglia, che ricorre ai n. 98 e 368;
D'Ancona, La poesia pop. ital. — 24
370 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
Gravi dubbj potrebbersi avere per quest'altro :
Alle bellezze della donna mia
M'inginocchio per casa e per la via:
Che a uu angiolo si può rassomigliare:
Non le mancan che l'ali per volare. {')
E SU questo ancora:
A pie d'un faggio in sull'erba fiorita,
Aspetto, aspetto che giù cada il sole,
Perchè quando sarà l'aria imbrunita
Appunto allor vedrò spuntare il solo:
Levarsi quel bel sol che mi ha ferita,
Che m'ha ferita e che guarir mi vuole.
E questo sol ch'io dico è il mio bel damo,
Che sempre io gli riprìco: io t'amo, io t'amo:
E questo sole è il giovanotto bello.
Che a Ferragosto mi darà l'anello. (^)
In altri casi parrebbe esservi un qualcbe più o
meno leggero ritocco di dotta penna. {^) Quando leg-
gonsi versi come i seguenti:
(love fa veramente inarcar le ciglia il leggere in nota; incarnate ciglia:
ciglia rosee, latte e sangue, che non sono cosa in natura. Ma il Tommaseo,
pag. 62, donde il Tigki trasse il Rispetto, ha: inarcate. A pag. 188 si
legge: Chi queste tue bellezze ammirar picole, Felice egli è, e pieno d'ogni
(«aie, dov'è chiaro debbasi leggere: privo. Lo Stornello n. 203 è cos'i stam-
pato: E me ne voglio andar di macchict in macchia, Incespicar mi vo' tutta
la testa Per esser vincitor della ragazza: e in nota: Incespicare: porre in-
nanzi il capo fra i cespi di folto bosco per jyassare. Lasciamo stare se la
definizione sia esatta: ma nella mia Raccolta manoscritta, che il Tigri
ebbe fra mano, e donde tolse lo Stornello, è chiaramente scritto: Incipriar.
Altro grave difetto della Raccolta del Tigki è di aver tolto ogni in-
dicazione di luogo, segnata dal Tommaseo, come se i Canti appartenessero
ad mi solo dialetto comune, e non a varj vernacoli. Giovandosi della rac-
colta tigriana il sig. Schwencke ha scritto una dissertazione: De dialecto
quae carminib. popular. Tuscanicis a Tigrio editis, continetur, Lipsiae,
Grumbachs, 1872, dove sono raccolti ottimi materiali, ma per colpa del
Tigri non sono, nò potevan essere distinti secondo le particolari pronunzie,
e per comune a tutta Toscana viene dato ciò che è solo di una od altra
parte di essa.
(1) Tigri, n. 158.
(2) Tigri, n. 497. Qu.alche dubbio avremmo anche riguardo ai n. 150,
244, 249, 349, 611 ecc. e sugli Stornelli di n. 56, 109, .341, 442 ecc.
(3) Il Barbi, l'oes. pop. pistoiese, p. 4 afferma, osservati nella Nazio-
nale di Firenze, i suoi manoscritti, che " il Tigri correggeva e talora con
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 371
Le labbra di tm beUissinio corallo; (*)
Or che ti giova andar cercando fiori; (^)
Egli ha, una bella voce, egli ha un bel canto; (^)
Se non son degna, onde degna ne sia; (*)
Ma lo splendor che lasci per la via
E sempre meno della fiamma mia; (^)
L'ho perso lo mio core, e il vo cercando; (®)
Allor vedresti il mio misero cuore; (^)
Ti credi che la gente non mei dica; (^)
Il voglio amare e tu lo vuoi amare; (^)
L'ho fatto il voto, e tu non mei guastare; (")
Pensi che vestir vogliami di bruno,
Pensi ch'io voglia far come qualcuno.
Che per l'amante vassi addolorato; (")
Padrona del mio cuor, vien te lo piglia; ('^)
Mangiò ben -presto il pane tribolato; ('^)
parmi chiaro che chi li trascrisse ebbe ben poco
senso di toscanità (") e minor pratica delle forme
popolari, se accettò per buone le evidenti correzioni,
od essendone autore, pensò che potessero general-
mente esser accettate per buone.
poco senso della popolarità, le copie dei canti che gli venivano da" suoi
amici e collaboratori „.
(1) Tigri, n. 17.3. E lo Stornello n. 59: Avete i lal)bri simili al corallo.
(2) Id., w. 213. Probabilmente: 0 che ti giova ecc.
(3) Id., n. 224. Bisognerebbe scrivere: E' gli ha.
(4) Id., n. 252.
(5) Id., n. 261.
(«) Id., n. 312.
(7) Id., 485.
(8) Id., n. 760. In buon toscano: 'uh me lo dica.
(9) Id., n. 782.
(10) Id., n. 786. In buon toscano : e fu 'n me lo.
(11) Id., n. 1037.
('-) Id., Storu., n. 26. Dovrà dire : vietitelo a piglia.
(13) Id., Stoni, n. 175.
(Il) Questo senso della toscanità, clie certo io non mi arrogo, pronto
a ricredermi ove avessi errato, ebbe tra i non toscani vivissimo ed acu-
372 LA POESIA POPOLARE ITALIA:NA.
Né soltanto fra i Canti toscani, ma anche in altre
Raccolte si sono indebitamente introdotti componi-
menti apocrifi. La pubblicazione del Marcoaldi, nota
a ragione il Nigra, (^) comincia con un Canto arte-
fatto, e segue con parecchi altri d'egual natura. (")
Chi infatti non scorge il falso in questo Rispetto,
onde appunto s' inizia la Raccolta umbra, e che par
proprio un'arte poetica ad uso del genere?
E voi mi domandate in cortesia
Chi fa delli miei versi lo maestro?
10 l'ho dentro del cuor la poesia,
E canto quello che mi detta l'estro.
11 giorno che ho veduto la mia Nena
La mente mi sentii di versi piena ;
Il giorno che la Nena mi ha sorriso
Io l'ho veduto tutto il Paradiso;
Ed oggi che la Nena il cuor mi dona,
Io son poeta, e re di gran coi'ona.
tissitno il Tommaseo. Eppure ciò non gli imped"! di scrivere e più volte
ristanip-ire le seguenti parole in una descrizione di Livorno: " Tu se' un
mar vivente: questa espressione io sentivo fuori delle porte di Livorno
dalla bocca di un marinaro; e potete ben credere cbe i letterati non
r hanno inventata „ (Bellezza e Ciciltà. Firenze, Le Monnier, 1857. pag. 377).
No certo: perchè un letterato avrebbe detto: malvivente. Quest'equivoco
mi ricorda un altro nel quale cadde, ma poi si ritrasse, il Btron notando
in una lettera alcune forme espressive del parlar veneziano: " Ils ont des
singulières expressions... ils disent: Mazza ben, attachement excessif: lit-
téralement: - Je vous vcux du bien au point de vous tuer - „. Vero è che
poi soggiunge, citate altre frasi: " Je ne suis pas bien siir do mazza, peut-
("tre est-ce masaa, qui veut dire: beaucoup, une masse: mais pour les
autres phrases, j'en suis certain , (T. Moore, Mémoires de Lord. B. trad.
par L. Belloc, Bruxelles, Hauman, 1831, III, 224).
(1) C. p. del P., pag. XIX, in nota.
(-) I Canti apocrifi, opportunamente notati dal Nigra nella Raccolta
del Marcoaldi, sono i n. 1, 3, 26, 28, 34:, 39, 76, degli Umbri, e il 16o dei
Piemontesi : aggiungasi il 5» dei Liguri, il 49» dei Piceni ecc. Ne tutti
schietti sono i canti della Raccolta fabrianese dello stesso Makcoaldi ;
p. es. il n. 147: L'amore è fatto come 'n ticceUelto Che va di ramo in ramo
saltellando: Con un gola h venuto nel mio petto. Il povero cor mio lo va bec-
cando: e via di questo tòno. In nota spiega che " l'uccelletto della foro-
setta è il passero di Lesbia „ ma che ""la canzone panni sappia .alquanto
di poesia letterata „. Sicuro: pare un pochette, alquanto, una svenevolezza
arcadica!
LA POESIA POPOLARE ITALLàNA. 373
Non neghiamo però che, oltre questi Canti che
crediamo non sieno mai stati popolari, altri non ve
ne sieno di evidente origine letteraria, ma che il
popolo ha fatto suoi, più o meno modificandoli. Ve-
dremo più oltre una serie di Canti appresi dal po-
polo di sui libri: e in altri, se manca la prova di
fatto, la derivazione letteraria è evidente. Odasi
questo, che sarebbe fra i Canti toscani, ed è anche
una perfetta ottava :
Bella, non fare come fa' Narciso, (')
Di donne non si volse innamorare;
E poi s'innamorò del suo bel viso,
Sopra una fonte ne venne a passare,
Dentro ci si guardava fiso fiso,
Dell'ombra sua si venne a innamorare;
Guardate come fu la sua fortuna!
'Namorato che fu, morte si dona. (^)
A' seguenti, perch'e' siansi fatti popolari, non
nocque, anzi dovette giovare, l'antitesi dei concetti
e delle frasi: O
Se tu mi lasci, lasciar non ti voglio;
Se m'abbandoni, ti vo' seguitare;
Se passi il mare, il mar passare io voglio.
Se giri il mondo, il mondo io vo' girare;
(1) Eeminiseenze mitologiche sono anche in questo canto siciliano
(Vigo, n. 24:00) che ricorda Piramo e Tisbe, Progne e Tereo, Euridice ed
Orfeo, e nella prima sua origine, avanti che s'infarcisse di spropositi, do-
vette certo essere letterario :
Cianci Pirimu e Tisbi pri l'amuri,
Ca morti tutti dui s'aispiru a dari;
Brogna e Tereum pri hi granni emiri
Ccu pinni e ali niisiru a vulari:
Cianci Ararici 'ntra caverni oscuri
Ca Orfeu a lu 'nfernu la vitti turuari;
lu cianeiu, e m'annavanza lu duluri.
Ca t'aniu, e 'un saccia s' iddu mi vo' amari.
(2) Tigri, n. 133.
(3) Lo stesso andamento, ma pur anco lo stesso carattere letterario,
hanno molti Canti siciliani, che paiono esercizj di coniugazioni verbali:
374 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
Se passi il mare con pianti e con pene,
Con te voglio venir, caro mio bene.
Se passi il mare con pene e con guai.
Con te voglio venir dove ne vai. (^)
Se m'ami, io t'amo; e se tu m'odii, io t'odio;
Se tu mi vuoi del ben, ten vuo' il cor mio;
Se mi sprezzi, ti sprezzo, e s'altra brami,
S'altra desidri tu, altri bramo io;
Se segui, io seguo, e se tu fuggi io fuggo:
Se tu ardi per me, per te mi struggo. (-)
Anche questo, che è vera ottava, ha intonazione let-
teraria :
Crude sono le fiere, e sì spietate
Nate ne' boschi, fra l'erbe nutrite;
Ma non tanto crudeli e tanto ingrate,
Quanto inverso di me tiranna siete.
Bella, se vi amo, perchè non mi amate?
E se vi seguo, perchè mi sfuggite?
Verrà la morte, e tutti due morremo,
Dipoi che contentar non ci potemo. (^)
In altri casi si direbbe che il Canto sia in parte
letterario, in parte popolare: l'intonazione incon-
sueta non ha retto a lungo, cedendo il luogo a più
semplice suono, o questo si è a quella innestato.
Eccone qualche esempio:
Miseri gli occhi miei quando vedranno
Vostre bellezze in libertà (■*) d'altrui!
Tu speri, iu sperti, e tutti due spiratnu... Tu si' mia, iu su' to, luntani stamu ecc.
(Vigo, n. 597); Nun su' ntiu, ca szi' to, su' oca, su' ddocu, Su' cchiù ddocu ca
ccà, cchih to ca miu ecc. (Vigo, n. 834); Ti secutu, ti fnju, amu, disamu, Nun
t'ainu, timu, m'accustu, m'arrassu, Parru, ammutisciti, ti rifiulu e bramu. Ti
secutti, abbanntinu, pigghiu e lassù ecc. (Vigo, n. 84:!); Tu vo', iu vogghiu, tutti
dui volemn, Tu nun voi, iu nun vogghiu, e nui ni stamu. Tu vurristi, iu vurria,
ma nun potemo ecc. (Vigo, n. 1721); ^Vnn >nutu,nun mutai, nun mutiroggiu ecc.
(Vigo, 1737); Nun lassù, nun lassai, nun lassirb ecc. (Vigo, 1795); M'abhandon-
nasti ed iu t'abbannunai, Tu rifriddasti ed iu 'ntirìzgii ecc. (Vigo, il. 2829).
(>) Tigri, n. 58C.
(2) Tigri, n. 839. Cfr. n. 1079, 1080, 1087.
(3) Tigri, n. 993.
(■1) Corto: in x^otestà.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 375
Pianti e sospiri a me non mancheranno,
Di tanto bene che ho voluto a vui !
Non piango mica il ben che vi volevo,
Piango le falsità che vi credevo.
Non piango mica il ben che v' ho voluto.
Piango le falsità che v'ho creduto. (')
La differenza di suono comincia qui colla ripresa,
come se fossero due tetrastici di diversa origine,
appiccati insieme. E così in questi altri casi:
Quanto piìi in alto cielo n'anderai.
Più aspro ti sarà scendere in terra;
Quando la pace a me domanderai,
Allor sarò forzata a farti guerra.
Quando verrai da me a chieder pace.
Non si può perdonare a chi è fallace.
Quando verrai da me che ti perdoni,
Non si può perdonare ai peccatori. (-)
Zappai nell'acque e coltivai l'arena,
Scrissi con polve e poi la diedi al vento:
Era di neve, amor, la tua catena
Che il sole la distrusse in un momento.
Ora m'avvedo e conosco l'errore;
Quanto son false le vostre parole!
Ora m'avvedo, e conosco il partito;
Chi si raffida in voi, riman tradito. (^)
Ho visto per pietà continovare
'Na goccia d'acqua sconsumare un sasso;
Ho visto molti poveri innalzare.
Principi e cavalier calare al basso.
Ed ho veduto di molti signori
Calare abbasso e diventar pastori;
Ed ho veduto de' signori tanti
Calare abbasso e diventar amanti. {*)
(1) Tigri, n. 803.
(2) Tigri, n. 895.
(3) Tigri, n. 998.
(*) Tigri, n. 1179. Hanno carattere più o meno letterario anche i n. 20,
570, 795, 859, 999, 104:8, 1116 ecc.
376 LA POESIA POPOLARE ITALIAKA.
Aucbe maggior numero di Canti dall'effigie chia-
ramente letteraria trovasi framezzo agli Strambotti
popolari siciliani. (^) Non si potrebbe in generale
disconoscere che sieno stati raccolti fra '1 popolo,
come tutti gli altri, e che il popolo come gli altri
non li canti ; ma neanche potrebbe negarsi che ab-
biano qualche cosa che dalla generalità li renda
alquanto differenti. Vi è in essi una ricercatezza di
concetti, una raffinatezza di sentimenti, una lindura
di frasi e vocaboli, un artificio di versificazione, un
sì fragoroso contrasto di immagini e di parole, una
così assidua cura di carezzare, lisciare, ingrandire le
minime cose e dar loro l'importanza delle grandi, (^)
un che, insomma, che al popolo piace, ma ch'egli di
jDer sé non sa fare, perchè contrario alla sua vera
natura. Chi ha pratica col genere, facilmente av-
verte la dissomiglianza di questi componimenti da
quelli fatti davvero dal popolo ; ma facilmente anche
comprende come al popolo sieno garbati, e li abbia
fatti suoi, mentre sprezza e non cura le svenevoli
imitazioni de' Canti suoi proprj. " Tutti i Canti
piazzesi, dice il Vigo, putono di calamajo „ ; (^) e
più oltre: " Al solito i Canti di Piazza sentono d'in-
chiostro „. (*) E anche altrove qua e là esprime
le stesse riserve sulla schietta popolarità di taluni
(1) n GuASTELLA COSÌ coiicliiude la sua Prefazione, pag. cxxxi : " In
quanto alle Canzuni, le schiettamente popolari sono poche, essendo in
grandissima parte opera di poeti eulti, sebbene stupendamente modificate
e migliorate dal popolo ,. E promette di dimostrare in uno studio " che
verrà pubblicato in fin dell'opera, con argomenti irrefragabili, che i nostri
Canti sono letterarj nella massima parte „. Disgraziatamente la promessa
non fu mantenuta. Il valente illustratore dei canti e delle usanze di Modica
morì ai 6 febbraio 1899.
(=) L'arte del Veneziano sta tutta, com'egli dice, nell'ottava 288 del
1" Libro de la Celia, nell' 'nlagghiari Graniti colossi in picciuli carnei.
P) Nota al n. 2952.
(t) Nota al n. 3092.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 377
Strambotti, 0) fra gli altri, per quelli tutti di Pie-
traperzia. O Similmente il Pitrè fa eguali avver-
tenze rispetto ai Canti raccolti in Tortorici. {^) Sulle
ragioni del fatto già abbiam detto qualche cosa, e
più diremo in appresso ; intanto ci piace confermarlo
con esempj, perchè meglio si noti questa singolare
tendenza del Canto popolare alla squisitezza delle
forme letterarie. Apriamo, adunque, la " Raccolta
amplissima „ del Vigo, e caviamone fuori alcuni
Canti, che evidentemente appartengono alla cate-
goria degli aulici:
Di dda Sirena mia sempri adurata,
Pinci, 0 pitturi, la gran simpatia,
Comu mi teni in estisi biata.
Quanta di dd'occlii è forti la magia;
E sibbeni iu la soffru sempri 'ngrata,
Pr' ingannari st'afflitta fantasia.
Pinci l'occhi ccu mastra pinziddata,
Mossi 'nfini a pietà di st'agunia. (*)
" Lo canta il popolo, soggiunge il Vigo; ma è del
popolo? Io lo reputo di persona che ha letto „. E a
proposito di questa che segue, annota: " La Canzone
è popolare, ma è stata ritocca e guasta da qualche
dottore „ :
Ssi tei biancliizzi su' tantu perfetti,
Ca pari fatta di nivi e di latti:
'N capu ssi mascidduzzi hai due russetti,
Cchiìi frischi di li rrosi ancora 'ntatti;
L'occhi 'nnucenti ca a pampina metti
Fa ca ogni cori s'arrisbigghia e sbatti;
(i) Note ai 11. 83-i, 843, 1859, 1613, 2538, 2903, 3060, 3101, 312i,
3812 ecc.
(■2) Nota al n. 78.
(3) Nota al n. 261.
W Viao, n. 78.
378 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
Lu sai comu su' l'ancili ccliiù eletti ?
Guardati 'tra lu speccliiu ca cci appatti. (')
Quest'altro ancora accortamente dubitò il Vi-
go (') che " sapesse di scuola „ :
De li beddi occhi toi la sciamma ardenti
M'ha cunsuniatu li niiduddi e l'ossa;
Talchi lu tini di li me' turmenti
E la paci pri mia sarà la fossa;
Qualunchi vota chi mi torni in menti
Crisci la dogghia a misura chi è mossa;
Pirchì spina tuccata è cchiù pungenti,
E la sciamma ardi cchiù, quannu è cchiù smossa. (^)
Così leccato com'è, si capisce che questo che se-
gue potesse esser fatto suo proprio dal popolo, ma
non dal popolo composto:
Specchiu, signura, mi vulissi fari
Ppi vui guardari di cuntinu a mia;
E vistinedda mi vulissi fari,
Di la vistina almeno la pudia:
Frisca funtana mi vulissi fari
Si cci lavassi la patruna mia;
Fussi la sòia di li to quasar!,
Lu to piduzzu sempri vasiria! C)
Dicasi altrettanto di questo, che è un dialogo fra
un amante disperato e il diavolo :
— Cu' è ca batti li porti a lu 'nfernu? —
— Apri, ca sugnu un misiru dannatu. —
(1) Vigo, n. 118.
(3) N. 3060. Cfr. Mueller-Wolff, pag. 244.
(3) È infatti nel Codice Laurenziano 97, I, pag. 41, col nome di Fi-
lippo Triolu, con queste leggero varianti: vers. 2: Consumai' ha la carni
e st' afflitti — 3 alia fini — 4 L'ultima paci mia — 5 S' iu minili scorda e
poi mi veni — 6 Tanfi più acerba la dogghia cummossa — 7 tticcata chiaga —
8 quantu chiù è. E il prof. U. A. Amico mi avvertiva che infatti col nome di
Filippo Tkiolo trapanese trovasi nella Nuova scelta di rime siciliane, 1770,
voi. I, pag. 67, e nella Scelta di cansuni siciliani, raccolte dal De Blasis
0 Gambacorta, 1753, pag. 130.
(4) Vigo, n. 512. Cfr. n. 511.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 379
— Chi veni a fari 'tra stii focu eterna? —
— Vegnu pri ripusari a Io tò lato. —
— Lu vidi eh' è di focu lu guvernu,
E cui ci trasi resta cunnannatu? —
— Megghiu muriri, e scinniri a lu 'nferno
Ch'essiri di l'Amari turmiutata. — (^)
Quest'altro, dice il Vigo, il popolo l'avrà adot-
tato da qualche antico autore :
Siddu c'è stidda, stidda siti vai,
Siddu c'è soli, siti vui lu sali;
Siddu c'è luna, luna siti vui,
Siddu c'è duri, siti vui lu ciuri;
Nun c'è biddizza ca nun siti vui,
Siddu c'è amuri, siti vui l'amuri;
Unni risguardu senipri vidu a vui.
In tutti li jurnati, in tutti l'uri. (^)
Più e pili Canti arreca il Vigo, ne' quali l'ama-
tore è con molta arguzia di paragoni rassomigliato
ad un orologio : e ne trascegliamo uno di Milazzo :
Su' divintatu rraloggiu d'Amuri;
Spirita è lu me cori ca cummatti:
Mazziri l'ossa ccu affanni e daluri,
Cordi li nervi rallintati e attratti:
Rosa la menti, ed ogghiu li sudari,
Amuri è lu marteddu e sempri batti;
Campana è la mia Dia, ca sona l'uri,
Mi pasci di palori e non di fatti. (")
(1) Vigo, n. 662. Cfr. Pitrè, Canti popol. sicil., I, 142: e vedi anche
un Canto in dialogo fra un dannato che vuol passare le porte infernali e
Cerbei'o che n'è custode, riferito dal prof. Amico nella sua Lettera sopra
UH manoscritto di poesie siciliane nella hibliot. nazion. di Bologna, nella
Rivista Sicula, voi. I, pag. 4'jl (anno 1869^.
(2) Vigo, 759. Più tardi, L. Capuana nelle Poesie di P. Mauea in
dialetto siciliano (Milano, Brigola, 1879, p. 141) riportò questo Canto insieme
ad altri, accettati per autentici dal Vigo, dichiarandoli " falsificazione let-
teraria „ (p. xiv) e velatamente indicando se stesso per vero autore.
(3) Vigo, n. 775 in nota, e vedi ivi altre varianti. Cfr. Avolio, n. 20;
Canale, n. 35; Manda lari, p. 391. Nel codice calabrese, del quale più oltre
880 LA POESLi POPOLARE ITALIANA.
Opportunamente il Vigo a proposito del Canto
che segue rammenta un Sonetto azzimato e sdolci-
nato del Lemene. (^) Contiensi in ambedue i compo-
nimenti un sogno: nel Sonetto, l'amante e la bella
sono insieme condannati all'Inferno, egli per aver
osato alzar gli occhi e il desiderio ad una Dea, ella
per la sua crudeltà. Ma ad un tratto l'Inferno can-
giasi in Paradiso :
diremo, trovo quest'ottava a pag. 85:
Di mia, di li mei guaj, di li mei peni
'Kdi foitna un orologiu la Fortuna;
La campana è stu pettu chi sosteui
Di hi marteddu li corpi che duna:
Lu spiritu è stu cori chi va e veni;
E palpitandu li suspiri duna;
Quaiidu mi criju nrrivari a lu beni,
Souanu vintiquattro, e torna Tura.
Una lezione poco diversa attribuita a D. I. Gravina da un cod. trapanese,
è in P. Camin, per nozze Albei-ti-Irzel, Palermo, tip. Gioru. di Sicilia, 1890,
p. 7. Nel cod. Laurenziano 97, I, cart. 6. che più qua esamineremo, la se-
guente ottava va sotto il nome del celebre Veneziano:
Su fattu orloggiu, chi li moti cuntu
Chi fa lu celu, e quantu voti duna;
Numeru ogn'ura, ogni quartu, ogni puntu,
Di quandu inalba sin a quandu imbruna;
Quando mi criju a la jurnata juntu
D'essiri in gratia di la mia patruna,
Tandu, mischinu mia, scuru e tramuntu;
Sonati vintiquattru, tornu ad una.
E con leggerissime varianti è nelle Opere di A. Veneziano, Palermo. Gili-
berti, 1859, pag. 15, n. 61. È poi curioso a sapersi che, sei anni dopo l'inven-
zione che a Giovanni Dondi meritò l'aggiunta Dall'Oi-ologio, il re di Francia
fece costruire a Enrico De Vie mia consimile macchina per la cittìi di
Parigi. Quando fu messa al posto, ispirò allo storico Froissart un compo-
nimento di 117-1 versi dal titolo Li hoi-loge aiìioiireus, nel quale espone lo
molte analogie fra i moti dell'orologio e le sensazioni di un cuore, che
l'amore ha in sua balla. La cassa rappresenta il cuore dell'innamorato, la
prima rota messa in movimento dai pesi è il desiderio svegliato dalla
bellezza, e cos'i via: v. A. Franklin, La Vie pì-ivée (Vaiitrefois : la Mes»re
du tetììjìs, Paris, Plon, 1888, p. 50.
(1) Ma veramente si risale con questo ghiribizzo, al Cariteo : vedi il
mio saggio sul Secentismo nella poesia cortigiana del sec. XV, in Studi di
leti. ital. dei primi sec, p. 18G: ove noto imitazioni del Di Costanzo, del
M;irini e di Eustachio Manfredi, e sarebbe da aggiungersi un madrigale
del Testi: Lidia, non è bugia ecc.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA, 381
Tu lieta mi parevi, ed io contento :
Io perchè rimirava il tuo bel viso,
Tu perchè rimiravi il mio tormento.
Or odasi come lo stesso concettino si svolga in un
Canto siculo raccolto in Minèo:
Mi sunnai chi nui dui, patruna mia,
'Ntrammu a lu 'nfernu janiu cunnannati;
lu chi cosa celesti pritinnia,
Vu' ppi la vostra troppa crudiltati:
Vu' tant'eravu sazzia di mia,
Ch'un jocu vi parria zzoccu si pati :
lu ppi la vostra vista e cumjìagnia
Essiri ('n) mi parria 'ntra li dannati. (^)
Ma l'ottava è, secondo il Vigo, di Orazio Capuana, (-)
sebbene noi l'abbiamo trovata manoscritta (^) e a
stampa (*) fra le cose del Veneziano. ('')
(1) Vigo, n. WSi. Aggiungiamo la negativa, che manca al Vigo, e
senza la quale manca anche il senso.
(2) E anche L. Capuana, op. cit., p. 8.3. l'attribuisce al suo omonimo.
Dello stesso sarebbe anche, secondo il Vigo, n. 1.51.5, quest'ottava, della
quale una lezione un po' diversa, offre L. Capuana, op. cit., p. 82. ed altra
un cod. magliab. (Rubieki, pag. 192) e che è poi passata al popolo :
Comu gravida donna ca ddisia
Li frutti chi a ddu tempu nun ci su"
E per effettu di la fantasia.
Tocca 'na parti e non ci pensa cchiìi;
Doppu nasci lu partu, zoccu sia,
Signatu appunta unni taccata fu;
Censì fu' in pri disiari a tia;
Tuccai stu cori, e ci arristasti tu :
Cfr. una ottava del Veneziano, ediz. cit., pag. 50, n. 259. E anche attri-
buito a Girolamo d'Avila; v. S. Salomone Marino, Intorno al Parnasso
Siciliano, ms. del 1631, Palermo, Statuto, 1892, p. 10, ove sono riferite pa-
recchie variazioni su questo concetto.
(3) Cod. Laurenz., 96, pag. 16.
(•1) Ediz. cit. del Veneziano, pag. 43, n. 222. Diamo qui alcune va-
rianti: 1 Cod. e st. : vai ed tu — 1 Cod. e st. : Morti a l'infermi — 3 Cod.
e st. : per chi... vulia — 4 Cod.: troppa vostra: st. : vostra troppu — 5 Cod.:
tantu: st. : Tantu vi sazziavivu — 6 Cod.: Chi festa vi paria qiiantu. St.:
Chi festa ci paria zoccu — 7 St. : duci — 8 Cod. e st.: Stari min mi cridia
fra li dannati.
(5) Anche il n. 3851 del Vigo trovasi a pag. 123 delle opere del
Veneziano, n. 33.
882 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
Bello è il canto seguente, specialmente nella
prima parte, ma fatto dal popolo noi diremmo dav-
vero :
Scura la notti, trunianu li venti
Ammucciata è la luna a lu livanti;
'Ntra lu lettu si abbrazzanu l'agenti,
lu fora staju, ohimè, poviru amanti!
Ti cantu li canzuna, e non li senti.
Ti n'ha' fattu n'aricchia di mircanti;
Quannu la testa a lu capizzu menti.
Rigorditi di mia mentri ca campi. O
Né di minor bellezza, ma pur sempre di letteraria
origine, diremmo quest'altro :
Comu 'na rrosa dintra lu buttuni,
Durmia la bedda, e s'insunnava a mia;
Adaciu, adaciu cci dugnu un vasuni.
Si arrisbigghia, apri l'occhi e mi talia ;
Cci sciaura di cannedda lu sciatuni,
La trizza coddu coddu pinnulia;
Guardati si a stu manna c'è pirsuni
Ca ponnu assimigghiari a la me Dia! (^)
E bellissima è pur quest'altra ottava: ma chi la di-
rebbe composta dal popolo?
Ciancennu e lagri manna la lassai
Mesta, assittata d'avanti la porta:
Quannu la bianca manu cci tuccai,
L'avìa fiidda 'na nivi ed era assorta;
E poi mi dissi: Vera ti ni vai?
Ora li peni mia cu' li cunforta?
Longa è la via; cui sa quannu virrai?
Ju nun ti viju cchiù, ca sugnu moria. (^)
(1) Vigo, li. 1322.
(2) Vigo, n. 208(5.
(3) Vigo, ii. 2650. V.ari.anti del ■1" v.: L'av)n cchHi f ridda di 'na vera
morta: e deirultirao: Viva mi lassi e mi ritrovi morta. Eccone l'imit.izioiie
toscana (Tigri, ii. 11,36):
La vidi alla finestra clie piangea,
Io la chiamai e le dissi: Cos'hai?
LA POESIA POPOLARE ITALLVNA. 383
Osservammo già quanto nella poesia popolare
di genti diverse e disgiunte ricorrano frequenti i
desideri di trasformazione dell'amante in alcun ani-
male od oggetto. (^) Ma quest'ottava siciliana, nella
forma almeno, sa di letterario :
Mi fici surgi, risicai la vita,
La mia amanti si fici gattaredda:
lu mi fici cuniggliiii, ed idda rrita;
lu cacciaturi, ed idda cagnuledda ;
Ora siignu acidduzzii di partita,
Ed idda è stracanciata in calantredda;
Havi dui anni ca fazzu sta vita ;
Tantii ci voli pr'amari 'na bedda ! (^)
Giudizj d'amore e tribunali ove la giustizia non
si vende e non s'inganna — e a tutti viene a mente
il piato fra il poeta e Amore al tribunale della
E lei mi disse : Penso a' casi mia,
Senza che te lo dica, amor, lo sai.
Se non mi pigli e tu mi porti via,
Le nuove che son morta presto avrai.
So non mi prendi per teco menarmi.
Le sentirai cantar le requie e i salmi.
(1) È da vedere in E. Marin, op. cit., II, 403, a illustrazione del canto
spagnuolo Quisiera ser el sepulcro, Donde à ti te han de enterrar. Para te-
nerle eii niis hrazos Por toda la eternidad, una copiosa raccolta di poesie
popolari e d'arte contenenti siffatti desideij.
(2) Vigo, n. 1711. Cfr. varia lezione in Pitrè, &';«(?/, p. 76; lezione lec-
cese in Imbriani, C. x'opol. jjroo. merìdion., I, 1S7 e napoletana in Moli-
NAEO, p. 129. L'imitazione toscana, che sa ancor più di letterario, è questa
(Tigri, n. 850) :
Se per fuggir da me cervo ti fai,
Leone mi farò per arrestarti ;
E se uccello in aria volerai.
Io falco mi farò per ripigliarti ;
E se pesce nell'acqua noterai,
lo rete mi farò per ripescarti ;
E se alfin lume ti sarà concesso.
Farfalla mi farò per starti appresso.
Il penultimo verso è evidentemente errato ; forse : E s'esser lume ti sarà
concesso.
384 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
Eagione — ricordano questi due Canti, che dai let-
terati ci sembrano discesi al popolo :
Voggliiu dnmani, si si teni udienza,
Sta supplica a Cupidu apprisintari,
Riguardanti l'ingiusta prepotenza
Ca tu ccu mia si' solita ad usari :
A vucca poi diroggiu a Sua Eccellenza :
Signuri, 'un si pò affatto suppurtari
Di sta barbara donna l'insulenza,
Ca voli essiri amata e non amari. (')
'Ntra lacrimi e suspiri fui citatu
Ravanti un tribunali ri giustizia ;
Cantari vuoggiu hi tò cori 'ngratu,
Ca mi hai persu r'amuri e r'amicizia ;
Qual'è l'amuri tuou ca mi hai purtatu ?
Viva l'amuri mia senza malizia !
Ora ca 'n'autru amanti t'hai circatu,
Tribunali ri Diu, fammi giustizia ! (-)
Altri ancora non dispiaccia udirne al lettore, pieni
di artificio ed evidentemente dovuti a penna eulta:
Gesù, quanta è laida l'aspittari !
Massima ppri cui ama e porta amuri ;
Ogn' ammira ca vija iddu mi pari,
Ogni scrusciu ca senta, eccu ca veni. (^)
(1) Vigo, n. 1937.
(2) Vigo, n. 1991 : cfr. ii. 269-1, e questo Canto avellinese (Imbeiani,
C. popol. avellin., pag. 49) :
Giudice e presidienti quanta siti.
Tengo 'na lite co' la 'nnamorata ecc.;
e a pag. 86:
Tengo "na lite co' lo 'nnamorato,
Si nce Iiaggio la ragione, mme la faciti ;
Asciti giudicanti tutti a rote.
Giudici e cancellieri quanta siti ;
Io ve lo cerco per finezza granne,
Cundannate sto ninno a ccliiìi de 'n anno.
(^) Serafino dell'Aquila in uno Strambotto:
Poco è eh' io stava ad ascoltare intento
E senti' mormorar non so che porta:
Dico : Quest'ò chi mi vuol far contento ;
E si rinlVanca la speranza morta ecc.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 385
Vaju dicennu coma vogghiu fari?
lu mora, e non lu vija a la me Ijeni ;
Nun pensa né a daimiri nò a mangiari:
Haju la gihisia 'ntra l'arma e peni. (')
Di la frevi frinetica d'amari,
Frevi, ca 'ntra li frovi è acata assai,
Mentri ia addamava d'estrema caluri
Mi cumparisti, bedda, e ti lodai.
Ora ca mi pargai di tali ardari
Cchiìi bratta qaanta tia non vitti mai;
E si bedda ti dissi, è stata errari ;
Svitti, e coma frinetica sparrai. (^)
Irvuzzi verdi e xiari di sti chiani,
Ora spantati 'mmatala pri mia;
Acqai frisclii d'argenta a li fantani,
'Mmatala vai scurriti pri la via;
Chiancia la sira, chiancia la 'ndamani,
Nadda cosa a lu manna ccliiìi mi sbia ;
Vaju gridanna li jarnati sani :
Persi l'amari mia, persi la Dia. (^)
'Ntra vaddi e gratti e caverni profanni
Vaju circannu, cime, cui mi firiu ;
Cerco la Dia chi persi e 'un sacciu anni,
Coma davanti l'occhi mi spiriu !
0 cela, 0 terra, o mari, o monti, o anni,
Mi dati novi di lu cori mia?
Ma l'ecu di luntanu mi rispanni:
Non ci pinsari cchiù, pri tia finiu ! (*)
Come clii scrisse questi due ultimi Canti doveva
aver gusto alla forma pastorale, cosi maggior ro-
bustezza di fantasia che non un cantore del volgo
(1) Vigo, n. 2.364; cfr. n. .3039, e Salomone-Marino, n. 374.
(2) Vigo, n. 2416. Nel citato cod. Laurenz., 97, I, cart. 166, nonché II,
cari. 69, l'ottava trovasi attribuita a Micheli Mukaschinu, con le seguenti
varianti: v. 1 acutissima — 2 cchià d'ogni frevi — 3 fui afflitta cu — i A mia
puristi — 5 Ma poi ch'iu... umuri — 6 Chiù di tia laida nun ndi viddi — 1 E
si farsi t'amai nun fici — 8 t'amai.
(3) Vigo, n. 2922.
(4) Vigo, n. 2929. Cfr. Atolio, n. 436,
D'Ancona, La poesia pop. ttal. -- 2-5
386 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
doveva avere chi compose quell'altro :
0 sorti svinturata, o mia sfortuna,
Sfurtunatu su' jò tra tanti peni.
L'aniicu e lu parenti mi sbanduna,
Manca la stissa terra mi tratteni.
La notti ora pri mia non nasci luna,
Mancu affaccianu cchiìi stiddi sireni;
L'ìxmmira stissa di la mia pirsuna
Canusciu chi cu mia stintata veni. (')
Ma se fin qui siamo proceduti per induzioni, (")
salvo per alcuni pochi casi, possiamo adesso pre-
sentare al lettore una serie di ottave siciliane, delle
quali, sebbene siensi frammischiate fra le popolari,
(1) Vigo, n. 30S0 ; Piteè, ii, 417. Kel voi. degli Studj a p. 50 il Pitrè
afferma autore di questo Canto essere il Veneziano. Nel manoscritto cala-
brese, del quale diremo più particolarmente or ora, quest'ottava trovasi due
volte, e con varianti clie mei-ita registrare, a prova delle modificazioni, che
subisce il canto letterario diventando popolare. A pag. G9 del manoscritto
dice cosi : v. 1 Sotto crudo pianeta e ria — 2 Sventuratii n'escivi in — 3 Non
tocco, non toccai cosa veruna — 4 Non godo, non godei cosa di beni — -5 L'a-
micie e Ih parenti m'abbanditna — 6 La terra xìer miracuhi mi teni — 1 E la
stess'iinibra — 9 Fiiru appressu di — E a pag. 113: v. 1 Caddi, precipitati la
— 2 Cu mia Ih ceìu inimicizia teni — 3 Ogni cara speranza m'abb. — 4 Pas-
sali, spariti di mia tiittii lu beni — 5 Ma chi servi cantari una per una — 6 Li
miei criidili e dispiietati peni — 7 Si pura l'umbra di la — 8 Pura apjìressu
eli mia sdegnata.
(-) Carattere ed origine letteraria mi sembrano avere più o meno,
fra' Siciliani anche i Canti della Collezione Vigo segnati co' numeri 64, 270,
293, 419, 496, 498, 576, 578, 603, 608, 613, 625, 679, 680, 757, 774, 780, 798,
817, 823, 1106, 1107, 1110, 1118, 1120, 1121. 1200, 1207, 1209. 1221, 1260, 1280,
1309, 1313, 1409, 1443, 1447, 1466, 1497, 1520, 1613, 1694, 1725, 1766, 1773,
1867, 1944, 1987, 1989, 1997, 2081, 2097, 2130, 2131, 2.347, 2348, 2351, 2.360.
2365, 2373, 2377, 2394, 2446, 24.52, 2456, 2524. 2537, 2.538, 2548, 2591, 2592,
2611, 2903, 2910, 2915, 2916. 2920, 2925, 2935, 2952, 2960, 2967, 2968, 2973,
2981, 2998, 3006, 3014, 3019, 30.38, 3044, 3046, 3047, 3049, 3050, 3054, 3055,
3056, .3057, 3063, 3067, 3072, 3077, 3101, 3111. 3117, 3121, 3124, 3132, 3162,
3221, 3222, 3236, 3237, 3239, 3250, 3741, 3794, 3801, .3803, .3855, 3874, 3889,
3898, 3902, 3907, 3908 ecc. Di alcune ottave è noto l'autore, improvvisatore
o improvvisatrice popolare: v. ad es. i n. 3272. 3280. 3286, 3293: quasi tutto
il gruppo dei Canti inorali e degli Avvertimenti lia nome di autore e sapore
letterario. Nella raccolta dell'AvoLio diremo letterarj i Canti n. 69, 79, 296.
302, 371, 381, 404. 428. 436, 447, 4.56, 461, 495 e molti altri assai. Il Piteè
riconosce per letterarj (Studj, pag. 66) i Canti da lui pubblicati sotto i nu-
meri 219, 261, 354, 369, 390, .415, 672, 722 ecc.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 387
è noto il nome dell'autore. (^) Apriamo la Raccolta
del Vigo e leggiamo questo Canto di Castelbuono :
Supra la nivi di li to' niasciddi
Cliiovinu rrosi munseddi munseddi ;
E a parti a parti poi sopra di chiddi
Hai certi sapuriti iiiiceddi ;
Suni vampi di aimiri picciriddi,
Un arcu, dardi, saitti a munseddi ;
E forsi in celu li cchiii beddi stiddi
Su' macchi, ma non macchi tanta beddi. (^)
Or questo Canto, con la variante macckiteddi al
4" verso, e al 6": Unn'arcu, dardi e saitti ammunseddi,
trovasi stampato (^) col nome di Vito Scardino da
Poggioreale.
Poco oltre nella Raccolta del Vigo leggiamo:
Lustru chi m'abhagghiau, focu chi m'arsi,
Sula biddizza rara a luiravigghia,
Quannu stu siili avanti mi camparsi,
Madera, brunna e la facci virmigghia ;
Li sciari stracanciarisi mi parsi
Affrantati ppi tanta miravigghia;
Chi cosi tali vidiri mi parsi
Chi 'nterra nenti cc'è chi cci assimigghia. {*)
Leggasi il secondo verso: Fu la biddizza rara a ma-
raviggìiia, il terzo: Quannu superba all'occhi mei cum-
parsi, il quarto: Quasi un aurora lucida e virmigghia,
e al quinto e sesto sostituiscasi: Ma fannu ingiuria
a tanti grazi, e scarsi Sunuu l' esempi, chi la lingua
pigghia, ed avremo un'ottava già nota, e dovuta a
Francesco Piatamene. (^)
(1) Debbo questi riscontri fra i Canti della Collezione del Vigo e varie
Eaccolte siciliane a stampa alla gentilezza del prof. U. A. Amico.
(2) Vigo, n. 275.
(3) Nella Nuova scelta di rime siciliane di antichi e moderni autori,
Palermo, 1770. voi. I, pag. 308.
(*) Vigo, n. 277.
(5) Nuova scelta ecc. voi. I, pag. 83. E già prima nelle Rime degli Acca-
388 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
A Palermo fu raccolta la seguente ottava:
Biddizza è trippa, nasci a li cchiù beddi,
Chi forma uu celu ccu li fissi stiddi ;
Granita fatta a forza di pinseddi,
Un lumi ardenti ricca di faiddi;
Vrisca di meli, chi 'ntra li fasceddi
Lammicana l'apuzzi a middi a middi ;
Loca amurasu di li fassiteddi,
Unni ci joca Amari a li nuciddi. (')
Ed è opera di un palermitano, cioè del Notare Giu-
seppe Lo Bianco. (")
A Vincenzo di Blasi e Gambacorta già da oltre
un secolo è data nelle stampe O l'ottava che segue,
e che il Vigo raccolse a Castelbuono:
Tardi pri mia la donna mia s'ammazza,
Tarda Terrari so chianci pintata :
Accussì an vera amanti si strapazza!
Accussì un vera amuri si rifiata !
Mi passau, mi passau dda vogghia pazza,
Ogni cosa la tempa a tempu mata;
Fu la me' vampa vampa di linazza,
Chi presta appigghia, e subito si astata. ('')
Allo stesso autore appartengono anche i seguenti
Canti burleschi:
0 nasu, ta si' nasu o canalata,
Sarìa scupetta si ci tassi gridda ;
Mi pari un pisci chi porta la spata,
Mmistennu non fa dannu picciriddu ;
Pari un tramniuni di galera armata,
E senza diri né chistu nò chidda,
demici Accesi, Palermo e Venezia, 1726, voL II, pag. 328, e nella Scelta di
canzoni siciliane del De Blasi e Gambacorta, Palermo, 1753, pag. 138,
con leggera variante al 3" v.
(lì Vigo, n. 294.
(2) Scelia di canzoni siciliane, pag. 190.
(3) Nuova scelta ecc., voi. I, pag. 328 ; Scelta di Canzoni siciliane ecc.,
pag. 136.
(<) Vigo, n. 3061.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 389
Niscemm lu patinili di la stvata,
Prima veni lu nasu e poi ven'iddu. (*)
Si vai pii mari ti servi pri vila,
Si fai lu pani ti servi pri pala,
Cci metti un mecciu, servi pri cannila;
Ad un jardinu è bonu pri sipala ;
E pirchì è tuttu guarnitu di pila,
Hai la scupitta quannu nesci in gala;
Né nuddu ti dirrà: cca mi hi 'nfila,
Pirelli la cosa ci rinasci mala. (^)
Nun liaju vista mai simili nasu,
Né chi paru ci fu, d'autri haju 'ntisu,
Menti' iddu é longu, grossu, largu e spasu.
Pari un cnrrenti di strania tisu :
Di tabaccu un cantaru ci va rasu,
E criju chi cchiù voti cci 1' hai misu ;
Si arrivi a jiri in celu ccu ssu nasu,
Nun ci capi cchiù nuddu 'mparadisu. (^)
Chissu 'un è nasu, pari ciminia,
Pri li purtusa longhi ch'è un spaventu,
E di larghizza servili putria
Pri un bonu magazzenu di frumentu;
Cui lu chiamassi turri, 'un sgarriiìa,
Ma lu cchiù meggiu é lu me sintimentu,
Chi misu suttasupra sirviria
Pri dui lochi cumuni ad un conventa. C)
Anche al Vigo la seguente parve " troppo arti-
fiziata „; e la stampò a riguardo di chi la raccolse
assicurando che fosse popolare :
Quannu casualnienti tutti dui,
Donna, a lu vostru visu l'occhi alzai,
(1) Vigo, n. 4222 ; vedi Scelta di canzoni siciliane, p. 126 ; Nuova scelta,
voi. I, pag. 329.
(2) Vigo, pag. 600, nota 484: vedi Nuova scelta, \ol. I, pag. 329; e in
due ottave, ma sempre col nome del De Blasis e Gambacokta, nella Scella
di canzoni, pag. 124-26.
(3) Vigo, pag. 600, nota 482 : Cfr. Scelta di canzoni, pag. 168.
(*) Vigo, pag. 600, nota 485: Cfr. Scelta di canzoni, pag. 178; Nuova
scelta, voi. 1, pag. 249.
390 LA POESIA POPOLARE ITALLA.XA.
Vitti dui Siili ed abbagliati! fui,
E senza foca subita adduniai;
lu chi nun mi ciidia vivili cchiui,
Di moitu ch'era immuitali anistai;
Ma chi utili ini fa vidiii a vui,
Si Anniri appi la vista ed iu 'niiurvai? (^)
Ed invero ne è autore Vincenzo Balli e Tornamira
d'Alcamo (^) al quale spetta (^) pur quest'altro com-
ponimento :
Banchi bedda all'aspettu assai pariti,
E dati causa ch'ognunu vi adura,
Comu a li fatti poi diversa siti,
E no coma dimustra la figura!
Ohimè, chi malamenti la 'ntiniiiti
Fari di un fidu amanti pocu cura,
E pri essiri bedda iusupirbiti:
Ahi chi sbagliati ; la biddizza 'un dura. (■*)
E con lievissime varianti quest'altra è stampata
nelle opere poetiche di D. Paulu Maura: O
Quannu nascii n'avissi natu mai !
Lu bagnu de di li mei chianti si fici,
Li dogghi di la matri ereditai,
Tutti li stiddi a mia foru 'nnimici ;
Fortuna 'ngrata non ci parsi assai.
Chi cchiù non potti farimi 'nfilici ;
Jnnci a l'estremu puntu di li guai,
Ppri nun vutari cchiù, la rota sfìci. (®)
Lo stesso autore rivendica per sua la seguente, C)
(1) Vigo, n. 1613.
1,2) Nuova scelta ecc., voi. I, pag. 320,
(3) Nuova scella ecc., voi. I, pag. 318.
{*) Vigo, n. 3748.
(5) Camiini siciliani di P. MÀUKA, Palermo, 1758, p. 73.
(0) Vigo, n. 381.
(') Ibid., pag. 74, con queste varianti : 2 La talpa vidi — & Eia fur-
inira vicina — 5 lu puro nell'estremi mei suspifi — 7 Cantai, vitti, vulai —
8 E pri patiri chiù.
LA POESIA POPOLARE IT ALLENA. 391
che anche al Vigo parve sentire " di letterato ,, : ma
è, soggiunge egli, sulle labbra del popolo :
Canta hi cignu all'ultimi martiri,
La tarpa grida a li so' stremi guai ;
La furmicula 'mpuntii di muriri
Vola pri l'aria rrispittusa assai ;
Tali fu iu ccu tia, cori crudili,
Tarpa, cignu, furmica addivintai;
Vulai tant'autu chi cridia muriri,
Ma pri cchiìi pena mia nun moru mai. (^)
Nella categoria dei Canti di disprezzo questi
due nella Raccolta vighiana vengono uno appresso
l'altro :
Lu gruppu si sciugglùu di ssu capiddu,
Ora mi stuffi, m'annoi, e m'ammutti ;
Quannu ti viju mi pigghia lu siddu,
Mi pari la cchiù brutta 'ntra li brutti ;
Per tia nun canta cchiù lu me' cardiddu,
Già si guastau hi vinu di ssa vutti :
Ciuciuliannu ccu chistu e ccu chiddu,
Addiventasti la cuna di tutti. ('^)
Vogghiu scialar! mentri sugnu schetta,
E vogghiu fari chiddu chi mi sguazza,
Pirchi quannu me' nunna m'arrisetta
C'è lu suprossu di la suggirazza ;
S' iu jocu, milli rampogni mi jetta,
Si staiu muta, a suspiri m'ammazza;
L'errami tutti sunnu di 'na setta ;
Morti, levala tu sta mala razza. (^)
Or bene : la prima appartiene a Litterio Brigandi
messinese, (*) la seconda a Santo Gripaldi palermi-
tano. (°)
anonima.
(1) Vigo, n. 2903.
(2) Vigo, n. 2555.
(3) Vigo, n. 2556.
(*) Xitova scelta ecc.. voL I, pag. 71.
(6) ytiova scelta, voL I, pag. 256. Nella Scelta di canzoni, pag. 38,
392 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
Quest'altra è di Cesare Gravina di Catania : (^)
Nun si levami mai tanti vapuri
Mossi di ventu a li celesti sfeii,
Né tanti in celu dunanu splendavi
Eterni vampi e immobili lumeii,
Nun scopri tanti dilettasi sciuri
L'amata terra in milli primaveri,
Quanti! vannu a munzedda tutti l'uri
A un cori amanti gilusi pinsevi. (-)
Ninno potrebbe dir popolare di origine il con-
cettoso componimento che segue, sebbene il popolo
l'abbia fatto suo e variamente modificato: e invero
lo leggiamo ascritto già da un pezzo al Presidente
Rosario Frangipane : ('')
Si voggliiu friscu, lu ventu non ciata,
Si vogghiu caudu, lu focu s'astuta;
Vaju pri caminari, e 'un trovu strata,
Talìu lu celu, e l'aria si tramuta ;
Vaju a la sepoltura, e 'un c'è balata,
Chiama a la Morti, e la Morti 'un mi ascuta;
0 Gesù, quantu sugnu sfurtunata ;
Vaju a lu 'nfernu, e 'n ci sugnu vuluta! (■•)
(1) Rime degli Accademici Accesi, voi. II, pag. 506.
(2) Vigo, n. 2377.
(3) Nuova scelta ecc., voi. I, pag. 236.
(4) Vigo, 3102: vedi varianti al n. 3103:
Si moni, la me morti è disiata.
Si campii, la me vita è priiibita,
Sidilii camini], .s'allunga la strata,
Si guardi! "ncelu, l'ariu si tramuta;
Si vogghiu friscu, nuddu ventu sciata.
Si voggliiu caudu, lu focu s'astuta;
Vaju a la fossa, nun ti'ovu vaiata:
La stessa sipultura mi rifiuta.
Cfr. PiTEÈ, StudJ, p. 210; e questo Canto marchigiano (Gianandrea, p. 161);
Prendo la spada e me vojo ammazzare.
La botta non me volse consentire;
Vado all'Inferno e me vojo dannare,
E Satanasso non me volse aprire;
Vado giù '1 mare e mi vojo affogare,
E l'acqua non me volse ricoprire ecc.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 393
Ottavio Potenzano da Palermo è autore di que-
st'altra ingegnosa ottava, (^) che il Vigo registra
come raccolta a Palermo :
Cchiù assai di la tarantula suttili,
Fazzu li 'ntiichi di li mei chimeii ;
Lavuru niiddi riti e middi tili
E poi li passa di iniddi nianeri ;
Tessu, rifcessu, aggruppa fili a fili
E middi voti poi li sciogghia arreri ;
Tanta mi fa la gihisia crudili
Ch' 'un cuetanu mai li mei pinzeri. (-)
I seguenti, lievemente modificati dalla tradizione
orale, appartengono tutti ad uno stesso autore. Santo
Rapisarda catanese:^)
Li veri amici, li veri parenti
Su' li quattro tari ccu l'ali janclii;
Cu' di l'amici aspetta complimenti,
S' incili di venta la panza e li ciancili ;
Cu' aspetta rroba di li so' parenti,
Forsi 'un arriva a cuvirtarsi l'anelli ;
Ve qualcosa di simile in una antica canzone del Libro di Canto e Liuto
di Cosimo Bottegari, pubbl. da L. F. Valdeighi, Firenze, Coppini, 1891.
pag. 134:
Un giorno andai per pigliar l'acqua al mare
E lo trovai ch'era fiamma e foco:
Fortuna m'è contraria in ogni loco.
Andai per foco a 'na fornace ardente.
Tutto lo foco gliiaccio ritrovai :
Quello che cerco non ritrovo mai.
In Turchia me n'andai per farmi schiavo,
E dai Turchi e dai Mori fui scacciato :
Vedete sotto qual stella son nato.
Per disperato all'Inferno n'andai,
E trovai chiuso, oiniè! tutte le porte:
Dica chi vuol, che al mondo ci vuol sorte.
(1) Scelta di canzoni ecc., p. 24. Nella Nuova scelta, voi. I, p. 8.5, e nelle
Mime degli Accad. Accesi, voi. II, p. 433 gli ultimi due versi dicono: Cussi
suggettu a gilusia crudili, Citntrastu senipri cu li ine pinseri.
(2) Vigo, n. 2394.
(3) SaccoUa di proierhj siciliani ridutti in canzoni, Catania, 1824.
394 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
Li veri amici, li veri parenti
Su' li quattri! tari ccu l'ali janchi. (')
Tantu furria e fa meu la gatta
'Nsina ch'ascia la carni o cruda o cotta ;
Tantu lu sorgi a trabuccu si jetta,
Finu ca la tantia la ricotta ;
Tu ca facevi lu surgi e la gatta,
Finalmenti ti ficiru la ghiotta. (^)
Ma qui ci arrestiamo, cliè troppo facile, ma al-
trettanto fastidioso, sarebbe allungarci in altre prove.
Abbastanza evidente è l'appropriazione di una certa
specie di poesia letteraria, fatta, aiutando l' uso co-
mune del dialetto, dalle classi popolari. E quando
il Vigo annotando lo Strambotto che comincia :
Donni, ch'aviti 'ntellettu d'amuri, (^)
(1) Vigo, n. 3921. Nel voi. I del Rapisarda, p. 57, dice così:
Ceni spera di l'amici cuniplimenti
S" incili di ventu la pauza e li scianchi;
Ceni spera roba di li soi attinenti
Non si pò affattn commiggliiari l'anelli ;
Cui spranza d'autru sta, sempri scuntenti
Si trova di la fama 'ntra li vranchi ;
Li veri amici e li veri parenti
Su' li quattru tari ccu l'ali janchi.
(-) Vigo, n. .3922. Ne) Eapisakda, voi. I, pag. 13, dice :
Tantu furria e fa men meu la gatta
Fin elle trova la carni o cruda o cotta;
Tantu lu surgi 'ntra un bucu s'aggatta
Finu ca si taffla la ricotta;
Ma quannu lu patruni a la 'ntrasatta
L'attrappa, e cerca darici 'na botta,
Cc'è cui ci dici : già la 'mbroggliia ù fatta,
Amicu, ti la ficiru l'agghiotta.
Cfr. anche Vioo, n, 3829, e Eapisakda, voi. I, pag. 11; (e v. anche Vene-
ziano, pag. 117) ; Vigo, n. 3863, e Eapisakda, pag. 43; Vigo, n. .3903, e Ea-
pisakda. pag. 27; Vigo, n. 3902, e Eapisakda, pag. 55; Vigo, n. 3904, e
Rapisarda, pag. 25 ecc.
(3) Vigo, n. 980. E al n. I486: Bedda,fnstivu vui lu me 'ntellettu. Anche
il verso che trovasi in un Canto meridionale (Imbriani, C. jìopol. meridion.,
II, 302): Luceno l'uocchi ioi cchiu de'na stella, h evidente imitazione dan-
tesca, e non fortuito incontro di un ignorante poeta popolare col nostro
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 395
domanda se il popolo tolse questo verso a Dante, o
Dante al popolo, da quanto sopra abbiamo visto siamo
tratti ad escludere assolutamente la seconda ipo-
tesi, che pur è ammessa da V. di Giovanni, (^) il quale
non trova in essa, " nulla di difficoltà „, e aggiunge:
" Non potè presentarsi così spontaneo alla mente
del poeta il verso, che aveva sentito ne' canti del
popolo? „ Aveva sentito? ma dove, ina quando? Sia
pure che il Canto suoni adesso in bocca del popolo:
ma che un poeta del volgo abbia trovato primo quella
invocazione, e peggio ancora che Dante se la sia ap-
propriata, è cosa da non potersi concedere neanche
un momento. Troppi documenti abbiamo ormai per
dire che il popolo fa suoi i Canti, che, dandogli nel
genio, sono stati composti da poeti culti con into-
nazione più 0 men simile a quella usata dalle plebi. O
XII.
Ma, potrà dimandarsi: dove e come il popolo
ha preso cognizione di questi Canti che egli si è
appropriato, perchè ha potuto rinvenirvi qualche
cosa di simile alle Canzoni da lui stesso composte e
rispondente al modo suo di sentire e di esprimersi?
Vi è un numero considerevole, in ogni provincia
maggior poeta. Medesimamente si manifesta di origine letteraria il n. 1977
del Vigo clie comincia: 0 tutti quanti pri sta via passati, Sfu me duluri
stati a contemplaì-i ecc.; e il il. .3814 : Si cerchi fidiltà'n donna truvari. Tu
zzappi all'acqua e simini a li venti.
(I) Nel Giornale II Borghini di P. Fanfani, I, 186.3, p. 229.
(-) Anche fra le Villette friulane ne troviamo alcune clie sanno di let-
terario. L'Akboit sembra dubitarne rispetto al n. 480: ma noi lo vorremmo
affermare anche pei n. 245, 483, 593, 744, 924, 984 ecc.
396 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
d'Italia, di libercoli stampati ad uso del popolo e
contenenti poesie, né mancano copie o raccolte a
penna di componimenti di siffatto genere, che sono
quasi repertori nei quali il cantore che sappia anche
leggere, rinnova le forze della sua musa, e attinge
nuove frasi, nuove espressioni, forme novelle del
sentimento. Abbiamo detto più sopra, con immagine
che al secol nostro non dovrebbe spiacere, che fra
il popolo e le classi superiori, fra la poesia del volgo
e quella dei dotti vi è stato quasi sempre come un
conto corrente di dare e d'avere. I poeti culti hanno
cercato di rinfrescarsi la fantasia in acque di pili
schietta sorgente, e i poeti del volgo han voluto
prendere un'aria più nobile e vistosa. I componi-
menti pertanto di che parliamo sono imitazioni più
o meno eulte della forma plebea; e questa poi, fa-
cendoli suoi e modificandoli, si fa più bella, o almeno
più azzimata e in gala. Alla Musa popolare d'Italia
non piace andare scalza, stracciata e sudicia : ella
ama invece vestir panni da festa e da signora, e
lavarsi nelle onde del mitologico Ippocrene.
Proveremo a dar conto di alcuni di questi re-
pertori poetici consultati e saccheggiati dal popolo,
che ben può dire, sotto certo rispetto, di ripigliarvi
il suo. E cominceremo dalla Sicilia, dove, come ab-
biani già detto, per causa del dialetto si confondono
insieme la genuina poesia del volgo e quella dei culti
rimatori, i quali nelle loro composizioni erotiche ser-
barono non solo l'idioma, ma la versificazione pur
anco dello Strambotto popolaresco, ed innalzarono
soltanto a maggior raffinatezza di eloquio e di forme
il genere poetico diffuso e noto nell'Isola.
Giuseppe Pitrè, tanto di questi nostri studj bene-
merito, ebbe già a far cenno di due Piaccolte mano-
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 397
scritte di poesie siciliane, in forma di Strambotti. (^
L'una contiene 398 componimenti, attribuendoli tutti
ad Antonio Veneziano da Monreale, che fu " primo a
poetare in dialetto siciliano „, O nato nel 1543, morto
nel '93. In questo manoscritto, che sembra degli
ultimi anni del Secento, trovansi molti componi-
menti che non si rinvengono né nelle edizioni, né
nei testi a penna delle poesie del Veneziano, e che
invece si trovano nelle recenti collezioni di Canti
popolari siciliani. (^) Il Pitré ne riporta una ventina
di esempi, mettendo a confronto la lezione orale con
la scritta. Siane o no autore il Veneziano, piacerà
vedere qualche altro saggio delle modificazioni, che
un Canto originariamente letterario ha dovuto subire
per diventar popolare, pur conservando nell'indole
sua tracce della nascita illustre. Il poeta adunque
scrisse :
Mentri passava, la vitti abballavi
Cuna scarpuzza bianca, ben pulita:
Chiù d'una vota la vulia vasari,
'Ntia dda vuccuzza duci e sapuiita.
(1) StadJ ecc.. pag. 185-206, 207-2.30. Il prof. U. A. Amico insen nella
Bivista Sicilia del 1869 un ragguaglio intorno ad un manoscritto di poesie
siciliane appartenente alla Biblioteca di Bologna: ma gli esempj che arreca
hanno piuttosto riguardo alla bellezza poetica, che non alle comparazioni
colla poesia popolare. Sarebbe desiderabile che il prof. Amico, od altri,
rifrugassero nel cod. bolognese per cercarvi Canti divenuti popolari.
(2) PitrÈ, StiidJ ecc., pag. 185. /« su' lii priniu, chi nesciu a stu ringu
dì mandavi in luci Canzuni siciliani: Veneziano, .E/jìs^. dedicai.
(3) Il Modica, biografo del Veneziano (Opere di Ani. Veneziano, p. xiii).
spiegherebbe il fatto raccontando come molti innamorati ed accademici,
volendo scriver versi, e mancando loro ingegno " a lui ricorrevano per ot-
tenerli, ed egli volentieri si prestava, ritraendone qualche volta dei lucri,
stante la sua povertà „. Di più la sua morte precoce diede agio a molti
plagiarj di acquistarsi gloria nelle accademie, adornandosi delle sue spoglie
e " pubblicandole per le stampe, onde grandi copie delle di lui Rime ap-
parse or sotto il nome di uno, or di un altro poeta siciliano „. E dopo no-
tato come dei concetti suoi si giovarono non pochi poeti italiani, cui era
giunta notizia delle sue ottave siciliane, e fra gli altri il Marini, conchiude
col dire che " delle poesie del Veneziano se ne trova smarrita la maggiorCs
e sventuratamente forse la miglior parte ,.
398 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
Idda mi dissi: Nu lu stari a fari,
Cui vasa donni è pena di la vita:
Ed eu ci dissi : Chi nni vogghiu fari ?
'Na vasatedda, poi 'n galera in vita.
E la lezione popolare modifica a questo modo :
Passai, e passannu la vitti abballari,
Cu 'na scarpetta di lucenti sita ;
Cchiìi di dui voti la vulia vasari,
Vasalla 'ntia dda vucca sapurita ;
Lu me cumpagnu mi dissi : 'un lu fari,
Cu' vasa a donni cc'è pena di vita,
lu cci rispusi : 'Na morti haju a fari ;
Pri 'na vasata cci dugnu la vita. (')
Ecco adesso una Serenata, che nella lezione
scritta dice cosi :
Si tu sapissi cu c'è ca cu mia
Ti susirissi, o ci darissi ajutu ;
Ca c'è lu servu di vussignuria,
Chiddu chi tanti tempi v' ha sirvntu.
Nun canta iddu, e fa cantari a mia,
Pri 'n essiri a lu vuci cauusciutu :
Cuntentalu, cuntentalu, vita mia,
Nun lu fari muriri, dacci ajutu.
E con lievi variazioni il popolo palermitano:
Si tu sapissi cu' è ccà cu mia
Tu scinnirissi e cci darissi aiutu :
Cck cc'è lu servu di vossignuria,
Chiddu ca tantu beni v'ha vulutu.
Nun canta iddu, fa cantari a mia,
Pri 'un essiri a la vuci canusciutu ;
Affaccia a la finestra, gioja mia,
Affaccia, ca ti dugnu lu salutu. (^)
(1) PiTRÈ, StìKÌJ ecc., pag. 192 ; Vigo, ii. 2082.
(2) PiTBÈ, StudJ ecc., pag. 196; Vigo, n. 1242. Nota che .irriv.indo
nell'Umbria l'ottava si è smezzata e contratta a questo modo: Si tu sa-
pesci chi sta accanto a méne Te levarisci e me darisci aiuto: Non canta lue
€ fa canta ta méne Pe' 'n esse da la gente ai-conosciuto (Mazzatinti, p. 189).
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 399
Non crede il Pitrè die vero autore dì queste ottave
sia il Veneziano, del quale non riconosce qui il con-
sueto stile; ma concliiude col dire, che le ba pro-
dotte il connubio della tradizione letterata e della
tradizione popolare.
L'altro Codice, illustrato dal medesimo Pitrè,
contiene oltre cinquecento ottave siciliane, alcune
delle quali di provenienza erudita, altre di imita-
zione 0 ancbe di scbietta origine popolare. Di questo
Strambotto, intanto, è evidente il nascimento aulico:
0 Din, chi pisci grossa addivintassi,
Drinta lu mari stari mi patissi!
Vinissi an marinara e mi piscassi,
E poi 'amenza la chiazza aii vindissi;
Poi la mia sigairazza m'accattassi,
E 'ntra la saa padedda mi frijssi :
Nun mi nai cariria si mi mandassi,
Basta che 'ntra la cori ci trasissi.
E il popolo, levando via il grottesco della pa-
della e della frittura: (^)
0 Dia, chi pisci d'ora addivintassi,
E 'ntra hi fanna di la mari jssi !
Vinissi un piscaturi e mi piscassi,
'Ntra 'na cartedda d'ora mi mittissi :
'N mezza la Gacciaria m'abbanniassi,
E lu mia amanti a cumprarmi vinissi:
Nun mi ni cura sidda mi mangiassi :
Basta ca 'ntra la cori mi tinissi.(^)
(1) Non altrimenti però in una lezione di Marigliano : Imbriani, Canti,
popoì. di Marigl., n. 14.
{-) Vigo, n. 506 : cfr. Molinaro, C. pop. napol., p. 280 e segg.: Amalfi.
C. p. di Sorrento, n. 40. E giacché siamo di nuovo a parlare di desiderj
amorosi, e di trasformazioni in esseri animati o inanimati, sentasi anche
quest'ottava siciliana (Vigo, n. 511), che può stare a paragone delle poesie
di consimil soggetto, di Anacreonte e del Heine: Vurria essiri fanti, e sur-
riissi Avanti li to' porti, e ti lavassi; Viirria essiri tazza, e tu vivissi /?
vivenntt vivennu ti imsassi ; Viirria essiri lettti, e tu dnrinissi Ed in linzola
ca ti cummighiassi : E n'autra grazia, figghiuzza, viirissi: Essiri gioia ca 'n
400 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
Ho poi innanzi a me tre Codici del seco-
lo XVII, appartenenti alla Biblioteca Laurenziana,
pettu ti stassi. In altro Canto siciliano (Vigo, n. 508: cfr. Avolio, n. 24:5)
ramante vorrebbe esser cuoio e diventare scarpetta cucita con lesina d'oro:
Pas,9assi la me bedda, e tii'accattassi, Sopra ddtt hiancu pedi mi mintissi,
Xun mi uni curu si mi scalpitassi. Confronta Menghiki, 221, e altra simile
Canzonetta napoletana in Mueller-Wolff, p. 242, e Kopisch, pag. 284.
In altre canzoni meridion.ili l'amante desidera esser farfalla (Guastella,
n. 95), agniddiizeit (Id.. n. 115\ pruno (v. Imbkiani, Canti popol. di Mara-
gìiano, n. 44, e cfr. Molinaro, C. p. di Meta, n. 65, C. popol. nnpol., n. 520;
Amalfi, Villanelle di S. Valentino, Tegiano, 1888, n. xxxi ecc.): Vorria
che passasse nenna mia, Pe' la gonnella la voglio afferrare. Essa se vota, e
dice: Dio mmio, 'Sta verdespina nun mine ro' lassare! Tanno te lasso a te,
nennella mmia, Quanno jamnio a la Chiesa a nce sposare. In una piemontese
(Marcoaldi, n.43) ed in una istriana (Ive, pag. 128) è espresso il voto di
diventar fazzoletto che stringa il collo; in una fabrianese e romagnola, viola
da esser posta sul cappello o sul cuore dell'amato (Marcoaldi. n. 41 ; Per-
coli, 180); in una abruzzese, pigna d'uva da esserle appesa in camera
(De Nino, III. 317); in .altra piemontese, lino da esser fìLato (Nigra, p. 578);
gallina padovana nel lucchese (Giannini, p. 230), e in Romagna (Bellucci,
Canti p. dell'agro cervese); coperta da letto in Dalmazia (Villanis, p. 45);
rondinella nell'Umbria (Mazzatinti, n. 194); in Sicilia, goccia d'acqua da
esser bevuta (Giorgi, C. p. sic, 1881, n. 4J ecc. Un canto calabrese riu-
nisce insieme i varj desideri {Calabria, VII, 27): Vorrad'essari 'rasta che
tu avissi De siipra la finestra e c'ordurassi; Vorrad'essari tazza e tu vifissi
Ed iu culli mia labbra ti vasassi; Vorrad'essari seggia, e tu sedissi Ed in
culli jinocchia ti jocassi ; Tu supra di tu liettu chi dormissi Ed iu lenzuolti
chi ti cummigghiassi. In una canzone antica recata dal Bottegari, op. cit.,
p. 131, si raccolgono pure diversi desiderj: Vorria, crudel, tornare Pianel-
letta, e poi stare Sotto a ssi piedi; ma se lo sapessi Per stratiarmi, correndo
anderessi. Ovver vorria tornare Citrangola, e poi stare A sta loggetta ; ma
se lo sapessi Per darmi morte seccarmi f aressi. E ahimi ! non so che fare!
Vorria specchio tornare Per ta^vedere ; ma se lo sajiessi, A qualche cecchia
brutta mi daressi. Meglio sarta tornare Ghiaccio, per non bruciare A cosi
forte (?) ; ma se lo sapessi, Con l'occhi ardenti, tu me desfaressi. Anche il Gol-
doni reca come serenata una consimile Canzone napoletana: Varia che
fosse ticiello e che volasse E che tu m'encapasse a la gajola, Voria che fosse
Cola e che parlasse Per cercare quattr'ova a sta figliola; Voria che fosse
viento, e che sciosciasse Per te leva de capo la rezzòla ecc. (La Mascherata,
atto li, 6j ecc. In un Canto delle colonie greche si trova (Comparetti, Saggi
di dialetti greci dell'Italia meridion., Pisa, Nistri, 1866, n. 26): Oh Dio, che
fossi io terra e tu mi calpestassi, — O veramente che ti fossi la suola! —
Oh Dio, che io fossi barile e tu mi tenessi, Acciò che andassimo al ruscello
ogni ora, — O veramente che ti fossi la vesta — Ch'io venissi ad avvolgermiti
ai piedi ecc. (cfr. Ast. Pellegrini, Il dialetto di Bova, Torino, Loescher,
1880, I, 53). E in altro di Solete (Morosi, n. 151): Cristo! ti foss'io corpet-
tino — E se no, lembo della veste, che ti sarei più giù! — E se no, ti fossi
scarpa del piede — Che sarei padrone di tutta la tua persona! — E la mat-
tina io diventassi acqua — Che laverei le belle tue carni. — Vorrei tutte queste
cose diventare, o mia padrona, — E del tuo letto diventar lenzuolo! In un
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 401
e contenenti una Scelta di canzimi siciliani, com-
posti da varij poeti cussi antichi comic muderni sici-
canto serbo (Chiudina, C. del pop. Slavo, Firenze, Cellini, 1878, II, 124)
l'amante vorrebbe esser moscerino per nascondersi nel seno dell'amata:
in altri, rumeni, legno per esser mutato in rocca da filare e starle ap-
poggiato al seno (Picot, Dociim.pour les dialectes roiimains,p. 4:2). In Abis-
sinia si canta: Vorrei essere il tief per sdraiarmi nel tuo granaio, Vorrei
che tua sorella tìii mondasse. La tua serva mi macinasse, Tua madre mi
facesse pane E tu mi mangiassi , per istarti nel ventre (Martini, Nell'Africa
italiana, Milano, Treves, 1891, p. 125).
Ma il più lepido desiderio di trasformazione è quello espresso in
parecclii altri Canti popolari. Quel bizzarro ingegno di Vittorio Imbriani
scrisse un Saggio di zoologia letteraria, ossia la l'ulve considerata lettera-
riamente (Catanzaro, Tip. Orfanotrofio, 1875), dove stanno raccolti molti
passi di autori dotti e indotti sull'audace e noiosa bestiola; tra i quali
due Canti popolari al pulece fortunato, invidiandone la sorte. Uno cosi con-
cliiude : E te ba' minti 'nfra le minne soi, Fizzechi e suchi e nu' furnisci
mai! Fallu pe' l'arma de li mtierti tot! Portanci puru a mmie quandu nei
'aij! E l'altro : Si rici ca lu polce nu' iè bello. Ma i' rico ca iè bello e ben
criato. La notla ssi ni stai cu' la zita, Ca nun ci stavo i', lu sfurtunatu!
Altri se ne potrebbe soggiungere : cominciando da una Villanella alla sici-
liana, antica (v. Kovati, per nozze D'Ancona-Orvieto, Bergamo, 1897): Mi
vorria trasformare, o faccia bella. In quell'animaluccio, che, saltando. Va per
lo letto sempre mozzicando , E pjiano piano quando dorme il giorno, Me ne
vorria venire a contemplare L'angeliche bellezze tue si rare. Ma aggio paura
che, se ti toccassi, Sto bianco petto te mozzicheria Di sorte certo che ti sve-
glieria. Dimmi, crudele, se tu ti svegliassi, E mi pigliasse con se mani toi,
Se morte o vita ine donassi poi; che è, con varia lezione, anche nel cit. Libro
di Canto e Liuto del Bottegari, p. 103. Venendo a canti raccolti ai dì nostri
notiamo uno di Modica (Guastella, n. 118): Pulici fussi! Di ssa cammi-
sedda Trasissi e 'scissi cu lu me piaciri ! Oh Ddiu, ca muzzicassi ssa min-
nedda, 'Mmienzu l'ugniddi to vurì-ia miiriri! In un canto abruzzese (FlNA-
MORE, II, p. 93) l'amante cos'i trasformato vorrebbe Vendicarsi: l'e' ite
vurrébbie póc-i- arrivendare. Tè ddàrete la péne che ttu me daje, Bbella, tuttu
ju juorne ti turmendare, Doppe, la notte, te darre cchiii gguaje, Dentr'a la
'recchie ti vurrì trasire, Vjie pe' 'ngapparmi e ttu nem buteraje. Si ppe' sorte,
bbella mije, me 'ngappate. Avete cumbassione, no' m'ammazzate. In un altro
di Borgetto Salomone-Marino, n. 102) è l'amata che punta dall'importuno
animale, esclama: Stu purci fussi un picciuteddu schettu! Cci avissì a duri
tanti muzzicuna Quanta nni duna a mia stu purci 'mpettu! Nelle Marcile
(GiANANDREA, pag. 173); Chi dice chela pulce n'è. pulita? Io dico ch'i pulita
e delicata; La fa sempre la vita d'eremita , E sta ne' boschettini rinserrala.
In Toscana : E se potessi far come la puce Passar vorrei una notte felice, A
letto vorrei andar con chi mi piace. A Venezia (Beenoni, punt. VI, n. 46 :
cfr. IvE, p. 129 e Garlato, p. 338): Vorave esser un pulesin d' istae Per
darghe spasso a la mia cara Xina; Per darghe quatrocento becolae Su quela
carne bianca e molesina. O anche (Gablato, p. 313) : Sta note, cinema mia,
su' sta' al to leto, Ti geri, sangue mia, che ti dormevi, Ti gerì descoverto el
bianco peto. Un amolo del del ti me parevi; E ti gavevi un pulexe int' el
peto. Che ti magnava el sangue de le vene. Che gran piacere avea quel bestio-
D'Ancona, La poesia pop. ital. — 26
402 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
liani. (^) Qui trovo ottave amatorie di autori, che non
appartengono certo al volgo, né per lui poetarono,
ma vollero imitarne i Canti, sollevando anch'essi,
come vedemmo aver detto il cantor dell'Aminta, le
zampogna rusticane alla dignità delle dotte lire. (^)
In questi componimenti, dei quali non sarà forse
discaro l'aver un saggio, si congiungono insieme due
maniere che parrebbero assai disformi tra loro; un
andamento facile di versificazione, una modulazione
scorrevole e piana ; ed insieme una lambiccatura di
leto A reposare su quel bianco pelo! Chiuderò questa lunga nota con due
Canti letteraij formati sui popoLari, e contenenti i medesimi sensi. Kel Cod.
Mediceo-Laurenziano 97, 2", del quale or ora diremo, trovo due ottave alla
pulce : a pag. 6 e 45. La prima dice cosi : Palici ingratu, cruda mia rivali,
Ch' ingurdu arzuchi lu chiù meghiu umuri, Cu Cupido e cu mia t'hai fatta
eguali, Ch'offendi e gusti li hilizzi puri ; Ma chiù tosto mi criu di' in ani-
mali Cangiata Giovi si' pr' estrema arduri, E com'è usanza tua per mia gran
mali Mi ruhbirai quanta mi desi Atnuri. E l'altra conclude : per gustari
l'animata nivi Sutta la spogghia tua s'ammuccia Amuri. Vedine anche una
riduzione letteraria nelle Villanelle alla napoletana, del sec. XVI, edite dal
Menghini, nella Zeitschr. h. roman. philol., XVI, 4115.
i}) Cos"i leggesi in fronte al cod. Mediceo-Palatino 97, 1", che è un bel
voi. di pagg. 207, scritto con tutta eleganza, iniziali dorate, nomi di autori
tutti ad oro, e bei fregi calligrafici. Al cod. 97, 2 manca il frontespizio, e
fors'anche qualche foglio in fondo. Le ottave vi sono tutte senza nome di
autore, ed ha pagg. 188. Il cod. segnato 96, con frontespizio, tavola di au-
tori ed indice, è di 190 pagg. Ogni pag. nei tre codd. contiene due ottave,
salvo quando, nel primo e terzo codice, ricorra il nome dell'autore. I tre
codd. sono minutamente descritti dal Bandini, nel Catalogo Laurenziano,
Supplem., voi. II, p.ag. 269 e segg,
(-) Gli autori del cod. 97, io sono : Antoniu Vinitianu, Binidittu
Maia, Dos Carlu Ficalora, Filippu Paruta, D. Filippu Triolu, Ga-
brieli CiciRU, Giovanni Giuffrè, Giuseppi Galianu, Giuseppi Maureddu,
Giuseppi Scimeca, Jaiupu Marchisi, Jacupu Rumanu, D. Liuni Rusfelli,
D. Mariu Mighiazzu, Micheli Mukaschinu, Natalizio Buscelli, Ottaviu
PUTINZANU, D. PeTRU InTERISANU, TlBIOLU BENFARI, D. VlNCENZU VaLGUAR-
nera. Gli autori del Cod. 96 sono : Antoniu Veneziànu, Bartolumeu
D'AsMUNDu, Binidittu Maia, D. Carlo Ficalora, F. D. Cesaru Gravina,
Filippu Paruta, Franciscu Platamuni, Filippu Triolu, Giovanni Giuf-
frè, NiccoLA RizzARi, Giuseppi Durazzu, Giuseppi Scimeca, Gabrieli Ci-
ciru, Giuseppi Galianu, Giuseppi Moreddu, D. Jacupu Marchisi, Jacupu
Moreddu, D. Jacupu Bomanu, D. Liuni Russelli, Micheli Moraschinu,
D. Mariu Mischiazzu, Nataliziu Buscelli baruni di Sera valli. Ottaviu
POTENZANU, PeTRU LA DuNZELLA, D. PeTRU InTELISANU, TuBIOLU BENFARI,
D. ViNCENZu La Farina baruni d'Aspramunti, D. Vincenzo Valguarnera,
AUTUKI DIVERSI.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 403
concetti, una qnintessenziatastillaturadi sentimenti,
che ben ricordano le pazzie del Secento. Eppure
l'unione delle due maniere è così sostanziale ed in-
tima, che ben mostrano come il tipo della poesia
popolare assai spesso si accosti più all'artifizio, che
non alla semplicità e nudità delle forme. Ecco un'ot-
tava che il Codice ascrive al Veneziano:
Mi cluni ogn' luna morti duci e amena
Cu l'attrattivi toi modi ed infidi ;
Si canti, si' gratissima Sirena,
Si chiangi, un cucudrillu chi m'aucidi : (')
Si xhiati, di pantèra è la tua lena,
Si guardi, un basiliscu all'occhi annidi :
E tuttu è nenti ; sai ch'è la mia pena ?
Chi mi vidi muriri e nun mi cridi. (^)
Questo va col nome di Filippo Paruta :
Già chi pri gilusia d'aspra fìrita
M'offendi, ingrata, cu li manu toi,
E tuttavia la Morti mi cunvita
A dari effettu a quantu brami e voi,
Ogni ria vogghia tua sarrà cumplita,
E scrivirassi a lu sepulcru poi :
A stu mischinu ci livau la vita
Chilla ch'amava chiù di l'occhi soi. (^)
(1) Cfr. Vigo, n. 2935 :
Lu cuncutriggliiu è un aspiru sirpenti,
Nesci di Tacqua quannu all'omu viri.
Gei joca, cci fa milli cumprimenti
Pri fina a tantu ca lu veni aciri ecc.:
Vedi anche Pitkè, Centuria, n. 40 :
Lu curcutrillu quandu all'omu vidi
Nesci di l'acqua
Prima m'ammazzi e poi mi veni a vidi;
Tu si ladra di cori scanuscenti.
(2) Cod. 97, 1", pag. 11. Si trova infatti nelle Opere del Veneziano,
pag. 8, n. 18.
(3) Id., pag. 35.
404 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
Immagini ben degne del secolo XVII trovansi in
questo di Filippo Triolo:
Templu su fattu, chi di marniu eletta
Di pura fidi Iiaju colonni e mura ;
Supra l'autaru di hi propria patta
La tua billizza, idulu iiiiu, s'onura:
Ogni putenzia a hi divina oggetta
Di l'occhi toi resta abbagghiata e oscura;
Trema la voluntati, e l'intellettu
Nun ti putendu iiitendiri, t'adura. (')
Ma privo di gonfiezze è quest'altro :
Fammi chillu chi voi, chillu chi sai,
Bella crudili, avara ed incustanti ;
Penza, ripenza a turmentarmi ormai,
Machina novi riti e novi incanti :
Cli' iu su' 'mparatu a quant' Amuri ha guai,
E quant' ha Cìilusia terruri e scanti;
E si sapi cli'un tempu, o poca o assai,
Fusti mia, histi amata, e fusti amanti. (^)
Gabriele Cicero canta in queste due ottave l'an-
siosa aspettazione dell'amata :
Aspetta, aspetta e mai nun veni Tura
Tantu aspittata di vidiri a tia,
E hi cori trimandu di pagura
Ti chiama e dici : Veni, anima mia.
Tu si ti stimulassi per vintura
L'obbligu, a clii ti stringi curtisia.
Veni, e cliiii nun ci mettiri dimura,
Ch'un punta è milli seculi per mia.
Lassù la vita, gioia, sì, iu ti lassù,
E l'ossa stanchi a hi tabbutu portu ;
Su divintati li mei carni un tassu,
Fatt'è hi visu miu pallida e smorto ;
Lu spirtu m'abbanduna passu passu,
L'alma nun ha lu solitu cunfortu:
(1) Cod. 97, 10, pag. 40.
(2) Id., pag. 42.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 405
E stisu e fridilu avanti eh' iu trapassu,
Vita mia, vieni e chianginii pri niortu.
Questo è di lamento :
Pi' undi nuiusu diizzii li mei passi,
In munti o in scoggliiu sulitariu e duru,
Lu celu intornu tenebrasti fassi,
Siccu la terra, e l'acqua e l'aria indura;
Muta lu venta a li mei vuci stassi,
E chiancinu a stu chianta niuru e scura
L'arsi, li tigri, l'aspidi e li sassi;
E tu morta mi voi, pirclù t'aduru. (')
Della maniera poetica di Giuseppe Galiani ser-
vano per saggio queste tre ottave :
Fammi strazzij a tua posta, e sdegni ed iri.
Dubbia una pena all'autra pena unita,
Ch'eternamenti in mia purrai vidiri
La tua cilesti imagini sculpita ;
È risuluta insumma o di muriri
0 di placar! a tia st'anima ardita ;
Ha nicissariamenti di finiri
O la tua crudeltati o la mia vita.
Vidirò, vidirò farsi d'argenta
La vlunda trizza, e l'aurea luci oscura;
Si l'arti ti darrà qualch'ornamentu,
Presta lu guastirà tempu e natura ;
Com'un lampu sparisci e com'un venta,
Cosa bella tra nui passa e nun dura;
Sulu ti ristirà stu pentimentu,
Chi quandu tu vurrai nun sarrà Tura.
Vurria, ma nun si po' cosa truvari
Ch' iu la cumpara a vui, cara mia beni ;
Su' immensi, ma nun ponnu apparaggiari
A li vostri billizzi, li mei peni ;
C'è manca stelli in celu e rina in mari, (^)
Di quantu grazij Amuri a vui manteni ;
(1) Cod. 97, 10, pag. 51, 54, 67.
(-) Tigri, Storn. n. 3: Di' quante stelle è in cielo e pesci in mare.
406 LA POESIA POPOLARE ITALL\NA.
A vui sula vi pozzu assumiggliiari,
Ch'autru assimigghiu (') a vui nun si convenì.(^)
Altri tre ne daremo di Giuseppe Scimeca :
Di li miserj mei, di li mei guai
Primaria causa, idulu miu supernu,
lu binidicH l'uva, chi pruvai
Per vui beatu l'amurusu infernu;
E cuntimplandu li vostr'alnii rai
In illi tanta maestà discernu,
Ch'ardiscia diri, chi uun fici mai
Chili bell'opra di vui lu Mastru eternu.
Torna, o miu cori, volgi la pedata,
La via pr' undi camini è fausa e storta;
Nun vidi, ohimè, chi l'amurusa strata
A qualchi gran ruina ti trasporta?
L'alba a li amuri toi iiascìu turbata,
Lu Sali ti mostrau la facci smorta;
La notti di sta tua iiiura jurnata
Oh chi noja, oh chi tenebri t'apporta!
Chilla chi d'ogni libertà mi spogghia,
Fatta pietusa di lu miu rispettu.
Yucca a vucca, alma ad alma e vogghia a vogghia
Eccu unisci cu mia, culma d'aifettu;
O ceca Din, chi la mia longa dogghia
Termini cu l'estremu to dilettu,
Prima chi sta unioni si disciogghia,
Fa chi l'alma si sciogghia di sta pettu. (^)
Eccone ancora una diecina presi qua e là :
(1) Tigri, n. 76: Di voi non ho trovato il rassomiglia. Ili n. 239: Di voi
non ho trovalo l'assomigliu. \\ Canto n. 1352 del Vioo: Forti lu rassumigghiu
di la luna. E il Veneziano: Furrò laudarmi cchih d'un to assimigghiu Chi
ditia stessa (ediz., cit.. pag. 40, n. 2.38): Fri putirisi beddu dimustrari Qualchi
vostru assimigghiu pigghiria (Id., pag. 54, n. 2SS) ; E lu siili e la luna e ogni
pianeta Qualche assimigghiu pigghianu di Ha (Id., pag. 81, n. 207); E dicimi:
Vi', chistu }■ un assimigghiu (Id., pag. 100, n. 437). Il vocabolo del Canto
toscano è dunque vorisimilmente dedotto dal dialetto e dai Canti sici-
liani.
(2) Id., pag. 82, 88, 91.
(3) Id., pag. 122, 123, 132.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 407
Mentre t'armi di silegmi e d'oddiu ardenti
Ed a guerra murtali mi disfidi,
S'iii moni aniandu, avanza apertamenti
La tua gran tirannia la mia gran fidi;
Sazziati, ingrata, di li mei turmenti.
Di l'arsu pettu miu l'alma dividi,
Ch'iu sarrò sempri d'ardiri cuntenti,
Ed è gran gloria mia si tu m'aucidi. (')
Ed è lu duru e rigida diamanti,
E puru cosa c'è chi lu pò sfari ;
Ed è la petra. e li gatti stillanti
La vennu cu lu tempu a cunsumari;
Cussi spera iu chi di poi tanti e tanti
Sparsi ogn' ura pir vai lagrinii amari,
Lu vostra cori immobili e custanti
Si vegna in qualchi moda a rimnddari. (-)
Luntanu di lu Soli miu superna,
Umbra di morti mi cingi e circunda,
Ed un crudili e tempestusu invernu
D'amara chiantu 1' umid'occhiu abbunda :
Talchi sta petto è fatta n'autr' infernu,
Abbrusciandu di focu 'nmenzu l'unda,
Chi benclù è violenti, è para eternu,
E pirclii è vostra, la xliiamnia è giacunda. (')
Mai, donna, sintirai chi ti tradiu,
O chi l'antica amanti ti lassaa ;
E si nun m'ami tu, dunca voggh' iu
Amari ad autru ? Amari s' ingannau.
Vogghia chi scrivi a lu sipulcru miu
Di chillu sangu chi di mia ristan :
Fidili morsi e fidili muriu
L'amanti chi di fidi mai mancau. {*)
Nan chiù sdegna, alma mia, facemu paci,
Apri ormai di pietà li chiusi porti :
Chi troppa fora modu si' tenaci.
Troppa ostinata in farmi strazj e torti :
(1) Del RusFELLi, pag. 145.
(2) Del MiGLiAzzo, pag. 152.
(3) Del Maraschino, pag. 167,
{*) Del POTEXZANO, pag. 183.
408 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
Ma si di turmeutarmi ti cumplaci,
Vaga di la mia niura ultima sorti,
Di muriri per tia min mi dispiaci,
Puru cli'un sguardu to mi diigna morti. (')
Si pir vi^i m'ardii in amnrusu gioca,
E si lu cori a vui sacrificai,
Perchì quandii lu vostra aiuta invoca,
In mia sdignusi girati ssi rai ?
0 ceca nun viditi hi miu foca,
O cruda nan criditi li mei guai ;
0 li meriti mei su troppu pocu,
0 la vostra durizza è troppu assai. (^)
Nun ha cori 1' ingrata, per cui spinni.
Cori mia, né ti giuva lacrimari ;
Non l'ha di petra no, ch'ancora vinni
Una petra a hi chianta a rimudari.
S'ardèru l'aspri Amazuni li minni
Per putiri chiù meghiu saittari :
Ma sta tiranna cu ingrati disinni
Lu cori si scippau per non amari. (^)
Nun mi punginu chiù li toi saitti,
Lu focu di stu pettu s' inielaa :
Sugna arrivati! a gradu chi mai critti :
Sdegnu di la catina mi levau :
E si ben tardu di tia mind'avvitti,
Poichì sacciii la causa e cui culpau,
L'occhi mi cechiiìa perchì ti vitti,
E scippirìa stu cori chi t'amau. C)
Ognuno vede come questi repertori, (^) diffon-
dendosi a stampa o in iscritto, possano aver servito
(') Dell' Interisano. pag. 157.
(2) Cod. 97, 2, pag. 25.
(3) Id., pag. 57. Kel cod. 96, pag. 13, va sotto il nome del Veneziano,
con queste varianti : v. 3 chi punì si vinni — 4 per chianti — 5 Si scip-
paru V — 1 fausi. E nell'edizione del Veneziano, pag. 91, n. 227 : v. \ i>ri
— 2 Juva — 3 Xè chi puru — i petra lu .. .ai-rimuddari — 5 S'arsirti —
6 Pri . . .megghiu — 7 E sta . . . fausi — S pri.
(4) Id., pag. 87.
(■'>; Di altre consimili Raccolte dei sec. XVI, XVII. XVIII lianno dato
ragguaglio il prof. Salo.monk-Makino in Arch. tradii, popul., I, 345 segg. o
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 409
a mantenere, concordemente alla tradizione orale,
la memoria della forma poetica e della foggia di
versificazione paesana; e alle improvvisazioni po-
polari, coll'esempio della nobiltà e sostenutezza dei
concetti e delle rime, abbiano fatto serbare certa
gravità d'indole, che nella poesia dei volghi non si
potrebbe a ragione pretendere.
Pei Canti delle Provincie meridionali larga
messe di raffronti offrono pure alcune Raccolte, ripe-
tutamente stampate in libercoli ad uso del popolo.
L'Avallone di Napoli è per cotesta parte d'Italia
ciò che furono per il Veneto il Cordella di Venezia,
per la Toscana il Marescandoli, il Bertini e il Ba-
roni di Lucca, per la Romagna la Tipografia bolo-
gnese alla Colomba: officine dalle quali uscirono in-
numerevoli opuscoli, la più parte logorati e dispersi
al di d'oggi, che mantennero nei volghi la tradizione
della maniera letteraria e insieme della versificazione
popolare. Io ho dinanzi a me cinque di queste Rac-
colte contenenti varie Canzoni di amore, di gelosia,
di sdegno, di pace e di partenza, secondo la divisione
popolare degli affetti:
Quattru snnu li peni di stu munnu :
Amuri, gilusia, spavtenza e sdegna. (')
Aggiungansi due altre categorie, non indicate nei
frontespizj, ma date come titolo ad altri gruppi : di
lontananza, cioè, e di dispetto, e si avranno tutte le
possibili forme nelle quali si manifesta il sentimento
amoroso nei Canti del popolo.
il prof. G. Oliva neìVArch. stoi: messinese, V (1904), e in ambedue queste
interessanti pubblicazioni v"è da largamente spigolare.
(1) Vigo, n. 1031. Altrove il primo verso varia, avuto riguardo alla
natura dei canti: Cantami qiiantii voi ca t'ayrisxninnn D'anutri ecc. (Vigo,
n. 1182; PiTEÌ;, C. popol. sicil., I, pag. 183).
410 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
Questi componimenti, tutti in ottava siciliana o
letteraria, furono dall'Imbriani ampiamente adope-
rati nelle illustrazioni ai suoi Canti delie provhicie
Diericìionali, e noi ci gioveremo delle sue fatiche,
aggiungendo qualche altra indicazione che potesse
essergli sfuggita. E ci sarà probabilmente ancora
qualch'altra cosa da spigolare. I raffronti sono per la
massima parte con poesie popolari del mezzogiorno:
pur tuttavia è evidente che questi libercoli o nelle
stampe napoletane o in altre ristampe non sono ignoti
alle plebi di altre provincie. Della quarta Raccolta,
ad esempio, possediamo una ristampa colla falsa
data di Napoli 1852: falsa diciamo, perchè i carat-
teri e la carta non rassomigliano punto a quelli na-
poletani, ma invece si conformano interamente alle
stampe popolari di Todi o di Roma. Nulla sapremmo
dire quanto all'antichità di queste Raccolte : l'edi-
zione che abbiamo sott'occhi è senza data, ma colla
indicazione di undecima ; tuttavia la stampa che di-
remmo umbra o romana, è datata dell'anno 1852, e
si dà per ottava edizione. Si potrebbe dunque credere,
se questa riproduce esattamente un frontespizio na-
poletano, come in altri casi assai sappiamo essere
avvenuto, che prima del '52 a Napoli già le Raccolte
si erano stampate otto volte, e tre altre poi prima
di giungere a quella che consultiamo: sicché innanzi
alla data riferita si avrebbero altre sette stampe da
distribuire in un numero di anni, che giudicando
dal poco tempo che separa l'ottava edizione dall'un-
decima, non potrebbe esser soverchio. Or dunque,
tutto induce a supporre che la prima pubblicazione
di queste Raccolte possa protrarsi soltanto fino ai
principj del sec. XIX o agli ultimi tempi del XVIII:
ma io le direi ancor piìi antiche.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 411
Sia di ciò che si voglia, cominciamo i nostri
raffronti. Rechiamo tale e quale la lezione delle
Raccolte napoletane, sebbene spesso assai errata per
ignoranza dei tipografi o insufficenza di correttori,
notando tuttavia le ommissioni o aggiunzioni di let-
tere 0 sillabe, con parentesi quadre le prime, con
tonde le altre : e cominciamo dal primo florilegio,
dove subito troviamo questa ottava:
Tu piangi, amato ben[e], io mi lamento,
Tu con lagrime agli occhi, ed io col pianto;
Tu afflitta te ne stai, ed io scontento,
Tu brami di vedermi, io starti accanto:
Tu ferita dal dnol (ed), io dal tormento.
Tu ferita d'amor[e], io dall' incanto :
Tu ferita d'affetto, ed io d'ardore:
Tu nell'alma patisci, ed io nel cuore.
La loquacità di questo Canto è tale che ninno si ne-
gherà di vedervi una primitiva forma letteraria, dalla
quale proviene per successiva traduzione questa ot-
tava della Calabria citeriore:
Tu chiangi, amata bene, iu mi lamientu,
Tu cu lacrimi a l'uocclii, ed iu cu cliiantu ;
Tu afflitta ti ni stai, ed iu scuntentu.
Tu brami di vidirmi, iu starti accantu :
Tu ferita di duolo, iu di turmientn,
Tu ferita d'amure, iu da l' incantu :
Tu ferita d'affiettu, ed iu d'ardore,
Tu all'anima patisci, ed iu nel core. C)
La terza ottava, nella forma letteraria, è questa:
Bella, come io potrò di voi scordarmi,
Se in voi ho riposto ogni mio bene?
Come potrò (io) di voi dimenticarmi,
Se l'alma mia la tua beltà mantiene?
(1) Pubbl. da C. Arlia nel Passatempo, giornale torinese del 1865.
anno II, n. 20. Cfr. Mandalari, p. 400; Molinaro Del Chiaeo, C. poj). di
Terra d'Otranto, in Arch. trad. pop., Ili, 286, n. 47.
412 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
Tu di lasciare a me difRcil parmi,
Io di lasciare a te non mi conviene :
Giuro se giu[re]rai di non lasciarmi
Di baciare [e] abbracciar(e) le mie catene. {')
In Terra di Lavoro cantasi cosi :
Gomme potrei di vuje scordarmi mai?
Sopra di vuje ho posto lo mmio bene :
Gomme potrei di vuje dimenticarmi"?
Lu core mmio sse sta sempre cu' tene !
Tu ppe' lasciarmi difficile mme pare,
10 ppe' lasciarvi a vuje non mme convene;
Se mme 'mprometti non lasciarmi mai,
Ti abbraccio e baciarrò le tue catene. (-)
Segue un Canto comunissimo, che già abbiamo
recato addietro, ('^) e del quale, a causa delle rime,
ci parve dover assegnare l'anteriorità alla forma si-
cula sulla toscana. La lezione aulica sarebbe questa:
Quando nascesti tu, fior(e) di bellezza,
11 sole ti donò il suo splendore:
La luna ti donò la sua chiarezza,
La rosa ti cede tutto il suo odore ;
Venere ti donò la sua bellezza.
Cupido t'insegnò a far l'amore;
Il ferro pose in te la sua fortezza ;
Ed io, tuo amante, ti dono il mio cuore.
Anche qui le rime corrispondono perfettamente: re-
sta a sapersi quale delle due forme, la siciliana o la
letteraria, sia l'anteriore: ma ciò meglio potrà con-
getturarsi, quando avremo finiti questi ragguagli di
lezioni plebee ed auliche.
Del seguente è passato in qualche luogo al po-
polo il tetrastico, più l'ultimo verso:
(1) Una lezione alquanto diversa ò nella Race, terza.
('■') Imbriani, C. popol. pror. tneridion., I, 256.
(3) V. pag. 2G3.
LA POESlii. POPOLAKE ITALIANA, 413
Carta felice, tu vai a trovare
Quelle mani gentil dell' idol mio :
Ora vorrei con te sorte cambiare,
Che carta come te diventass' (anch') io.
Le mani sue gentil vorrei baciare,
E nel baciarle ognor, che gioja, oh Dio !
E giacché così vuol la sorte ria,
Carta, baciale tu da parte mia.
Ecco infatti quanto n'è restato in Terra d'Otranto :
Carte felice, o te che vai a tuccare
Le beddhe mane de ninnella mmia.
Ora vurrìa cu' tie sciorta cangiare !
Carta, comu a te, vul'ia esse iu.
Ma la sciorte nu' volo e già nu' sia!
Carta, baciale tu pi' amore mmiu ; (^)
ma in Abruzzo si è conservato intero di otto versi:
Carta felicia, te mann'a ttruvare
Lle mane gendile de la bbella mije.
Ji' vurreje che tté sorta cambiare
E ccarta come tté devandésse jije,
Le mane tue ggendile vurreje bbasciare,
'Ne lle bbasciare ogn'ore, ggioj', addije.
E ggia celie ccuseì vvo' la sorta mije,
Carta, bbascele tu dda parta mije. ('^)
Anche in quest'altro caso si è perduta parte della
lezione aulica :
Deh non lasciarmi, no, beli' idol mio ;
Di chi mi fiderò, se tu m'inganni?
Di vita mancherei nel dirti addio,
Che viver non potrei in tanti affanni.
Ricordati, ben mio, che tuo son io
E che te sola amai ne' miei prim'anni ;
Che se lasciar mi vuoi in abbandono.
Uccidimi se puoi, eh' io ti perdono. (^)
(1) Imbriani, C. pop. prov. meridion., II, IS: cfr. Mandalaei, p. 207.
C^) FlNAMORE, II, n. 290.
(3) Un'altra lezione contenuta nella Raccolta seconda varia i cinque
ultimi versi.
414 LA POESIA POPOLARE ITALL^^NA.
Che a Nardo in Terra d'Otranto dicesi in questa
forma :
Ah nu' lasciarmi no, bell'idul mmiu ;
Di chi mme fiderò ci tu mme 'nganui?
De 'ita mancherò nel dirti : Addili !
Vivere nu' potrò fra tant'affanni.
Cangia, cangia pinsieri, cangia disire.
Ci morta nu' mme'uei nel fior degli anni. (^)
Artificioso, ma popolare in più regioni, è il se-
guente :
Mi voglio faro un manto di finocchi,
E di finocchi il cappuccio [vo'] fare:
Lo voglio fare fino alle ginocchia, (^)
E di finocchi lo vofglio) foderare :
E mentre sono aperti sti miei occhi,
Sempre finocchi voglio seminare,
Acciò che seminando assai finocchi
Qualche donna potessi infinocchiare. (^)
(1) Imbkiani, C. popol. proi: meridion., I, 294.
(2) Correggi : alli ginocchi.
(3) Questa immagine del finocchio è anche in uno Strambotto del cod.
Palat. 228, pag. aO, che ha assai del popolare :
Tu m'amerai se ti schizzasse gli occhi,
Tu m'amerai se ti crepasse '1 core,
Tu m'amerai ancor pien di pidocchi.
Tu m'amerai d'i e notte a tutte l'ore,
Tu m'amerai se ti darò finocchi,
Tu m'amerai pur con perfetto amore,
Tu m'amerai con fermo e gran disio.
Tu m'amerai ancor che non voglia io.
Molto più artificioso ed infelice, è questo di un cod. udinese datato del 1470;
Deh non m'infinocchiar più di finocchi,
Ch'io son finocchio e finocchiar so altrui:
Tal di finocchi par che mi finocchi
Che di finocchi 1' infino>.'chio lui :
Se di finocchi infinocchiar mi vuoi
Or m'infinocchia con finocchi tuoi;
Finocchio son, finocchio fui
Finocchio sono per finocchiare altrui.
(V. Joppi, Rime amorose del sec. XV, per nozze Fresclii-Perugini, Udine,
1879, n. XVI).
LA POESIA POPOLARE ITALIA^'A. 415
Che a Caballino dice cosi :
Mm'aggiu fare 'iia cappa de feiiucchi,
E de fenucchi lu cappucciu fare ;
Mine Taggiu fare fina agli scenucclii,
E de fenucchi l'aggiii fiiderare ;
Ca mo' mme' nd' 'iau 'ddliu' nascenu li mucchi
Sempre finucchi "ogghiu semnienare:
E tanti nd'aggiu cogghere a mannucchi,
Quarchedunu cu pozzu 'nfenucchiare. (')
Lo abbiamo anche in dialetto siciliano, ma il sapore
letterario vi è sempre, se anche la originaria lezione
sia l'isolana :
Vurria fari l'amanti di {inocchia,
E di finocchiu 'nu mantedhu fari ;
Mi l'haju a fari sinu a lu dinocchiu,
E di finocchiu 1' haju a foderari ;
E finu a tanta ca mi resta un oitchiu,
Sempi finocchi vogghiu siminari ;
E siminannu finocchiu finocchiu
A quarcheduna 1' haiu a infinucchiari. (^)
(') Imbeiaxi, C. pcipol. jììov. iiieridio»., U, 202. Vedi pure ivi una le-
zione di Bagnoli Irpino, dove questo è innestato in altro Canto, e dice così,
ritenendo i vv. 1-2, 5-6 dell'ottava:
Mm'aggio de fa' 'no manto di fenuccliio,
Di fenucchio lo voglio 'nfoderare:
Mentre che stanno aperti 'sti mniie occhi
Senpe finucchio voglio semeuare.
Vedi la lezione abruzzese in Finamoee, li, n. 471, e la napoletana in Mo-
LiNARO, n. 316. E un Canto istriano (Ive, pag. 175) :
Vago cercando marassa e fenuoci.
Per vulire oùna polita infenueiare ;
Vurave infenuciala infeìna 'i ucci :
Vago ^'ereando marassa e fenuoci.
E uno ferrarese (Ferraeo, pag. 43) :
Kusina bela, t'ho purtà un finocio,
(2) Vigo, n. 4230. 11 Capuana, lo attribuisce a Mario Tichi: Poesie in
dialetto sicil. di P. Maura e d'altri ecc., p. 131. Menzione del simbolico fi-
nocchio è anche in questo Canto veneziano (Bernoni, punt. IV, n. 36) :
Mi vago in orto a semenar fenoei,
Alzo la testa e vedo do bei oci;
416 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
Né meno artificioso e degno di un secentista è
quest'altro :
Una notte (mi) sognai ch'eravani(o) morti,
Eravam(o) morti insieme, anima mia;
Li medici valenti e molto accorti,
Sopra di noi face(v)ano anatomia ;
Coi loro ferri tanto acuti e forti
Squarciarono i petti a me e tia :
Tutti restaron(o) sbigottiti e morti,
Che a te trovar(ono) due cori, e niente a mia.
Queste forme di tia e mia accusano uua derivazione
sicula, restando tuttavia aulica e non plebea la ma-
niera. Infatti, ecco come cantasi in Sicilia :
Sta notti mi sunnai ch'eramu morti,
Eramu morti 'nsemi, armuzza mia:
Li medici e chirurici ccliiù accorti
Vulenu di nui fari anatnmia .
Ccu armi e ferri valurusi e forti
Ni spaccaru hi pettu a mia e tia,
Ed arristaru sbauttuti e morti
Truvannu a tia du' cori, e nenti a mia. (')
Sti do bei oci tanto me vardava,
Che dei fenoci me desmentegava.
Fenocio, fenocin e fcnoceto,
Go dà fenocio a clii m'ìi infenociato :
Fenocin, fenocin e fenocelo,
Go dà fenocio a quel viso belo.
E cosi pure in questo Rispetto antico (pubbl. da S. Ferrari per nozze Bas-
sini-Cherubini, 1895, pag. 22) :
Un giorno clie coglievo i finocchini
Mi disse l'amor mio : Bella che fai ?
Tu mi tolghi la vita e m'assassini
E quanto pato più, men pietà n'hai.
Gli risposi al secondo: 0 ch'io arrapini,
S'io t'ho mai tolto vita e dato guai;
E quant'al primo, so tu avessi gli occhi,
Vedressi che qui colgo de' finocchi,
(1) Vigo. n. 1108 in not.a. Cfr. Salomone-Marino, n. .S17 e Fiori Sei-
valici, n. 34. Una lezione calabrese è nel /'flf6'S(ì/e/»po, loc. cit., pag. 231, che
però mostra venire dalla l'orma a stampa: e notisi la cosa perchè è di rilievo
Infatti il V. 3 dice: Li mieiìici valenti ed assai accorti — 4 ISupra di nuificirii
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 417
Fu dallo Strambotto tolto il Sonetto che segue, del
principe Federico Napoli di Resuttano, arcipastore
degli Ereini, o, come vorrebbe il Guastella, (^) su
d'esso si fece il componimento popolare? Non sap-
piamo decidere il dubbio, e riferiamo il Sonetto :
Non appariva ancora il primo albore
Ed io sognai di te, Fillide mia :
Sognai che tu morivi, e pel dolore
Dell'acerba tua morte, anch' io moria.
Quindi de' nostri al querulo clamore
Dei medici la turba a noi venia,
E ad esplorare il nostro rio malore
Ordinò di noi due l'anatomia.
Fra lo stuolo presente al caso amaro
Due soli furo a la mest'opra eletti,
Che osservar nostri membri uno per uno.
Ma in veggendo al di dentro i nostri petti,
Fuor di se stessi e attoniti restaro.
Che in te vider due cori, e in me nessuno.
Certo è che questo concetto fu girato e rigirato dai
poeti siciliani e fatto proprio dal popolo: a volte poi
non è un sogno, ma una deliberazione di amore,
come in quest'ottava della Celia di Antonio Vene-
ziano:
anatomia — h E cu li fierri assai taglienti e forti — 8 Ca a tia tnivarii due
cori e nienti a mia. Probabilmente dalla stessa fonte stampata proviene la
lezione di Curinga, prov. di Catanzaro, citata dal Lumini nellopiisc. del
quale or ora faremo cenno, a pag. 11. Notisi, per ultimo, che se ne lia una
parafrasi sarda (v. Salomone-Marino, in not. al loc. cit.):
Mi faghent notomia
Osservant chi su coro non giughia.
Si ponent in consulta
Subra de unu fattu tant'oscuru :
Finalmente risulta
De fagher notomia a tie puru.
Ed abberint sos poros
Et t' incontrant in pettus duos coros.
(1) Di T. Campania e de' suoi (empi, Ragusa, Piccitto e Antoci, 1880,
pag. 35.
D'Ancona, La poesia pop. Hai. — 27
418 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
Aniuii un jornu si deliberali
Di vidiii r intrinseci! di mia
E tuttu in pezzi mi ruppi e taggliiau,
Medicu accortu, accorta notomia:
D'un solu effettu si meravigghian
Quantu l'invitta sua putenzia sia,
Che viva senza cori mi trovau
Fatta sequaci di la donna mia;
mentre un Paolino Romansolo lo raffazzonò a questo
modo :
Cupidu ntra hi sunna mi pigghiau
Per fari di sta corpo anatomia:
Ma nun appena lu pettu spaccau,
Restau sorprisa a la vista di mia,
Ca senza cori aifatta mi trovau,
E cursi allora per spaccar! a tia :
Miracala d'amari ! ti truvau
Dui cori appunto, di tia e di mia. (^)
Anche al seguente troviamo corrispondenza in
Sicilia :
Mi parto, bella, e pria del mio partire
Il cor qui lascio [all'] amor tao costante:
Che s'è lontan(o) da te non puoi tu dire:
Altri si god[e] il mio fedele amante.
Mi vedrai sempre in sonno comparire.
L'alma ti seguirà come ombra errante :
Se senti il vento, è certo il mio sospire,
L'acqua che pioverà sono i miei pianti.
Le rime in questo caso si restituiscono perfettamente
colla versione acitana :
Ju mi ni vaja, ca mi n' haju a ghiri,
E ti lu lassù stu cori Astanti ;
Si ti lu lassù, nan mi l'ha tradiri,
Nun l'ha dari 'mpussessu ad autru amanti;
Ja 'ntra la sunnu ti vegnu a vidiri,
(1) Sai.omone-Maiìi.n'o, in Arch. trad. popol., I, 355, 306.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 419
Ti stajii cotnu un'ummira davanti;
Lu ventu mina, e su' li miei suspiri,
L'acqua ca vivi sunu li me' chianti. (^)
Questo lia soltanto rispondenza napoletana:
Sotto straniero ciel, bella, m'invio
Per ritrovar alfin morte spietata ;
Così comanda, o bella, il fato rio,
Cosi vuole per me la sorte ingrata.
Non serve, amato ben [e], il dirti addio
Per non lasciarti afflitta e sconsolata;
Parto, dunque, da te, bell'idei mio:
Chi sa se ci vedremo un'altra fiata !
L'ottava è perfettamente siciliana nel ritorno delle
quattro rime ; ma la lezione che possiamo metterle
per ora a raffronto è di Carpignano salentino :
Sutta cielu straniera piglia via,
Pe' sci' trovare la sorte spietata:
Cussi voze la sorte, ah capu mmia!
Tantu voze de minie la sorte 'ngrada!
De mundu mene 'ssia dicendu addiu,
Beddha de core mmiu, sposa mmia amata,
leu per partire te lassù, cor mmia,
Spera ca ni vitimu 'n addha fiata. (^)
Per quest'altra, invece, può dirsi clie si abbia
doppia prova di derivazione letteraria e di origine
sicula. Nella stampa napoletana tale è l'antipenul-
timo canto della categoria degli amorosi :
Sicché [Benché] lontano sia, benché distante
Dal caro volto tuo st'alma dolente.
La lontananza non sarà (mai) bastante
A far(e) che tu mi uscissi dalla mente; (^)
(1) Vigo, n. 2709.
(2) Imbriani, C. popol, pvov. mericlion., II, 282.
(3) II solo tretrastico con un.a coda di ripresa in Filippini, FoVv-ìore
falrian., n. 18 {Arch. traci, pop., XVI, SO).
420 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
Vada quanto si vuole il corpo errante,
Che sempre il tuo bel viso ho io presente:
Perchè d'un fido e sviscerato amante
Dove l'occhio non può, giunge la mente.
Or questo in uno dei citati codici laurenziani così
si legge, col nome di Mario Migliaccio:
Benchì lontani su, bench'i distanti
Di li bell'occhi toi st'occhi dulenti.
Gridi chi luntananza n'è bastanti
Chi di lu cori miu ndi stai assenti;
E vaia chiù chi va lu corpu erranti,
L'anima sempri a tia sarrà prisenti ;
Perchì d'un fidu e d'un gilusu amanti
Undi l'occhiu nun po' iunci la menti. (')
Passiamo adesso al gruppo delle Canzoni di ge-
losia. E quasi subito troviamo questa :
Silenzio, amici: al mio cantar [v'] invi[t]o,
Or che vanta il suo duolo un disperato :
Porgete orecchio e al suo cantar t'udito (sic), (^)
E compiacete il suo pietoso stato.
Io tra gli amanti era il più gradito,
E tra gli amanti era amante riamato:
Ma del regno d'Amor fui già bandito,
E senza causa, oh Dio, fui discacciato!
Le sofferte modificazioni non impediscono che del
seguente Canto di Mordano in Terra d'Otranto non
si riconosca l'origine nel sopra trascritto :
Silenciu, amici, ca cantando dicu
Quautu foi de' sta donna 'mpassiunatu.
'Ricche, sentiti hi mmiu cantu arditu.
Occhi, chiangiti lu mmiu misera statuì
A tribunal d'amore foi banditu,
Ca la megghiu zitella in ebbi amatn ;
(1) Cod. 97, 10, pag. 152.
(2) Forse: Porgete attenti al suo cantar l'udito; e nel verso seguente
forse : coiìipiauf/ete.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 421
E poi ca n'autru amante ha preferita,
E senza fazzu male mm'lia scacciatu. (^)
Di sdegno è il seguente Canto in forma aulica:
Traditrice infedel[e], mi tradisti
E centra la mia fede mi lasciasti:
D'amarmi sempre la fede mi dasti
E poi [per] altro amante mi cambiasti. (-)
0 misera di te, che mi perdesti !
L'argento per il piombo tu cambiasti :
Se fili tradito da te, mala pasta,
So che alfìn[e] sei donna, e tanto basta. (^)
E questa è la forma popolare chietina:
Traditricia infedel', tu mi tradist',
E contr'a la fed' mi lasciast',
D'amarm' sempr' la fed' me dast',
E pojj' pe' 'n atr' amant' mi cambiast'.
(1) Imbriani, C. pnpol. pror. meridion., II, 291, e ivi altre lezioni. Chi
comunicò il Canto di Morciano agli editori dei Canti meridionali " vuole
assolutamente vedere in questo Rispetto un frammento di qualche Canto
di Trovatore. Oggi, dic'egli, i nostri contadini non sanno cosa fosse (sic)
stato un tribunal d'amore „. Ma poco ciò importa, quando la locuzione tro-
vasi nelle Raccolte a stampa, e in altri componimenti popolari o popola-
rizzati. Già uè vedemmo esempj qui addietro : ai quali aggiungansi questi
versi zoppi, recati dalla signora Pigorini-Beri, pag. 37 :
Cupido che s'era gito all' udienza
E s'era messo al banco dell'amore,
Leggeva una bella sentenza ecc.;
e questi altri che camminano meglio : ibid., pag. -11 :
Giovinettuccia, ho tanto litigato,
A Roma bella ti voglio portare
Davanti alla giustizia dell'amore ecc.
(2) E più oltre:
Piena di falsità, falsa nascesti,
E falsa fu la fede che mi dasti ;
Ad altra non amar tu mi dicesti ecc. ;
che ricorda il Rispetto toscano (Tigri, n. 1122):
Finto che d'una finta tu sei nato,
Finto che d'una finta tu nascesti,
Finte son le parole che m'hai dato.
Finte son le parole che mi desti ecc.
(3) Cfr. altra consimile ottava sul finire della Raccolta seconda.
422 LA POESIA POPOLARE ITALIAI^A.
0 misera te che me pirdist'!
L'argent' ppe' lu piomm' tu cambiast':
Si i' fu' tiadit' da te che mal mi dast'
A la fin' sejj' 'na donn', e tant'abbast'. (')
La lezione popolare fa veder chiara la derivazione
dall'aulica; ma questa presuppone un prototipo meno
corrotto, che però non dovette essere, sebbene vi si
accosti, l'ottava a due sole rime, cioè alla siciliana,
che COSI cantasi in Sennino :
M' ingannasti, tiranna, m' ingannasti.
Poco conto di me tu ne facesti,
11 core ad altro amante lo donasti
Per poco tempo che non mi vedesti;
E quando me n'andiedi, mi lasciasti,
Dicesti: va, amico mio, e torna presto:
Non fu bacio d'amore che mi dasti.
Ma fu bacio di Giuda, e mi tradisti. (^)
Ultimo ragguaglio della prima Raccolta sarà
quello che faremo per quest'ottava:
Vanne lungi da me, cor[e] infedele,
Né sperar(e) più da me pace ed amore :
Io già mi pento se ti fui fedele;
Troppo tardi però piango l'errore;
Fido ad altri sarò, a te crudele:
Giacché ti dasti in preda [adj altro amore:
T'amai, noi niego, é ver, ma se t'amai.
Maledico l'amor che ti portai.
Che in Carpignano salentino cantasi popolarmente
così :
Fusci de l'occhi mmei, fiuru crudele,
No' sperare de mmie pace d'amore.
Mnie su' pentitu se te foi fedele,
Mutu tardu mmo' ccorsi de l'errore.
De l'addhe jeu sarò, pe' tie 'nfedelo,
(') Imbriam, C. popol, prov. ineridion., II, 177.
(-) Marsiliant, II. 657.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 423
Peixè a addili dunasU hi tou core.
Te amai, mmiu bene, sì, mutu te amai ;
Maledica l'amor, ci te portai. (')
E nel Lucchese suona a questo modo:
Vanne da me lontan, cuore infedele,
Non isperar giammai pace in amore,
E se ti amai e se ti fui fedele
Troppo tai-di, però, piango l'errore.
A uu altro sarò fida, a te crudele
Poiché in braccio ti desti a un altro amore.
È vero che fu un tempo ch'io ti amai!
Maledetto quel ben che ti portai ! (^)
Passando alla Raccolta seconda troviamo fra le
prime quest'ottava incatenata:
Se pri(m)a poco t'amai, ora più t'amo;
T'amo, perchè d'amor costretto sono ;
Sono costretto come il pesce all'amo.
Amo la tua beltà di cui ragiono.
Ragiono fra di me, fra me ti chiamo.
Chiamo, e nel chiamarti il cor ti dono :
Dono, ma nel donarti altro non bramo,
Bramo che non [mi] lasci in abbandono.
La lezione popolare di Terra d'Otranto ha sciolto
in parte l'artificiosa catena :
Ci prima jeu t'amai, mo' cchiìi te amu,
Mo' ci d'amore jeu custrettu sono.
Sono custrettu conni pesce all'ama,
'Nnanzi alla toa beltà cussi ragiono.
Ragiono fra de mmie, fra mmie te chiama,
E quandu chiamu a tie lu cor te donu.
Se lu core te duna, autru nu' bramu.
Te pregu nu' me lassi in abbandunu.
Quista la cantu a tie, fiur de giacinto,
Lu core mmiu è sinceru, lu tou n'ò fintu. (^)
(1) Imbeiani, C. popol. prov. meridion., II, 37,
(2) G. Giannini, C. pop. tose, 410.
(3) Imbriani, C. popol. prov. meridion., II, 413.
424 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
Seguitando troviamo quest'altra ottava :
Oggi, beli' idol mio, ineiitie scriveva,
L'alma dal petto mio si distaccava ;
Una tirata dava, e poi piangeva,
La carta colle lagrime bagnava :
E mentre il braccio poi io stendeva.
La penna dalle (mie) mani mi cascava.
Considera mio ben, che pena aveva !
Pensando a quel che fai, io lagriniava.
Nota qui opportunamente l'Imbriani clie nella cor-
rispondente lezione calabrese, il processo di tradu-
zione dalla forma aulica alla dialettale è appena
cominciato:
Oggi, idolo mio, mentre scriveva
L'arma dal petto mio si disgrastava ;'
Io dava una pennata, e po' piangeva.
La carta sotta l'occhi ssi bagnava :
Pensa, idolo mio, pena che io aveva.
Quando lo vostro nome ventumava. (^)
Nella forma sicula, sinora nota, evidentemente sono
insieme congiunti due componimenti di identico ar-
gomento :
Oggi, curuzzu mia, mentri scrivia,
La pinna di li manu mi cascava ;
lu dava na' pianata e poi ciancia,
Di lacrimi la carta si lavava;
Cunsidera, arma mia, chi pena sentu,
A tia pinzannu mi veni lu chiantu :
La notti 'un dormu e lu journu 'un abbentu,
Ccu li lacrimi all'occhi mi addurmentu. (^)
Ma quest'altro, invece, combacia esattamente :
Per dispetto di tutti io ti ho d'amare,
Regna {sic) pur quando [sic) vuol la gelosia;
1) Canti calabresi, n. 8. Cfr. La lezione reggina, schiettamente lette-
raria, in Mandalaki, p. 399: e la lezione umbra già dialettalizzata, in Maz-
ZATINTI, n. 177.
(2) Vigo, n. 30G2.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 425
Tuo amante sarò, non dubitare,
Perchè t'edel mi sei, anima mia;
Non mi dire di no, non m'ingannare,
Dimmi la verità, non la bugia :
Un patto tra di noi convien di fare;
0 esser tutta d'altri, o tutta mia.
E nella versione popolare siciliana suona cosi :
Pri dispettu di tutti jia t'ej' amari,
Rignassi quannu vo' la gilusia ;
Tu spusa mi sarai, nun dubbitari,
Ca tidili mi fusti, armuzza mia.
Nun mi din di no, nun mi 'ngannari.
Dimmi la virità, no la buda;
Un pattu tra di nui avemu a fari :
0 ha' essiri tutta d'autru, o tutta mia. (')
Ma la prima forma potrebbe essere questa de' citati
codici laurenziani :
lu t'amu tantu, quantu si pò amari,
E per l'amuri to consumiria
L'alma, la vita e quantu si pò fari,
E si cchiìi si putissi, chiìi farrìa :
Ma chi ti vija cu autru praticar!,
Amanduti cu estrema gilusia.
Non lu pò lu miu cori sopportari:
0 tutta siji d'autru, o tutta mia. (^)
Dalla versione popolare si risale all'aulica, e da
questa all'insulare, anche nel caso seguente di uno
Strambotto, attribuito fin dal sec. XV al Giustiniani:
Quattro sospiri te vorria mandare
E mi, meschino, fosse ambasciatore!
Il primo SI te degia salutare.
Lo secondo ti conta il mio dolore ;
(1) Vigo, n. 2347, in nota. Cfr. Pitr'e, C. poì>ol. sicil., n. 219.
(-) Cod. 96, p. 177. Questa forma è poi quella del Canto siciliano di
Petraperzia, con poche varianti : v. .3 E vita ed arma . . . davi — 4 Cosa
'nsmiìma non c'è" ca non. — 5 la pidirti ad — 6 Cancia sta sciamma in fridda
— 7 Pri cui chist'ailu vogghitt a tia 'ntimari — 8 0 tu si' tutta d'.
426 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
Lo terzo sì te degia assai pregare,
Che tu confermi questo nostro amore;
E lo quarto io te mando inamorato:
Non mi lassar morire isconsolato. (^)
Con poche varietà di forma è pur riferito neW An-
conitana del Ruzzante. (") Ma se l'ossatura resta la
stessa, varia la forma nella raccolta popolare, che
cosi suona :
Quattro sospiri miei ti vo' mandare,
So che son[o] fedeli ambasciatori :
Il primo genuflesso in adorare,
Il secondo a ricordarti i nostri amori,
Il terzo a dirti il mio lagrimare,
Il quarto che contempli i miei dolori;
Piangendo tutti uniti poi cercare
Vendetta a chi divise i nostri amori. (^)
Tradotto in vernacolo chietino dice così:
Quattr' suspir' mie' ti ho mandat',
Nen sacce se so' fedel' li 'mbasciatur';
Lu prim' genufless' per adurart',
Lu secund'a ricurdarece lu nostr'amor'.
Lu terz'a dirt' lu mie lacrimar',
Lu quart' che cuntempl' lu mie dulor'.
Piangend' tutt' unit'e poi cercand'
Vindett'a chi ha divis' lu nostr'amor. (^)
Ed ora sentiamo come cantasi a Ribera in Sicilia :
Quattru suspiri ti vurria mannari,
E tutti quattru suspiri d'amuri;
Cu lu primu ti mannu a salutari,
L'autru cuntirà lu nostru amuri ;
(1) Vedi gli i^trambolti di L. G., da me riprodotti nel Giorn. fil. rom.,
II, 179. Vedi anche F. Sabatini, Ale. Strainb. di L. G. conservati dalla tra-
diz. popoL, Roma, 1886, pag. 13 e seg.
{-) LovARlNl, Le canzoni popolari in liuzzante cit., pag. 25.
(3) Cfr. coU'ottava 39 del cod. perugino e col Rispetto toscano, già
cit. qui addietro a pag. 1G8.
(■1) Imbhiani, C. popol. proo. meridion., II, 30: Manpalaiìi, pag. 400:
jiell'Abruzzo (Finamore, lì, n. 265) i sospiri son cinque.
LA POESIA POPOLAEE ITALIANA. 427
Ma cu hi terzu ti manmi a vasari,
L'autru li sta davaiizi addinuccliiuni ;
A tutti quattru li fania gridari :
— Giustizia di Dio cu' sparti amuri ! — (')
Chi ricorda quanto il Canteo ghiribizzasse nei
suoi componimenti poetici sul nome di Luna, appar-
tenente all'amata, crederà trovare un'immagine di
quelle arguzie in quest'ottava :
La Luna è bianca, e voi brunetta siete,
Quella l'argento, e voi l'oro portate :
La Luna manca, e voi sempre crescete,
Quella s'ecclissa e voi non [v'j eclissate ;
La Luna non ha fiamma, e voi l'avete,
Quella perde la luce, e voi la date;
Or dunque, se la Luna voi vincete.
Bel Sole, non già Luna vi chiamate.
La lezione popolare calabrese ha lasciato da banda
l'argomentazione finale, sostituendo questi due versi:
Vu' lu suli e la luna ca riuniti.
Ma né suli né luna vi chiamati. {'^)
Invece la versione originaria siciliana possiede sif-
fatta arguzia :
La Luna è bianca, e vu' brunetta siti,
Idda è d'argentu, e vu' l'ora purtati ;
La Luna nun ha ciammi, e vu' l'aviti;
Idda la luci spanni, e vu' la dati;
La Luna manca, e vu' senipri crisciti,
Idda s'aggrissa, e vu' nun v'aggrissati ;
Adunca, ca la Luna vu vinciti,
Bedda, Suli e no Luna vi chiamati. (^)
(1) Salomone-Marino, n. 182. Cfr. Vigo, n. 1447 e un Canto del Lazio
in Marcoaldi, C.popol. latin., n. 29 e 40; C. umbri, n. 69; Visconti, n. 32;
Mazzatinti, n. 254; Gianandrea, p. 131; Ive, p. 72.
(2) Canale, n. 2 (in Mandalari, p. 4). Qualche frammento di questo
Canto incastrato in un alti'o, è in una Canzone di Bagnoli irpino in Imbkiani,
C. popol. prov. meridion., I, 90.
(3) Salomone-Marino, n. 23. Cfr. Vigo, n. 223 : Molinaro Del Chiaro,
C. p. molisani (in Ardi, tradiz. pop., XII, 393, n, 4).
428 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
Un responso di Amore è fra' Canti più diffusi
in Italia. Cominciamo dalla lezione letteraria:
Cupido, come giudice d'amore,
Un dubbio mi dicbiara e manifesta.
Dimmi qual'è piìi aspro dolore
L'uomo che parte o la donna che resta.
Mi pare che la donna ha più dolore.
Che l'uomo va d[ov]unque a gioco e festa.
Povera donna seguace d'amore.
Che sempre aflBitta e sconsolata resta !
Questa lezione è evidentemente corrotta, perchè il
vii pare non si capisce a chi stia in bocca, né è for-
mula conveniente a giudice così esperto ed autore-
vole, come Cupido. In Toscana si è conservato un
solo tetrastico: il dubbio, cioè, senza la risposta:
Cupido, che siei giudice d'amore.
Giudica questo fatto, e manifesta:
E dimmi chi lo soffre piti dolore,
L'uomo che va o la donna che resta. (')
Invece a Venezia si è formata una quartina dei versi
di mezzo, lasciata l'invocazione in principio e l'escla-
mazione in fondo :
Voria saver chi prova più dolore
L'uomo che parte o la dona che resta;
Dona che resta, aresta con dolore.
L'omo che parte trova 'n altro amore. (^)
A Napoli e a Marigliano in Terra di Lavoro è re-
stata una sestina: l'invocazione, il dubbio e la ri-
sposta, tolta la esclamazione: f) ma a Baculi nella
provincia di Napoli, l'ottava è intera ed in miglior
(1) Tigri, n. 1177. Con fonii.a variata, accoppiando for.se due Kispotti
0 COSI allungando l'esposizione del dubbio e aggiungendo la sentenza in
Giannini, C. pop. lucch., p. 131.
(■") Bernoni, punt. vi, n. 4.3.
(3) Imbkiani, C pui>ol. (Il Marigliano, n. 21 ; Molinaro, n. 218.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 429
forma che nella lezione aulica :
Cupinto, che ssi' jadice d'ammore,
Richiarenii 'sto dubbio manifesto :
Tu rinimi chi lo paté cchiii dolore,
L'ommo che paite o la ronna che resta.
— Resta 'sta neniia che pena a hi core,
E l'ommo 'nzò do' va fa sempe festa.
Povera ronna, saggetta a l'ammore.
Nasce aflfritta e desolata resta. — (')
Miglior lezione di tutte è la siciliana: (")
Cupidii, vera judici di aniuri,
Levimi tu stii dubbia di la testa;
Dimmi cui pati cchiù pena e duluri,
L'omu chi parti o la donna chi resta?
— La donna pati cchiù pri so riguri ;
Ca l'omu d'unni va fa jocu e festa;
Ma quannu è veru e perfetta l'amuri,
Tantu pati cui va, quantu cui resta. — (^)
Dice a ragione l'Imbriani che quest'altro è dei
più diffusi in tutta Italia:
Domani me ne parto, [o] Nice, addio.
Tutti gli affetti miei ti raccomando;
Se parto con dolor[e] lo saccio io,
E lo san gli occhi miei che pianto fanno ;
Quando arriverò al paese mio
In una lettera il mio cor ti mando :
Scritto ci troverai l'affanno mio ;
Ma del ritorno non so dirti il quando.
(1) Imbriani, C. popol. proi\ meridion., I, 128, ed ivi altre versioni
meridionali.
('-) Questo Canto è pel Tenca (II, 263) un " indizio della priorità della
Sicilia sulla Toscana^ e lo ricongiunge ai quesiti e dilemmi indie si di-
lettavano i Provenzali e prima di loro gli Arabi: la qual cosa potrebbe
ammettersi provando insieme che il componimento avesse, come pur sem-
bra, ispirazione e origine letteraria, e poi fosse sceso al popolo che se lo
sarebbe appropriato.
(3) Vigo, n. 2756. Altra lezione in Salomone-Marino, in Arch. ir-adiz.
popol., I, 378, dove la dimanda è diretta a un amante, e il .")" verso suona :
lu dicu ca le donne ecc. Cfr. AvoLio, n. 431 ; Mandalaei, p. 382.
430 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
Lasceremo le varie versioni meridionali raccolte dal-
l'Imbriani, (') in una delle quali, se altro indizio non
ve ne fosse, la " Nice „ amata, darebbe da sé sola
segno della derivazione letteraria : e risaliremo alla
versione siciliana, dove si correggono le rime imper-
fette della forma aulica {anno-ando):
Dumani partii piacennu a Din,
Tutti l'amici miei vi raccumannu ;
Si partii ccii dnliiri hi sacci' iu,
Pinsami a st'occhi chi chiantii chi fannu !
Jò quaiinu avrivu a hi paisi min,
Fazzii 'na Httricedda, e vi la mannii ;
Dda dintra scrivilo hi iinoimi min ;
La niè vinata non si sapi quannu. (*)
Altro Canto d'addio è il seguente :
Tornerò, tornerò, non dubitare,
Caro mio bene, non aver paura:
Fra breve tempo mi vedrai tornare,
Come farfalla intorno alle tue mura.
Tra montagne di neve, tra fiumare,
Impressa porterò la tua figura;
Allor ti lascerò bella d'amare
Quando morto sarò in sepoltura.
A Montella nel Principato ulteriore suona con poca
diversità :
Tornarò, tornarò, no' dubitare,
Caro mmio bene, non ave' paura;
Fra breve tiempo mmi verarrai tornare,
Gira' coni me auciello alle tuie mura;
Tra montagne re neve e tra fiumare,
'Mbressa portarò la tuia figura;
Allora ti lasciarrò, bella, r'ammare
Quanno muorto songo io, 'nsepordura. (')
(1) Imbeiani, C. popò!, prov.merldioii., 1,27 e II, 7 ; Cokazzini, p. 188;
Mazzatinti, 11. 183.
(2) Vigo, n. 2711.
(3) iMimiANi, e. pop. prov. mericìion., II, 315. Cfr. De Simone-Brouwer,
C. pop. di liossano e Corigliano Calabro, Napoli, tip. Universit., 1895, p. 15.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 431
Alla lezione toscana fan difetto soltanto il quarto
e il quinto verso: C) ma nella siciliana troviamo so-
lamente l'ultimo:
Quannu ca l'ossa mia su' 'nsepultura, (^)
Maggior numero di versi che altrove, ha in un
Canto siculo quest'altra ottava arguta:
Tu lontana, io lontano, oh che dolore !
Tu sospiri, io sospiro, oh che gran male !
Tu bruci, io brucio e per noi brucia Amore,
Talché le nostre pene sono uguale.
Tu ardi, io ardo, ed al nostro ardore
Non vi è rimedio, la piaga è mortale :
Ma per più nostra pena e rio dolore,
Io uccello son, e tu non hai ale.
Che certo ha da leggersi: lo uccello non son, tu non
hai l'ale. A Catania pertanto un Canto popolare serba
integri i due primi versi: (^) ma a Palermo ne man-
tiene sei, escluso cioè il terzo e quarto :
Tu luntana, in luntanu, ah chi duluri !
Tu suspiri, iu suspiru, ah chi gran mali
Tu ardi, iu ardu, ed a lu nostru arduri
Nun cc'è rimeddiu, e la chiaa è murtali ;
E pi cchiù pena mia e mio duluri
Iu occeddu nun su', e tu 'un ha' ali. (■*)
A Monteleone l'ottava è perfetta, ma con diversa
chiusa, perchè mescolata con altro canto :
Tu luntana, eu luntanu, ah chi doluri!
Tu clangi ed eu suspiru e simu eguali ;
Tu clangi pe lu troppu estremu amuri,
Jeu ciangiu pe lo toi luntanu stari !
(1) Tigri, n. 600.
(2) Vigo, ii. 1722, 1740.
(3) Vigo, ii. 2784. Anche nelle Marche un Canto comincia coi primi
due versi, e poi volge altrove: vedi Gianandeea, pag. 146.
(■*) PiTEÈ, C. popol. sicil., I, p. 448, n. 722.
432 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
Non saccio a cui spijari ed a cu diri,
Nova n'haju di tia, com'liaju a fan?
L'arma mi sentu di hi pettu usciri
Sentendu lo to noma ammentugari. (^)
La lezione chietina del seguente Canto mostra
chiaro essere una sformatura del modello letterario:
Afflitto core mio, non disperarti,
Chiuse non son per te tutte le porte :
Quelch'è scritto nel ciel non può mancarti,
Ognor l'aria si muta e ognor la sorte:
Opra dall'esser tua (sic) prudenza ed arte,
E colla volontà mostra(r)ti forte:
Ama, spera, cor mio, non diffidarti:
Il rimedio non vi è solo [aljla morte.
E il popolo abruzzese :
Afflitt' cor' 7ni, nin disperart'!
Chius' nin so' pe' te tutt' le port'.
Cheli' che sta scritt' 'ncel nin po' manca' ;
Ognor' l'aria ssi mut', ognor' la sort'.
Se tu ni sci' fedel', custant' e fort'.
Io ti amerò fin' a la mort'. (^)
Ninno direbbe originariamente popolare questa
ottava :
Occhi di basilisco fulminanti.
Serpe, che hai veleno in ogni dente,
Sirena, che mi alletti con tuoi canti,
Coccodrillo, che ammazzi e poi ti penti :
Petto d'acciaro e core di diamanti.
Che [ti] nutrisci sol(o) co'(n) miei lamenti.
Come soffrire puoi tanti miei pianti ?
Forse sei nata sorda, che non senti ?
Eppure la canta il popolo di Terra d'Otranto in
questa forma, con sicura derivazione dalla stampa,
0 da un primo originale siculo ignoto :
(1) NelLi Calabria, V, h'i.
(-) Imbhiani, C. popol. prov. ineridion., II, 4.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 433
Occhi de basiluscu fulmeiianti,
Serpe ci mme 'mbolieni d'ogne dente,
Serena ci mme tiri cu' li canti,
Cuccudrillu ci ammazzi e nu' te pienti ;
L'occhi ci tieni parenu do' lampi,
Parenu fatti pelli mmei triimenti;
Percè, percè nu' curi li mmei chianti ?
0 ca si' surda, o ca nun huei cu sienti. (')
E dì quest'altro è patente l'origine letteraria e
la traduzione dal siciliano:
Da donna si dipinge la Fortuna,
E delle donne non ne dir mai bene :
[E] quante ce ne son sotto la luna,
Ognuna nel suo cuor[e] il vizio tiene :
Se vogliam[o] voltare ad una ad una,
Tutto il mal che si fa da lor proviene ;
Mia madre lo dicea sin dalla cuna:
Fuggi, figlio, le donne, che avrai bene. (^)
E a Piazza :
Di donna si dipinci la Furtuna,
E di li donni non ni diri beni ;
Quantu ci n'edi sutla di la luna.
Ognuna 'ntra lu cori un viziu teni ;
Si vulemu vutarli ad una ad una,
Li mali chi ti fa d'iddi di veni. (*)
Me matrì mi dicia dintra la cuna :
Figghiuzzu, pri li donni 'un avrai beni. (^)
Passiamo adesso alla Raccolta terza, ove questa
è fra le prime ottave:
Ardo in segreto, e fingo non amarti,
Acciò non sia scoverto l'amor mio;
Ti miro il giorno e fingo non mirarti,
(1) Imbeiani, C. popol. prov. meridion., II, 105; cfr. Mandalari, Altri
canti, II. 16.
(2) Viziata è la versione laziale (Maesiliani, ii. 718): Le donne le di-
pinge fa fortuna ecc.
(^) Meglio a Mineo : Tutta lu mali di li donni veni.
C) Vigo, ii. 3908.
D'Ancona, La poesia pop. ital. — 28
434 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
Ti chiamo con il cuore e ti desio :
Vorrei gli affanni miei sol palesarti,
E dirti la gran pena che soffro io ;
Studiare vorrei magie ed arti,
Per goderti un sol giorno a piacer mio.
Che a Monteroni in Terra d'Otranto è stato così
voltato nel vernacolo del luogo :
T'amu 'n secreta e fìnga nun amarti,
Puru cu nu' sse scopra l'amor mniiu :
Quandu te 'mmiru, fingu nu' 'mmerarti,
Te chiamu cullu core e te desiu :
'Ulia gli 'nfanni mmei tutti cuntarti,
'Ulia te dicu quantu patu iu;
'Ulia cu studia li 'acanti e lo arti,
Pe' avire tie 'nu giurnu a piacer mmiu. (')
E sempre in Terra d'Otranto, una delle prime
scale a chi viene di Sicilia, si ritrova la forma vol-
gare della seguente ottava:
Amai, stentai, [e] pur fui dis(s)amato;
Misera servitìi, non fu gradita!
Ma di tutti mi vedo abbandonato,
E l'amicizia mia è già finita ;
Morte, ripara [tu], questo mio stato,
Morte, tu puoi sanar questa ferita :
Amante, il quale non si vede amato,
Brama meglio la morte che la vita.
E infatti a Nardo cantasi a questo modo :
Amai, stentai, e foi la dissamatu,
E la mmia servitìi nu' foi gradita;
Mo de tutti mme 'isciu 'bbandunatu ;
L'amore e l'amecizia ss'è furnita.
Morte, 'ddefrisca tio 'stu spenturatu.
Morte, tie puoi sanari 'sta ferita!
Ca amante ci ama e nu' sse 'ido amatu,
'Ole 'nnanti la morte cca Ha vita. (^)
(1) IlHBRIANI, C. popoì. prof, nieridion., II, l.'ifl.
(2) Imbriani, C. popol. x>rov. meridion., I, 247. Cfr. Manhai.aiìi, p.40L
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 435
In altra provincia è divulgata sotto forma ver-
nacola quest'altra strofa :
Adop(e)ra il tuo pensier, fa quanto vuoi,
Che più fedel di me non troverai;
Trovati un altro amante ancor se puoi,
Donali il core tuo, amalo assai.
Parla segreto pur quanto [tu] vuoi,
Che a me si riferisce quanto fai ;
Abbassa a terra sempre gli occhi tuoi.
Che sempre il mio ritratto troverai.
A Gessopalena nell'Abruzzo citeriore è così tradotta:
Oh' pijj' ssi tu' pensier', fa quant' può',
Ca pili fidel' di me no '1 troverai.
Trovat' un altr'amant', ma pur' si può',
Dònajj '1 vostr' cuor', amai' assa';
Pari' sicreto pur quant' tu vuo';
Ch'a mme s'ariferisce quanto fai :
Gir' chess'occhi tu' dovunqu' vai,
Ca sempr' lu mi' ritratt' vi truverai. (')
Come in altri casi, troviamo adesso un'ottava let-
teraria, variamente deformata nelle lezioni popolari:
Ragazzetta gentil, tenera sei :
Cosa vuol dire amor[e] ancor non sai;
A tanti segni degli aflfetti miei
Il tuo bel cor non corrispose mai.
So certo in fede mia, dir lo potrei,
Che digiuna d'amor[e] ancor ne stai :
Ma giunta che sarai agli anni miei,
Colle pene d'amor t'imparerai. {-)
(1) Imbbiaxi, C. popol. prov. meridion., I, 62.
(-) Ricorda la Canzone che cantavasi in Toscana prima del 1860:
Giulia gentil,
Dal bel color,
Ah tu non sai
Che sia l'amor.
Ma se poi un d\
Ti batte il cuor,
Allor saprai
Che sia l'amor!
436 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
In Basilicata resta il tetrastico, al quale vennero
accodati due versi, come di risposta :
— Billezza mmia gentile, tenera sei,
E che vu' dire ammore ancora nu' sai:
Ma po' che si' arrivata all'anni mmii.
Che vu' dire l'amniore imparirrai. —
— Nu' ti giura', mmio bene, di' ciò chi vuoi,
r dil tuo core nu' mmi scordo mai.
E in Terra d'Otranto se ne è fatto una vera sestina:
Piccula, piccinnella tu già sei,
Culla faci l'amore tu nu sai.
Te parlu e dicu dell'affetti mmei,
Me guardi e sienti, e nu' capisci mai.
Lassa cu ssinti giunta all'anni mmei
Ca le pene d'amore 'mparerai. (*)
Siamo sempre nell'estremo conio d'Italia colla
traduzione dialettale dell'ottava che segue:
Rondinella sei tu, che in gabbia canti,
Uccello sono anch'io che mi lamento;
Tu col cantar[e] tuo chiami gli amanti,
Il simile faccio io col mio lamento.
Tu ristretta non senti li miei pianti.
Io lontan[o] da te sospiro al vento ;
Spero sol di morir con te accanto ;
Allora finirà il mio tormento.
E a Sava nel Tarentino :
Rondinedda si' tu, ci a gabbia canti,
Acieddu son iu, ci mi lamientu ;
Cullu cantari tua chiami l'amanti,
Lu stessu fazzu iu cullu lamientu ;
Custretta tu non sienti alli mia chianti,
Luntanu iu di te suspiru a bientu ;
Iu speru di muriri cu tei accantu,
Tannu si finirà lu min turmientu. (-)
(1) Imbriani, C. popol. prov. meridion., I, 279.
{-) ScHiFONE, n. 13. Appariscono esser di origine letteraria anche i
Canti n. 7, 8, 15 deHa RaccoUina savese dello Scuifoxe.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 437
Non poche modificazioni La sofferto quest'altra
ottava nelle lezioni popolari :
Bella, quanto sei bella agli occhi miei,
Che di mirarti non mi sazio mai.
Perderanno il lor lume gli occhi miei,
Per il troppo .splendor che tu li dai.
Fai tanto che innamori ancor li Dei,
Per la grazia e bellezza che tu hai.
Una cosa a te manca : bella sei,
Pietà del tuo fedele amor non hai.
E infatti in varie lezioni meridionali sonosi conser-
vati i primi due versi:
Cara, quantu si' bella agli occhi mmiei.
Re rimirarti non mmi sazio mai; (')
variando poi il rimanente: e nelle Marche, anche il
verso quinto e il sesto :
Bella te può' chiama' che bella sei,
Belletta come te 'n s'è vista mai !
Je fatte 'nnamorà fina li Dei
Chen chessa bella grazia, che ce hai. (^)
Altra lezione letteraria a stampa:
Canta 1' Usigniuol per ogni parte
E col proprio cantar chiama la morte:
Tormento[so] vado io per ogni parte,
Va[do] cantando la mia scura sorte.
Sentimi, bella mia, ora che parte
L'amante tuo fedel, costante e forte :
Non ci vedremo piìi da questa parte ;
A rivederci in elei, dopo la morte.
E la lezione popolare di Gessopalena :
Cant' hi riscignol' per ogn' part',
E ngh' lu proprij' canta' chiam' la mort';
(1) Imbeiani, C popol. pvov. mevìdion., Il, 98.
(3) GlANANDREA, pag. 67.
438 LA POESIA POPOLARE ITALIAIv^A.
r scunsulat' vad' pe' ogn' part';
Vad' piangend' la mi' oscura sort'.
Senteme, bella mi'. l'ora che part'
L'amant' tu fidel', costant' e fort';
Se 'n ce arrevedemm' cchiù da chist' part',
A rrevederce 'n ciel' dopp' la mort'. (')
Passiamo adesso al gruppo delle Canzoni di ge-
losia, ove questa è la prima:
Barbara, dove sono i giuramenti,
La fede data, e le promesse tante !
Perchè cambiaste amore in tradimenti,
Perfida ingannatrice ed incostante ?
Verrà, verrà quel dì che te ne penti !
Gli inganni usati al tuo fedele amante
Allora piangerai con tuoi lamenti :
Persi r idolo mio tanto costante.
Nel Leccese suona cosi :
'Ngrata, addhu' scera li toi giuramenti,
La fedeltate e le prumesse tante?
Facisti comu Sciuda tradimenti,
Scinda tradiu lu Diu, e tu l'amanti.
Verrà lu tiempu e tandu te ne pienti,
Ca picca e pocu te consumi a pianti ;
E poi cu' 'ridi d'arma scunuscienti ;
Perse lu core mniin, fedele amanti. (^)
Se noi supponiamo una lezione primitiva siciliana,
su cui siasi modellato il rifacimento aulico, è molto
probabile che le rime in ante fossero tutte in anti.
Nella lezione leccese troviamo confuse le due ter-
minazioni: ma da un libro manoscritto, del quale or
ora discorreremo, si può rilevare che pili di un se-
colo fa, nel 1777, il sesto verso della versione a
stampa, che sembra scorretto se si unisce all'antece-
(1) Imbriani, C. lìopol. }ìrov. meridion., I, 18.
(2) Imbriani, C. popol. prov. nieridio»., II, 164.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 439
dente, contorto se al susseguente, sonava altrimenti,
con andamento più proprio al genere. Infatti il se-
condo tetrastico nel citato manoscritto comincia a
questo modo :
Verrà, verrà quel dì die ti ne penti,
Verrà quel dì che ti dissolvi in pianti.
Ancora altra lezione aulica:
Bella, non mi tradir per altro oggetto,
Volta verso di me quel tuo ritratto ;
Amami per pietà con vero aifetto.
Secondo fu la legge [e] il vero patto ;
Per voi la gelosia mi rode il petto,
L'alma non è più mia, né il corpo affatto :
Che se fedel mi sei, io ti prometto
D'amarti sempre e non lasciarti affatto. (')
E a Gessopalena:
Bell" non mi tradì pe' 'n altr'uggett',
Vóltele verz' de me 'ssu tu' ritratt'.
Amami pe' piata, con ver'affett',
Cumfuorm' faj la legge e il nostro patt'.
Se tu tradisce a me pe' 'n altr'uggett',
L'anem' non so' più mi' e '1 cor'affatt'.
Se tu fidel' me se', i' te promett',
D'amart' sempr' e nin lasciare affatt'.
Quest' l'ho dett' a te fior' di Nice,
Ama chi t'ama, e 'ssa parla chi dice. (^)
L'ultima canzone di gelosia è questa:
Ascolta, ingrata, ascolta i detti miei,
Senta i miei sensi il cor, se pur [tu] l'hai:
Giurasti d'esser mia, e mia non sei,
Giurai d'esser tuo, e l'osservai ;
(1) Ripetuto con qualche variante nella IJacc. Ili, e nella V, ove il
V. 6 è così : Cop. le pene d'amor sempre comhcttto.
(") Imbriani, C. popol. prov. tneridion., I, 16.
440 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
Io le promesse tue fide credei,
Sincera ti credei, e m'ingannai;
Non piango, bella mia, che mia non sei,
Ma che ti godon gli altri, ed io t'amai.
A Paracorio in Calabria dicesi così, con qualche
diversità :
Suspiratii mia beni, ed lindi sii?
Dimmi perclù ora lasciata m' hai.
Tu mi jurasti co' tutti li Dii
Ca m'ami sempri, e non mi dassi mai.
Ora mi dassi e mi dicivi sì :
Dimmi la carpa e su di chi mancai.
Jeu mo' non ciangiu ca tu mia non sii,
Ciangiu ch'atru ti godi, e jeu mancai. (')
Tra le canzone dette di partenza è questa in
versi incatenati, che nessuno vorrebbe dire d'origine
popolare :
Mi parto, o bella mia, io vado al foco,
Foco perchè mi sento consumare ;
Consumare mi sento a poco a poco.
Poco questa mia vita ha da durare.
Durare piìi non posso in questo loco.
Loco come ti voglio abbandonare.
Abbandonare io voglio festa e gioco.
Gioco sarà per me il lagrimare.
Eppure eccola tale e quale in dialetto leccese :
Partu, Ninella mmia, bau 'iitr' a hi focu,
Focu, percè mme sentu consumare;
Consumare mme sentu a pocu a pocu,
Ca pocu la mmia vita ha da durare.
Durare cchiìi nu' potè a quistu locu,
Locu addilo ieu mme 'idu 'bbandunare :
'Bbandunare vulia ieu festa e giocu,
Giocu sarà po' mmo lu lacremare. (^)
(1) Imbriani, C. popol. pyov. nieridion., II, 171; Mandalari, pag. 108.
Ridotto a tetrastico nelle Marche: Rondini, pag. 41.
(-) Imuiìiani, C. popol. prov. meridion., II, 281.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 441
Anche questa di dispetto è passata al popolo :
Dimmi di sì o [di] no, dimmi che speri,
[Deh] non mi fare in tante pene stare;
Fa che le tue promesse (se) sieno vere,
Acciò questo mio cor possa sperare.
11 sì, che sia di sì senza temere,
11 no, che sia di no, senza mancare :
Se mi dite di sì, fermo [il] pensiero,
Se mi dite di no, voglio altra amare. (')
La traduzione leccese è quasi letterale:
Dimme de sì o de no, cce cosa speri ?
E nu' mme fare intra le pene stare.
Fané le toi promesse sianu vere,
Puru lu core cu pozza fedare.
Dì sì, se sia de sì, senza timore ;
Dì no, se sia di no, senza mancare ;
Se mme dici de .sì, fermu pensieri :
E se mme dici no, vogghiu autru amare. (^)
Il medesimo si osserva per questa ottava contro
la donna, che probabilmente deriva, come tant'altre,
da un prototipo siciliano :
Eva fu (la) causa al mondo dei primi danni:
Quella ridusse Adamo a mal governo :
Le donne sono piene di tant' inganni,
Sciocco chi se ne fida, e fida indarno :
Le donne sono un pelago d'afi'anni,
L^n continuo dolor, martirio eterno.
Gli antichi la chiamavan(o) donna danno.
Fonte d'iniquità, lago d'inferno.
E nel Leccese :
Eva cagione a' nostri primi danni,
Quella redasse Adamu a mal guvernu.
Chine le donne su' de fausi 'nganni.
Pazza ci sse nde fida, pazza 'n eterna I
(1) Con qualche variante è anche nella Race. V.
(2) Imbriani, C. po2)ol. l>roc. mei-idion., II, 330.
442 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
Ca sempre su' le donne 'nu malannu,
'Nu continuo dolor, martiiiu eterna.
L'antichi le cliiamaru : Donna, dannu,
Sognu de paraisu, anni de 'nfiernu. (')
Colla seguente ottava torniamo, senz'altro, a
fonte siciliana :
Colla sua penna scrisse Cicerone:
Misero chi di donna amor dipinge ;
T' inganna ancor se fossi Salomone,
E con quei falsi tratti ti convince.
Tanto fa nel contar la sua ragione,
Fa la tìnta d'amarti e pur ti vince ;
La donna è tutta simile al carbone.
Che cuoce vivo, e quando è morto tinge. (^)
E a Ribera in Sicilia :
Scrise cu la so pinna Ciciruni:
Pazzu chidd'omu chi li donni cridi.
La donna chi tradì lu gran Sausuni
Sutta vesti d'amuri lu custrinsi.
La donna l'assumigghiu a lu panni,
Ca di milli culuri si dipinci ;
La donna rassumigghiu a lu cravuni,
T'ardi, ti mascaria, e po' ti tinci. (^)
Passiamo adesso alla Raccolta quarta, dove
troveremo solo questo Canto da raffrontare con una
lezione popolare :
Parto, resto, non parto; io parto o resto? (*)
Vorrei restar[e], ma convien che parto ;
Per cagione d'amor convien che resto,
Per cagiono d'onor convien che parto :
(1) Imbeiani, C. popol. prov. nieridion., I, 259.
(-) Cantasi aiiclie nel Lazio (Marcoaldi, n. 16) con poche varianti:
V. 4 Colli suoi falsi inganni ognun convince — 5 Tanto fanno capir la sua
— G Fanno ... d'amarvi e poi vi — 7 fatta — 8 Che rivo scotta.
(■') Salomone-Marino, n. 636; ci'r,\j(io,n.SS89; Fiori selvatici, ìì. 12.
(<) Da questa o da altra consimile deve derivare una Canzone della
colonia greca di Martano (Morosi, n. 41):
Parto? resto? che fo? ])or ]iao? ti canno? ecc.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 443
Su, vincala l'amor: io già mi resto:
Ma che diran di me se poi non parto ?
Pena è per me se parto, e più se resto :
Sempre pena è per me, o resto o parto.
Cento e più anni fa in Calabria sonava così :
Partii, restu, non partii, in partii o restii ?
Vorrei restar, ma mi convien ch'in parta:
Per ragion d'amor, convien eh' in restu,
E per ragion d'onor convien ch'in partu.
Moni si partu, e patii si mi restu.
Dunque non so che far, s'iu restu o partu.
Vinca dunque l'amor; su via, no, restu;
Ma no, che dissi ? addio, mia cara, partu.
Ed ora in Carpignano salentino La questa forma:
Partu? restu o nu' partu? jeu partu o restu?
'Ulia partire e mme tocca cu partu:
Dolo se partu, e penu se mme restu,
Nu' sacciu ce aggiu fare, restu o partu,
Pe' modivu d'amore, tocca restu ;
Pe' cagione d'onore, tocca partu.
Olà, vinca l'amor, già jeu mme restu ;
Mamma, ce dissi ! mo' tocca cu partu. (')
Il lettore abbia pazienza, cliè già siam presso
a riva, prendendo a esaminare la Raccolta quinta.
La quale sul bel principio ha questa ottava:
Dimmi, Cupido, a quale scuola andasti
Quando st^a bella femmina facesti ;
Dimmi con qual pennello la pittasti.
Dimmi con qual colore la pingesti ;
11 viso così bello ove pigliasti
E gli occhi così neri come f(ac)esti?
Tutte le belle cose li formasti;
Il cuore troppo duro le concedesti.
(1) Imbeiani, C. p02ìo7. prov. meridion., II, 342.
444 LA POESIA POPOLAKE ITALIAKA.
Nel Chietino:
Dimm', Ciipid', a quala scoi' andast'
E comm' 'ssa bella femnien' facest'?
Diniiiie con qiial' pennel' la pingest'?
Dove 'ssu bel ciilor' tu le pijjast'?
Com' 'ssi bell'ochie nei' 'i facest'?
Tutt' ste beli' cos' tu 'i hai' cuniposf:
II sol' COI-' dui' tu 'i consegnasi? (^)
Lezione letteraria a stampa :
Gli occhi miei con i tuoi furon(o) consenti,
Volsero che t'amassi, ed io t'amai ;
Tu per amore a me, pati tormenti,
Io per amore a te, tormenti e guai ;
Se tu ti sei pentita, io non (mai) mi pento,
E di lasciare a te non sarà mai :
Se m'hai da fare qualche tradimento,
Pensa allo nome mio. e non lo fai.
A Mordano in Terra d' Otranto suona così :
L'occhi toi e li mmei fora cunsienti,
Mme disseru cu t'amu, e iu t'amai.
E iu pe' amare a tie patu turmenti,
E tie cu mni'ami a mmie turmenti e guai.
Beddha, nu' su' pentitu, e tu te pienti,
Cu mme scordu de tie nu' sarà mai .
Se mm'hai da fare de li tradimenti,
Pensa a Iu nome mmiu, e nun li fai. (^)
Lezione letteraria :
La prima volta che ti [rijguardai
[Tu] mi feristi il core [e] l'alma mia:
Meglio che vista non t'avessi mai.
Che sconsolato non mi trovarla!
Or(a) che mi trovo fra [co]tanti guai.
Consolami, per pietà, bellezza mia;
E se consuolo tu non mi darai,
Ben presto spirerà quest'alma mia.
(1) Imbkiani, C. popol. prov. meridion., I, 151. Cfr. Mazzatixti. il. 41
(2} Imbkiani, C. popol. prov. meridion., II, 268.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 445
A Gessopalena:
Da che t'aiiguardaj, bellezza mi',
Tu m' feiist' lu cor' e l'anim' mi';
Meij che vist' neii t'avess' ma'!
Tu sconsolai' nen me troverest'.
Or' che i' mi tro' 'nfra tant' guajj,
Coiisolam' pe' piata, bellezza mi'.
E se coiisol' tu non mi darai.
Ben prest' spirerà quest'anim' mi. (')
Lezione letteraria:
Amami, bella mia, non sconfidarti,
Giacché soffro per te mille sconforti :
Non posso far di meno a non amarti,
Sempre pensando a te son quasi morto.
Fedel io [ti] sarò in ogni parte.
Costante io ti sarò fino alla morte :
Per due cose il mio cor potrà lasciarti:
(0) Per potenza del cielo o per la morte.
E a Gessopalena:
Amami, beli', e nin ti scunfìdà',
Già ch'eju soffr' pi te mille scunfort';
Nin pozz' fa' nimmen de non amart',
r pi amar a tej', suffrì' la mort',
I' ti sarò fidel' da ogn' part',
Custant' ti sarò fin' a la mort';
Pe' diù cos', cor' mi, potfi lassart':
P' la putenz' d' lu cel', o pe' la mort'. (^)
Lezione letteraria, e che nel principio sa d'ar-
cadico :
Quell'occhio tuo negletto m'innamora,
Quel labbro tuo vermiglio m'incatena:
Siccome spunta l'alba e l'aurora,
Così chiarisci tu, stella terrena,
(1) Imbriani, C. popol. prov. merìdion., I, 25.
(2) Imbriani, C. popol. prov. merìdion., I, 10. E anche II, 301.
446 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
Senza di voi non [ho] riposo un'ora,
Senza vederti pur paio gran pena.
Tu sola del mio cor sei la padrona,
Per esser di bellezza assai ripiena.
Nell'Abruzzo citeriore suona a questo modo, tolto
via il negletto e il vermiglio:
Ngh' 'iss'occlii tu', dilett', i' m' innamor',
• Ngli' 'iss' labbr' tu, beli' mi', i' m'incaten',
A lu spunta' dell'alb' di l'auror'
Dov' 'schiarist' tu, stella siren'.
Tu, beli', del cor' mi' se' la patron';
Cara, di 'ssi billezz' assai ripien'.
Senza di te, i' n'aripos' 'n'or'.
Senza vidert' pur' pat' gran pen'. (')
Ecco ora l'ultima ottava, che porremo a raf-
fronto con versioni meridionali:
Giuda, che giaci [giù] nell'aspro 'nferno,
Che nell'inferno crudel (tu) stai penando.
Per un bacio ti trovi entro [1'] inferno.
Per un bacio [io] mi trovo in tanto danno.
Tu baciasti un [Id]dio alto e superno.
Io una donna baciai per cui mi danno ;
Giuda, ti prego, cambiamo l'inferno.
Che r inferno d'amore è piìi tiranno.
Che a Carpignano salentino è cantato così :
Giuda, se pati tie nell'aspra 'nfiernu.
Nella 'nfierna d'amore ieu stau penandu.
Tie vasasti Gesìi celeste eterna,
'Na fimmena vasai iu, e mo' mme dannu.
Tie pe' 'nu vasu stai ner foco eternu,
Pe' 'nu vasu ieu puru stau penandu ;
Facimu tra de nui cangiu de' nfiernu,
Ca lo 'nfiernu d'amore è cchiii tirannu. (-)
(1) Imbriani, C. popò!, pt-ov. meridion., I, 60.
(-} Imbriani, C. popol. prov. meridlon., II, ICS.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 447
Ma anche quest'ultimo ragguaglio provvidamente
ci riduce a un primo esemplare siculo :
Giuda, patisci tu 'ntra 'n'aspi'u 'uferiiu,
Di lu 'nfernu d'annui iu patu affannu ;
Giuda, baciasti tu un Din supeinn,
'Na Dia baciai iu pii lu miu dannu ;
Giuda, pii un baciu tu si' 'ntra 1' infeinu,
Pri lu 'nfernu d'amuri iu patu affannu;
Giuda, veni tra nui, cancianni 'nfernu,
Ca r infernu di aniuri è cchiii tirannu. (')
Ho già citato fra le fonti scritte dei Canti me-
ridionali aventi indole letteraria, un manoscritto di
pili di cent'anni fa. Esso fu trovato in Monteleone di
Calabria dal compianto prof. Apollo Lumini, die prima
ne diede ragguaglio in un opuscolo, (') e poi liberal-
mente me lo comunicò. Consta di 294 facciate, e
contiene regolarmente fino a pagine 158 un'ottava
per facciata; indi seguono molte carte bianche, e
10 scritto ricomincia a pagina 257, dove ad alcune
altre ottave anonime si alternano Sonetti e Canzo-
nette, per lo più oscene. Nella prima carta del codice
sta scritto: Ad propriiim usuni D. Dominici Antonij
Famae, regionis divi Costctìit ini terre Francicae. Anno
domini millesimo septingentesimo septuagesimo settimo.
11 paese indicato è della provincia di Catanzaro. I
Canti, quanto al dettato, sono di più ragioni: ve
(1) Vigo, n. 2692. Cfr. lezione di Noto in Avolio, ii. 253. Oltre che di in-
tere ottave, troviamo raffronti fra le Raccolte napoletane a stampa e i Canti
popolari meridionali per semplici versi. Ad esempio liaccoUa III, p. 13: Met-
i'acqua, leva legna, smorza il foco; e Imbkiani, I, 77: 3fina acqua, 'more mia,
stuta lu focu; e in Molinaro, n. 2-3 : Mena acqua, leva legna, astuta fuoco. —
Race. Ili, p. 15: Un'ora senza te non posso stare; e Imbriani, I, 12: 'N'ora
sima di tej nen pozz' sta' ; e nel Tigri, 524: Un'ora senza voi non 2}osso
stare.
(-) Poesie popol. calabresi in un codice del secolo XVIII, Monteleone,
Troyse, 1876.
448 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
n'ha in lingua italiana, o appena dialettizzati: ve
n'ha in vernacolo Calabro: altri ve n'ha ancora che
direbbersi siciliani, o appena spogliati della veste
insulare. Quanto al carattere, appartengono tutti,
qual pììi qual meno, alla forma artificiosa, che finora
abbiamo notata. C)
Eccone alcuni che accusano derivazione da un
originale in lingua comune:
Sospirata mio ben, e dove sei?
Come, così, perchè lasciato m'hai?
Non ti ricordi degli affetti miei,
Quanto penai per te, quanto t'amai ?
Non mi giurasti tu, per tutti i Dei
D'amarmi sempre e non lasciarmi mai?
Or perchè mi tradisci? almen vorrei
Saper la colpa mia, e in che mancai. (^)
E di questo conosciamo già la forma dialettale in
un canto di Paracorio riferito qui addietro. O
Son finiti per me li di felici.
Ho perduta la dolce antica pace;
Nel numero già son degli infelici,
Solo col mio dolor trattar mi piace;
Smanij, affanni, dolori son miei amici,
Nemmeno di un contento io son capace;
Spesso chiamo la Morte: ella mi dice,
— Vivo ti voglio s"], ma senza pace. — {*)
(1) Consimile carattere lia un repertorio datato del 1754 del quale
rese conto L. Bruzzano, nel I" n. (15 settembre 1888) del suo giornale La
Calibrici, Rivinta di letteratura popolare. Sono 96 Canti in dialetto di Mon-
teleone, ma i più sembrano riduzione in calabrese di originali letterarj,
italiani o siciliani.
{") Pag. 67. Nella Raccolta J" napoletana lia queste varianti : v. 1 Ado-
ralo ben mio — 2 Perchè perchè così — 3 rammenti tu gli — 4 Quanto piansi
per te quanto penai — 7 Saper la colpa mia — 8 In che ti offesi, o bella,
in che mancai ? Cfr. con l'ottava recata qui addietro, a pagg. 439-40.
(3) Pag. 440.
(4) Pag. 57.
I
LA POESIA POPOLARE ITALL^XA. 449
Se ti lascio, mio ben, se me lasciasti
Colpa non fu la mia, ne tu l'avesti.
Quanto aniof ti portai, tu a me portasti.
Quel che volli da te, da me volesti.
Partendo io t'abbracciai, tu mi abbracciasti,
Molte cose ti dissi, e mi dicesti ;
Se spesso io sospirai, tu sospirasti,
Teco piansi, ben mio, meco piangesti. (')
Bella Ninfa d'amore, alma gentile
Non isdegnare no, la mia bassezza:
Ed è la rosa, e nasce in luogo vile,
E da mano gentil non si disprezza.
Ti priego, bella mia, tu muta stile.
Moviti a pietà con tua grandezza;
Perchè l'essere ingrata è cosa vile,
Ed amare chi t'ama è gentilezza. (^)
Se dubiti di me, dubiti a torto
Ch'io sempre fedelmente t'adurai;
Tu sola stata sei lo mio conforto,
Più di l'anima mia, bella, t'amai :
Mira lu visu miu pallido e smorto.
Io d'ogni altro piacere mi scordai ;
Dunque, mio bene, non volermi morto ;
Pensa quanto per te piansi e penai. (^)
Le tracce del dialetto cominciano a farsi maggiori
in quest'altra ottava :
Tu sula, bella, ntra stu pettu annidi
Tu sula all'occhi miei sempri si' avanti;
Cridilu, bella mia, cridilu, cridi
Ca sempri ti sarò fedele amanti ;
Tu ricca di beliizzi, ed iu di fidi.
Tu chiù bella di tutti, ed io chiù amanti;
(1) Pag. 10.3. ^
(2) Pag. 118. È anche nella Bacc. napol. II, pag. 11, con queste va-
rianti : V. 1 rosa — 2 isdegnare — 3 La gemma ancora nasce . . . umile —
4: da — 5 Fa' che la tua j^ietà non muti — 6 E unisci cortesia colla bellezza.
Nella lezione calabra la forma Ed è la rosa, sembrami chiaramente indicare
l'origine siciliana. — Anche l'ottava a pag. 73 del ms. corrisponde all'ottava
Sesta in pace, mio ben, ch'è giunto ormai, della Bacc. Il, p. 12.
(3) Pag. 106.
D'AxcoKA, La poesia pop. ital. — 29
450 LA POESIA POPOLAKE ITALIANA.
Apri stu pettu, bella, osserva, e vidi,
'N anima innamorata agonizzanti. (')
Più lontani, dalle forme letterarie quanto al-
l'idioma, non però invece quanto all'artifizio poetico,
sono questi altri:
Appena porta li suoi nigri rai
A st'atflitti occhi miei la notte oscura,
Chi fra mille pensieri, affanni e guai
Si distilla sta vita ura per ura.
Veni lu jornu, e scunsulatu assai
Mi rinchiudu pietusu in quattru mura;
Così per mia non apparisci mai
Né mai fini avirà sta mia sventura. (-)
Lacrimati, occhi miei, la mia sventura,
Ca è troppo infelici lu mia statu :
Nu vivu infernu è sta mia vita oscura,
Su senza fini li peni eh' iu patu.
Vorria muriri, perchi viju ogn'ura
St'afflittu corpu mia martirizatu,
Mentri locu mi dà la sepoltura.
La morti esti riposu a un disperata. (^)
Persi lu spassu iiiiu, persi lu giocu.
Persi la cuntentizza ed ogni beni.
Autru non trovu ca suspiri e focu,
Autru nun viju ca tormenti o peni.
CercH riposu, e mai non trovu locu,
Chiama la Morti, e la Morti non veni ;
0 ria fortuna! e come a poca a pocu
Mi privasti di spassi e d'ogni beni ! (*)
T'ama, bellizza mia, fidu e costanti
Cu l'alma, cu lu cori e cu la menti ;
(1) Pag. 137. Nella Kacc. napol. II, p. 4, si trova con queste varianti :
V. 1 Quanto bella ne sei non te n'avvedi — 2 Che sempre sei agli occhi miei
lavante — 3 Credimi — 4 fermo e costante — 5 bellezza.. . fede. .. — 6 Tu
fra tutte più bella ed io più amante — 7 Apri il mio petto, anima mia, e
vedi — 8 Come per te il mio spirto è agonizzante.
(2) Pag. 12.
(3) Pag. 19.
(4) Pag. 25.
à
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 451
T'aniu di moda chi non è bastanti
Nessnnu non ti caccia di sta menti.
Si dormii o viglili tu mi stai davanti,
Gran pena e gelusia sta cori senti,
Ca iu allor cesserò d'esserti amanti
Quandii lu mari sicca e nun c'è venti. (')
Misera ! supra mari fabricai,
Davi nun c'era fando e non fermizza !
Non ci fo canta quanta fatigai
Per godiri la rara sua bellizza.
Di li lacrimi miei fiumi formai,
Fici ampio mari [de] la mia amarizza:
Ed a la fini chi ndi ricavai?
Duluri, pentimentu, e scuntentizza. (^)
Anche più dialettizzato suona così a Reggio di Ca-
labria:
Miseru ! ammienzu mare frabicai,
Duve nu' trovai funda né fermizza,
Ha tanta tiempu che nei fatigai
Pe' godire 'ssa tua 'rande bejizza;
Nu hhiumi de scuntientu mi formai,
Nda fici 'na hhiummara d'amarizza,
E pare a la fini chi nda ricavai ?
Dohiri, patimienti e scuntentizza. (^)
Tali pertanto sono le fonti alle quali è attinta una
gran parte delle Canzoni, che ripetonsi nelle Provincie
meridionali. Se non che, debbesi credere che le cin-
que Raccolte a stampa abbiano viaggiato anche fuori
dell'ex-Regno. Abbiamo già notato che di una di
esse almeno si ha una ristampa d'altra parte d'Italia,
e noi non pretendiamo conoscere ogni prodotto delle
oscure stamperie popolari. Ma qui noteremo come
altre ottave delle Raccolte a stampa, se finora non
trovarono rispondenza in Canti meridionali, l'hanno
(1) Pag. 122.
(2) Pag. 25.
(3) Mandalaei, p. 165.
452 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
però in quelli di altre parti cV Italia. E cominciamo
dal Lazio.
Le Canzoni popolari della Campagna romana
(Provincie di Marittima e Campagna) furono delle
prime onde si facesse raccolta. Un Saggio ne pub-
blicava fino dal 1830 il comm. P. E. Visconti, e il
Didier lo ristampava nel suo libro la Campagne de
Home. (^) Si può dire con piena sicurezza che questo
Saggio di trentadue Canzoni è composto tutto di
poesie cantate e ripetute dal popolo, ma da questo
attinte a libri. (^) Forse chi le canta adesso le ha rice-
vute per tradizione orale: ma la prima origine dev'es-
sere in quei repertorj a stampa o a penna, de' quali
(1) Paris, Labitte, 1842. pag. 365.
(-) Lo stesso veramente non può dirsi del secondo Saggio di Canti
pnjjol. romani, Firenze, Le Monnier, estratto dalla Strenna romana de] 1858,
forse anche perchè vi predominano i Ritornelli e i tetrastici. Ma quando si
viene al metro dell'ottava siciliana, specie colla ripetizione del primo distico,
siamo daccapo alla poesia letteraria. Eccone un saggio in un Canto, del quale
la origine popolare non è possibile, anche per l'argomento:
Senio tutti d'un tronco tanti rami,
Semo tutti d'un ramo tanti pomi.
Senio tutti d'un filo tanti stami,
Semo tutti d'un foco tanti lomi;
Semo tutti d'un ferro tanti lami,
Semo tutti d'un fonti tanti fionii:
Adamo fu lo tronco, e noi li rami,
La vera nobiltà sta ne' costomi.
Questo lo dico a te, donna dal core,
E se non basta, tutto uguaglia Amore.
Originariamente è Canto siciliano popolarizzato ^VI^;o, n. 3790) :
Tutti senni di Adamu tanti Adami,
Tutti seniu d'un'acqua tanti sciumi.
Tutti seniu d'un ferru tanti lami.
Tutti semu d'un focu tanti lumi,
Tutti semu a 'na tila tanti trami,
Tutti semu d'un lignu tanti fumi ;
Adaniu fu hi zuccu, e nui li rami;
La vera nobiltà su" li custumi.
Vedilo anche con qualche varietà in Mueller-Wolff, p. 245, e in Manda-
LAKi. pag. 167, ridotto in sei versi. Il prof. Amico mi fece sapere che .autore
di questa ottava fu il poeta trapanese Bernardo Bonajuto, e che si legge
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 453
già dicemmo. Basta gettare un'occLiata su tali arti-
ficiosissime Canzoni, perchè si venga nella opinione
da noi espressa. Con ciò non vogliamo dire che non
sieno belle: tutt'altro: sono troppo belle, troppo artifi-
ciose perchè possa scorgervisi la schietta ispirazione
popolare. Bensì è vero che il popolo, al gusto del
quale, già l'abbiam detto, si affanno questi ghiribizzi,
queste fioriture, queste voluttà di concetti e di rime,
le ha fatte sue, e per sue le vende a chi ne fa ri-
cerca. Veggasi, ad esempio, se quest'ottava può mai
averla fatta un cantore plebeo :
La vaga rosa a l'amanti gradita
Vagheggia sua bellezza innamorata,
Quando si vede a porpora vestita
E di foglie e di spino [è] circondata;
Ma quando è colta poi, tra belle dita
Perde l'odore, e alfine vien buttata.
Così è la donna in amorosa vita.
Da tutti amanti alfine abbandonata. (')
a questo modo nella ISluova scelta di rime siciliane, Palermo, 1770, voi. I,
pag. 49 :
Tutti senili d' un truncu tanti rami
Tutti seniu d'un focu tanti fumi,
Tutti semu d'un fenu tanti lami,
Tutti semu d'un'acqua tanti scumi;
Tutti semu d'un fìlu tanti trami,
Tutti semu d'un mari tanti sciunii,
Tutti semu d'Adamu tanti Adami ;
La nobiltati sunna ti custumi.
Nelle Canzoni siciliane del Maura, pag. 44, sta invece a questo modo:
Tutti semu d'Adamu tanti trami,
Tutti semu d'un'acqua tanti xiumi,
Tutti semu d'un fìlu tanti stami,
Tutti semu d'un focu tanti lumi.
Tutti semu d'un ferru tanti lami,
Tutti semu d'un sali tanti scumi ;
Adamu fu hi zuecu, e nui li rami;
La vera nobiltà su li custumi.
(1) Immagini tratte dalla rosa lia anche quest'ottava, registrata dal
Vigo (n. 637), die ha per autore un Aexau, vissuto nel sec. XVI:
Cugghiemu, beni miu, la frisca rrosa,
Cumpita di biddizzi e di culuri,
454 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
0 quest'altra :
Vorrei fare un bel cambio d'amore.
Donami lo tuo core, eccoti '1 mio. (')
Sarai tu del mio cor cura maggiore,
Cura maggior del tuo sarò ancor io.
Oh che dolce parlar de core a core.
Intendere ogni speme, ogni desio !
Senio due cori ristretti in un core,
Quello che lo vuoi tu, lo voglio anch' io.
Vorrei fare un bel cambio d'amore,
Donami lo tuo core, eccoti il mio. (^)
Ma eccone cinque che trovansì anche nelle ci-
tate Raccolte a stampa, donde certamente derivano
con qualche modificazione:
Copriti, ciel, di tenebroso manto,
Apriti, terra, all'aspro mio tormento.
Cessa pur, sole, di rilucer tanto
Ecclissati tu, luna, al mio lamento.
E voi, pianeti, in questo amaro pianto
Convertitevi in acqua, foco e vento ;
Giacché il mio bene che m'amava tanto,
Misero ! m' ha lasciato in un momento !
Copriti, ciel, di tenebroso manto.
Apriti, terra, all'aspro mio tormento. (^)
Olii duci (Uici 'ntia ssi Libbra posa,
'Meiizn pampini 'nfuti e spini duri;
Mentri la primavera in tia riposa,
Lassimi, vita mia, cogghiri un ciuri :
Veni In 'nvernu e ni guasta ogni cosa.
Né bedda sempri ti manteni Amuri.
(') Il cambio dei cuori era già nel canzoniere di Lorenzo il Magnifico,
in più sonetti collegati come per gradazione dicbiarata poi nel Commento.
V. i sonetti 28. 29, 30 dolTediz. Aldina: Lasso che nent' io piìt, — Quel cor
gentil — Amorosi sospiri i quali usate. — E cfr. Selve d'Amore, I, st. 20 sgg.
(2) Visconti, n. 9; cfr. Kopisch, pag. 264.
(3) Visconti, n. 25. Cfr. Jtacc. napol. I, pag. 17, dove sono queste va-
rianti : V. 1 m — 2 a questo — 3 Sole, non dare più splendore — 4 Aria,
fulmina foco e butta vento — 5 che tacete tanto — 6 Trasformatevi su in
tuono 0—7 Dove la bella andò die amavo tanto — 8 La perdei, non la
vedo, e non la sento.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 455
In Calabria essa suona a questo modo :
Copriti, cielii ed aria, a questu cantu,
Apriti, terra, a questu gran lamentu,
Suli, non dari più splendori tantu,
Aria, fulmina focu e mina ventu ;
E vui, pianeta, chi taciti tantu
Straformativi in son(u) di toni e ventu ;
Dov'è lu bellu ch'aju amata tantu ?
Lo perdei, non Io vedu e non lo sentu. (')
Già che non m'ami più, lasciami almeno.
Lascia eh' io sfoghi in pianto il mio dolore!
Giacché morto mi voi, eccoti il seno.
Eccoti il ferro ancor, passami 'I core.
Il mio morir sarà dolce, sereno.
Vittima io sarò del Dio d'Amore:
Ma prima del morir, parlami almeno,
Dimmi se fui fedele o traditore ;
Già che non m'ami più, lasciami almeno.
Lascia ch'io sfoghi m pianto il mio dolore. (^)
Care luci dal sonno addormentate,
Fedel v'adoro ancor così sopite :
Se a lo lamento mio ve risvegliate.
L'eco del mio dolor deh ! compatite.
Amor me spigne, e voi qua me tirate,
Come del ferro fan le calamite.
Chiudetevi, begl'occhi, e riposate,
Che le dolenti voci ho già finite.
Care luci dal sonno addormentate,
Fedel v'adoro ancor cosi sopite. (^)
Ricordate che sei cosa mortale,
Tu che vai tanto di bellezza altera !
(1) Mandalari, pag. 386.
{-) Visconti, n. 2&. Cfr. Bacc. napol. II, p.ag. 17: v. 2 Lascia sfogar
piangendo — 3 E se sazia non sei — 4 Un ferro prendi e mi trafiggi —
5 Promisi fedeltà e sempre appieno — 6 Sempre fedel ti fui, mai traditore
— 7 Prima dunque che mor, deh dimmi — 8 In che ti offesi pur, qual fa
il mio errore.
(3) Visconti, n. 30. Cfr. Race, napol. II, pag. 7 : v. 2 v'adorerò benché —
3 Se mai col pianto mio — 4 del pianto mio — 5 mi... qui mi — 6 col ferro.
456 LA POESIA. POPOLARE ITALIANA.
Fra le stagioni, è ver, sola prevale,
Ma più breve di tutte è Primavera.
Bella è la rosa, e non ha fiore eguale,
Ma in un girar di sol convien che pera.
Precipita chi troppo in alto sale,
Lo più splendido giorno se fa sera.
Ricordate che sei cosa mortale.
Tu che vai tanto di bellezza altera! (')
Mando a l'idolo mio da questo petto
Cinque mesti sospir, figli d'amore.
Gli parla il primo de l'antico affetto,
E l'altro li racconta il mio dolore;
Il terzo l'offerisce questo petto.
Il quarto cerca aiuto a tanto ardore ;
Il quinto genuflesso al caro oggetto,
Pietà ne cerca e l'offerisce il core.
Mando a l'idolo mio da questo petto
Cinque mesti sospir, figli d'amore. (-)
Quest'altre due sono nella Raccolta del Mar-
coaldi : C)
Mi parto, o bella, che giunta è pur l'ora
Che così mi destina il fato rio.
Mi parto e nel partir convien eh' io muora,
Se non vieni con me, o bene mio.
Ti prego almen in quella mia dimora
D'esser fedel, come fedel son io :
Non ti scorda', ben mio, di chi t'adora:
Mi parto, o bella, a rivederci, addio. (*)
Beati ciechi voi, che non vedete,
E che di donne non v' innamorate ;
(1) Visconti, ii. 31. Cfr. Race, napol. I, 19: v. 1 Ricordati... donna —
4 Ma pur non dura assai — 5 Bella assai è la rosa e non ha — 8 Ogni cosa
mortai non giunge a. Ed è anclie nella Race. II, pag. 21.
(2) Visconti, n. 3-i. Cfr. Race, napol. I, pag. 10: v. 2 figli del core —
4 il suo — % ti cerca.
(3) Sanno di letterario fra i Canti latini raccolti dal Marcoaldi, i
n. 3, 15, 18, 24, 39, 47 ecc.
(*) C. pop. lat., n. 13. Trovasi anche nella Race, napol. I, pag. 16 con
queste varianti: v. 1 Parto, anima mia, giunta e qiiell' — 2 Clic partir mi
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 457
Beati sordi voi, che no' intendete
E i lagni degli amanti disprezzate ;
Beati muti voi, che non potete
Palesare la vostra volontate ;
Beati morti voi, che in terra siete:
L'amor non vi tormenta, e riposate. (')
E di quest'ultima, tale è la versione abruzzese :
Bbjiàte, cjìeche, voje che nno' vvedete,
Che dde le donne no' vve 'nnamiuate ;
Bbjiàte, sorde, voie che non zendete,
Ji lamende d' j amande desprezzate ;
Bbjiàte, mute, voje che noni butete
Appalesai'e le vostre vulundate ;
Bbjiàte, morte, che 'n derra ggiacete ;
J'amore no' vvi turmend' e rripusate. (-)
Né potrebbersi dire ignote affatto le già dette
Raccolte a stampa neanche in Toscana. Il Tommaseo
dice che " conservansi sonetti scritti da carbonai
nelle carceri alle lor vaghe; uno de' quali diceva:
La lontananza è quella che mi tiene,
Mi tiene avvinto come un pesce all'amo. (^)
la notte
Mi vien l' insognio, e mi risveglio e chiamo „. (^)
Se non che l'innamorato in questo caso non compo-
neva, ma ripescava entro i ripostigli della memoria,
e ritrovava un'artificiosa ottava, letta in qualche
libercolo, o a lui insegnata da chi prima ve l'aveva
— 4 Se con meco non vien l'idolo — 5 qnexia — 7 di chi fedel ti — 8 Farlo,
ti resto, a >:
(1) Marcoaldi, C. lìopol. latin., il. 38, e C. di Fabriano, il. 11 : cfr. Pi-
gokini-Beei, loc. cit., pag. 41. Kella liacc. napol. Ili, pag. 4, trovasi con
queste varianti : v. 1 Occhi beati voi — 2 donna — 3/(^ — 4 Degli amunti
ai lamenti.
(2) FiNAMOBE, II, n. 269.
(3) Vò iacà al cuore come 7 lìesse a l'amo: Berxoni, pnnt. IV, n. 50;
Dal Medico, pag. 100.
(<) C. poiìol. tose, pag. 6.
458 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
rinvenuta. (^) Quest'altro Canto toscano ha pur esso
preso, se non altro, l'avviamento da uno di quelli a
stampa :
Chi v'amerà, ben mio, se non v'am' io ?
Chi mi amerà, se non mi amate voi?
Chi averà pietà del dolor mio,
Altri che voi di me, caro amor mio?
Chi averà pietà del mio dolore,
Altri che voi di me, caro mi' amore? (^)
Ed è affine a questo piceno:
Bella, chi v' ha d'amar se non v'am' io ?
Chi m' ha d'amar se non m'amate voi ?
Le chiavi del tuo cuore le tengo io, (^)
E quelle dello mio l'avete voi. {■*)
Ma ambedue tornano a questa versione a stampa :
Bella, chi t'amerà se non t'amo io!
Chi m'amerà, se non m'amate voi?
La chiave del tuo petto la tengo io,
Quella del core mio l'avete voi.
Dentro del tuo bel sen l'albergo ho io,
Dentro dell'alma mia ci siete voi.
Un amante fedel sarò sempre io,
L'unico oggetto mio sarete voi. (^)
(1) Vedi la Eacc napoh li, p.ag. 15, dove Vottava è assai scorretta:
V. 3 Amo di dire all'adorato bene — 4 Bene che di vederti io solo bramo —
5 Bramo la notte che mi viene (sic) — d II sogno, mi — 7 Chiamo il sonno
e il sonno non viene — 8 Viene, e portami in braccio di chi amo.
(2) Tigri, ii. 45-1; cfr. n. 487.
(3) La frase dantesca delle chiavi del cuore ricorre frequente nei Canti
popolari di tutte le provincia d'Italia: v. Lizio-Bruno, C. popol. isol.eol.,
pag. 58; Bernoni, punt. II, n. 45, piint. X, n. 43; Dal Medico, pag. 151
Anboit, n. 330; Tigri, n. 270, 299, 436, 439, 473, 601. 604; Rondini, 102
GiANANDREA, pag. 79, 254; Imbriani, C. popol. prov. merid., II, 6, 81, 32, 392
IvE, pag. 88 ecc. Vedi altri raffronti in Rie. letler. popol., I, 89, 185; in Gian-
nini, C. pop. liccch., pag. 55 ; in Pellegrini, Il dialetto greco-calabro di Bava
(Torino, Loescher, 1880), pag. 35, e per raffronti classici la nota al Soli, del
Petrarca Volgendo gli occhi, nel commento del Carducci-Ferrari, pag. 92.
(4) Marcoaldi, C. popol. picen., n. 11. Cfr. Gianandrea, pag. 79; Maz-
ZATINTI, n. 119.
(6) Bacc. napol. Ili, pag. 5.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 459
Se non che, andando più addietro, si trova a questo
modo in un Codice del secolo XVII :
Ma chi deve amar voi, se non v'amo io,
Chi de' amar me, se non m'amate voi?
Chi de' sperar in voi, se non sper'io,
Chi de' sperare in me, sola che voi?
Vostro ben, vostra speme esser vogl'io,
Mio ben, mia speme esser vogliate voi,
E sete alfin dentr'al mio miser cuore
Mio ben, mia speme degna del mio amore. (')
Ma nel mezzo d'Italia, e principalmente in To-
scana i repertori poetici del popolo sono sopra tutto
certi libercoli di " Mattinate, Serenate, Partenze,
Strambotti, Sdegni, Sonetti, Villanelle, Lettere, Af-
fetti d'Amore ecc. „, composti già da due cinquen-
tisti : G. B. Verini fiorentino e Baldassarre Olimpo
degli Alessandri da Sassoferrato. Questi componi-
menti, come altri che li avevano preceduti nel Quat-
trocento, intonati da insigni musicisti, sposati al
suono del liuto e alla voce di famosi cantori, dalle
aule principesche e dalle sale signorili scesero nelle
strade fra il popolo, che pur esso li ripetè; e poi
quando la modulazione musicale non ebbe piìi, per
sazietà forse, l'antico favore, sopravvissero per la
lettura. I florilegi amorosi di questi due poeti si con-
tinuano a stampare tuttavia, ed una serie non in-
terrotta di edizioni riproduce i lor versi dalla metà
del sec. XVI al presente.
Il morigerato giovane G. Batista Verini fu fio-
rentino, e a quel che pare, libraio: se pure egli è
anche l'autore di un Luminario, stampato a Fi-
renze circa il 1527, ove l'autore è detto: Giovam-
(') Ferrari, Biblioteca ecc., I, 240.
460 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
haptistcì di piero Verini mercante di libri in Firenza. (^)
Ma il Negri (") lo fa di famiglia nobile, e di quella
stessa del filosofo : bensì non ricorda punto quel Lu-
ìììinario, e invece assevera scrivesse un'opera inti-
tolata il Fornaio, rimasta manoscritta, nella quale
s'insegnano tutti i modi di lavorar la pasta e cuo-
cerla. Se in ciò, come in tante altre cose, sia da
fidarsi al gesuita ferrarese, non saprei dirlo: bensì
negli altri suoi libri il Verini, foss'egli di mestiere
librajo o fornajo, insegnò tutti i modi e tutte le forme
della locuzione poetica d'amore, e raccolse esempli-
ficandole tutte le espressioni e formule di affetto, di
gelosia, di pace, di sdegno, di partenza ecc. Dice an-
cora il Negri che componesse, oltre un TriumpJio di
ricette e segreti hellissiììii, stampato a Milano nel 1535,
anche la Notomia d'amore e V Ardor d'amore, (^) che
sono a stampa. Ma se per l'ultimo non v'ha dubbio,
il primo forse non altro è, salvo la Crudeltà d'amore,
scritta certamente dal nostro Giovanbattista. Se poi
siano sue V Ardelia {*) e la Camniilla i^) che altri at-
tribuiscono invece, e sembra a dritto, all'Olimpo,
lascio disputare ai bibliofili. Certo è che, fra tanti
(1) Vedi Brunet. Manueì, voi. Il, col. 1139.
(-) Istoria de' fiorentini scrittori, Ferrara, 1722, pag. 234.
(3) Giambattista Fiorentino, ^rrfor d'amore et altre rose, Venezia, lòlrl,
in 8" — Ardor d'amore alla sua diva Clelia, con una Confessione d'amore
et un Capitolo di varia opinione, Roma, Valerio Dorico e Luigi fratelli, 1542
— Ardor d'amore nuovamente composto per il morigerato fiorone G. B. Ve-
rini, Venetia, 1544. 11 Catal. della libreria Capponi, pag. 38G, e I'Haym, Bi-
bliot. italian., II, 96, ricordano una edizione di Venezia, 1582 — Per la bi-
bliografia del Vekini, vedi del resto, Brunet, voi. V, col. 1138.
(■•) Il Quadrio, Storia e ragione ecc.. Il, 220, assegna al nostro una
Ardelia d'amore, che contiene Strambotti, Mattinate, Capitoli, Barzellette e
Frottole, dicendo averne visto ristampe di Trevigi del sec. XVI e XVII,
nonché di Piacenza, 1601, di Venezia, Padova e Bergamo, spesso col nome
di G. B. Vieri (sic). Altri ascrivono V Ardelia aU" Olimpo : v. Brunet, voi. IV,
col. 179, e Calai. Capponi, p. 274.
{■') Una ediz. del 1545, Venezia. Bindoni, registrata d.al Libri, Catal. del
1847, n. 1394, dù la Cammilla all' Olimpo : v. anche Brunet, voi. V, col. 179.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 461
libercoli composti in quel tempo e nella stessa forma
di Strambotti, Mattinate, Canzoni, Villanelle, ed al-
tro, ad uso dei giovani innaniorafi, (^) si salvarono
(■) Ad esempio: Ardore di onesti affetti, Siena, alla Loggia del Papa,
1606, in 8": ricordato nella Storia dei Rozzi dell'AccESO, p. lxiv. — Nel
Cat. LlBEi del 18-1:7, n. 1389 : Strambotti gentilissimi ad esempio d'ogni inna-
morato, s. a. n., ma prlncipj del see. XVI (furono riprodotte di su un esem-
plare melziano da F. Salvfraglio, Mortara, Botto, ISSO) — Ibid., n. 1390:
Strambotti novi d'amore li quali danno refrigerio a cia.tchuno che inatnorato, et
un Capitulo cantra d'amore: s. a. n., ma forse in Bologna, 1620 — n. 1542:
Jfon espeto giamai, con la risposta, et altre belle canzonette, Milano, Ant. da
Borgo, s. a. (sec. XVI) — n. 1543: Napoletane e Villanelle nuove di diversi
gentilissimi ingegni, Brescia, s. n. (sec. XVI) — n. 1544 : Fioretto e scielta
di Villanelle bellissime et artificiose, con ire Dialoghi artificiosi, Torino, 1590
— n. 1545: Canzone amorose, Torino, Grasso, 1593 — n. 1546: Scelta nuova
di Villanelle di diversi autori, con la Canzone della Caterinon (clie è del
Croce: v. Guekrini, n. 139), Torino, Grasso, 1594 — n. 1548: Fioretto e scielta
di Villanelle, raccolte da liaff. Cieco fiorentino, Perugia, Bresciano, s. a.
(sec. XVI) — n. 1549: Canzone et Barzellette ridicolose, s. a. n. — lì. 1675:
Nuova scelta di Villanelle di diversi autori, con la Canzon de Caterinon con la
Tognina, raccolte da Zan Cazamoleta, Trino, Giolito de Ferrari, s. a. (sec. XVI)
— lì. 1676 : Opera nuova dove si contiene due Mattinate bellissime et altre
Canzon et Villanelle ecc. Firenze, s. a. (sec. XVI) — n. 1691 : Giardino di
varie Canzoni et Napolitane senfentiose et belle, dove si contiene un Contrasto
di diioi amanti, con la Canzone della vecchia et ranella: Al pie d'un colle
adorno, con alcune Partenze d'amore, Cremona, Zanni, 1596 — n. 1738: Ce-
ciliane et Villanelle date in luce da diversi autori, Verona e Brescia. 1594
— n. 1739: Opera nuova dove si contiene Villanelle, Canzoni et Ciciliane,
con un Proverbio f eminile detto agli amanti, s. a. n. (sec. XVI) — n. 2965 :
Opera nuova dove si contiene Villanelle, Canzoni et Ciciliane, Milano, Gra-
tiadio Ferioli, 1595 — n. 2970: Nova scelta di varie canzoni, cioè Villanelle,
Napolitane, Ottave siciliane ecc. posta in luce da Paulo yiapiolitano, Torino,
1595 — n. id.: Opera nuova alla napolitana, dove si contengono ottave bel-
lissime et ridicolose da far Mattinate in ottava r/uio. Verona, 1596 — n. id.
Villanelle nuove, composte dal Sirello, Milano, Ferioli, 1594 ecc. ecc. Nel
Catalog. reservé de la Collect. Libri si registra anche un raro libretto del
see. XVI, sul finire, stampato dal Tosi in Firenze, e inutilmente da me cercato
nelle biblioteche fiorentine, che s'intitola: Strambotti e rispetti d'amore. —
Negli Excerpta Colombiniana di H. Hakhisse (Paris. Welter, 1887) trovo
citati questi altri opuscoli poetici : n. 353 : Strambotti novi de Notturno
neapolitano ad amican, s. a. — n. 386 : Kispetti d'amore di maestro Marco
DA Foligno e di più autori, Siena, Simeone di Niccolò, 1512 (il nome è
Marco Rosilia) — n. 395: Strambotti d'ogni sorte e Sonetti alla bergamasca
gentilissimi da cantare in su liuto e variati stormenti, s. a. n. — n. 396 : Stram^
botti composti novamente da diversi autori che sono in proposito a ciascuno
che Ì! ferito d'amore, s. a. n. — Sonetti e Strambotti stampati ad istantia
de Hippolito detto el ferrarese, 1534 (v. V. Rossi, Di un cantastorie ferra-
rese del sec. XVI, in liassegna emiliana, II, 8-9). — In un libretto eh' io
possiedo, ma al quale manca il frontespizio, non pero la data e il nome
del tipografo — in Firenze, appresso Giovanni Baleni, l'anno 1599 — trovo
462 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
soltanto questi del Verini e gli altri dell'Olimpo, dei
quali or ora diremo. Habent sua fata libelli: e l'Ar-
dore, come la Crudeltà, del Verini si stampano tut-
tavia: e in mancanza di vecchie stampe, io mi atterrò
nel darne conto, alle moderne riproduzioni, (^)
Diamo un'occhiata rW Ardore, e citiamone qual-
che verso: perchè soltanto al suono, comprenda il
lettore esperto che l'intonazione della poesia popo-
lare è stata abbastanza bene imitata :
Tu se' colei che mi puoi far beato,
Tu se' colei che mi puoi tiar di pena,
Tu se' colei che m'hai preso e legato,
Tu se' colei, che la mia vita mena ecc.
Sia benedetto chi trovò l'amore.
Sia benedetto chi è innamorato, . . .
Sia benedetto e benedetto sia,
L'unica di beltà, la donna mia:
che fa venir a mente que' versi del Rispetto to-
scano :
I
alcuni Strarìibotfi nuovamente composti per il Cofìes Saturnino da Corinahìo
in lode della sua bella Madonna l'aleonda , cui seguono Strambotti di diversi
autori, e poi alcune Villanelle alla napoletana. — Da stampe antiche e da
codici furono recentemente riprodotte o estratte Villanelle e altre cose
consimili; per es. M. Meschini, Villanelle a stampa, nella Zeitschr f. roman.
l'hilolog., voi. XVI e XXVII; M. Menghini e A. Morelli. Alcune Villanelle
alla napolitano, Roma, tip. Sallustiana, 1894 (per nozze Angcli-Zanettopulo);
S. Ferraei, per nozze Solerti-Saggini, Palermo, tip. Giorn, di Sicilia, 1889;
F. NovATi, Villanelle alla siciliana (1554), Bergamo, Arti grafiche, 1897 (per
nozze D'Ancona-Orvieto); V. Rossi, Per nozze Volpi-Buonamici, Bergamo,
Arti grafiche, 1500 ecc. Sul genere alla napolitano, vedi B. Capasso, Sulla
poesia pop. in Napoli, in Arch. stor. prov. napul., anno VIII, fase. 2".
(1) Ardore di amore In cui contiene Serenate, Capitoli e stanze da gio-
vani innamorati con alcune Villanelle alla napoletana e Sonetti dilettevoli,
in qiiest'idtima edizione purgato da molti errori e diligentemente ricorretto:
in Lucca per Domenico Marescandoli, con approvazione: s. a. d. — Ardor
d'amore ossia raccolta di Serenate, Epistole, Sonetti, Strofe ed altre piacevoli
ìime, Prato, 1852, con .approv. — Ardor d'amore, ossia raccolta di Serenate,
Epistole, Sonetti, Strofe ed altre piacevoli rime, lj\\cca.,lìertììn, 1805.— Cru-
deltà d'amore, opera molto bella e dilettevole per gli amanti, nuovamente in
quest'ultima impressione ampliata e corretta, in Todi, con permesso.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 463
Sia benedetta e benedetta sia
La casa del mi' Amore, e po' la mia. (^)
E più oltre :
Le male lingue si possin seccare,
Poiché per lingue son da te diviso ;
che alla lontana ricorda il Rispetto :
Le male lingue che fanno consiglio,
E giorno e notte non si chetan mai. C^)
Ma quest'altra Serenata di partenza resta ancora
tale e quale :
Io veggio l'alba che vuole apparire,
Licenza chieggo, io non vo' più cantare;
Restate in pace, io vo' andare a dormire.
Ch'io non ho tempo di poter più stare. (^)
Si vedon da per tutto gli usci aprire,
E le campane si senton suonare;
Perdon, se t' ho impedita, t'addimando :
Resta, e per sempre a te mi raccomando.
Infatti in Toscana, attenendosi a un tetrastico scelto
nell'ottava, così si canta :
La vedo l'alba che vuole apparire,
Chiedo licenza, e non vo' più cantare.
Che le finestre si vedono aprire,
E le campane si senton sonare.
E si sente sonare in cielo e in terra :
Addio, bel gelsomin, ragazza bella.
E si sente sonare in cielo e in Roma :
Addio, bel gelsomin, bella persona. (■*)
E nelle Marche:
Ecco che l'alba comincia a chiarire,
Le campanelle comincia a sonare,
(1) Tigri, n. 418.
(2) TiGKi, n. 804.
(3) Cfr. questo verso con altro del secondo fra i due Strambotti se-
nesi citati a pag. 116, nota 2.
(<) Tigri, n. 395.
464 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
Le finestrelle se comincia aprire,
Quella dello mi' amor non s'apre mai. (^)
Ma più rozzamente a Benevento:
Vego l'alba che bole escine,
Cerco licenza e non voglio cliiìi cantare;
E le fìneste vego raprire,
Le campane se sentono sunare ;
Se sente sona' 'n gielo e 'n terra,
Addio, bel gesummin, nennella bella,
Se sente sona' 'n gielo e a Roma,
Addio, bel gesummin, bella persona. (^)
Passiamo alla Crudeltà e trascegliamone qual-
che brano :
Bramo la morte e non vorrei morire.
La pace cerco e guerra vorrei fare ecc.
lo son disposto e pronto d'ubbidire
Ciò che comanda la tua signoria ecc.
Quando che per la via passa il mio amore
11 sangue mi si agghiaccia per le vene.
Dal capo al pie mi muto di colore.
Pallida e rossa la faccia mi viene ecc.
Signora, tante volte ti ringrazio
Quant'è in ciel stelle e in mar minute arene ecc.
Sia maledetto chi trovò l'amore,
Sia maledetto chi è innamorato.
Sia maledetto chi ama di buon core.
Sia maledetto Amor, sua legge e stato ecc.
Ed ora volgiamoci all'Olimpo, frate minore e
poeta erotico; o forse meglio, per seguire il corso
naturale delle umane vicende, prima poeta erotico,
fi) GiANANDREA, pag. 124. Grazìosa vari.inte è quella recata d.-iHa si-
gnora Pigokini-Beri, pag. 45:
Ecco che l'alba comincia apparire,
La rondinella comincia a volare ecc.
(2) CoRAZZiNi, pag. 195.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 465
poi frate minore. C) Ebbe gran voga al suo tempo, C)
e dei suoi libercoli in rima furono fatte molte edi-
zioni dal 1518 fino agli anni pili inoltrati del se-
colo XVI ;(■"') una raccolta intera di essi stampata
a Venezia nel 1524, e poi di nuovo nel '38, ci dà i
titoli delle sue diverse Opere poetiche: cioè la Par-
thenia, la Pegrii^ea, YOl'wipia, Y Anlelia, la Nova Phe-
nice, la Gloria d'amore, il Linguaccio, Y Aurora. (*) E
anche autore di un libro di Sermoni da morti (Ve-
nezia, 1525); ma falsamente gli fu attribuita la Polen-
tia d'amore, che il Quadrio (') rivendica al bolognese
Diomede Guidalotti. La Parthenia è libro spirituale,
benché le forme ed i ritmi sieno della poesia ama-
toria, contenendo essa Madrigali a Cristo, Frottole
a Dio e alla Vergine, ecc. (") Di fra le opere del-
l'Olimpo si ristampano tuttora Y Olimpia e la Glo-
ria, (^) delle quali daremo qualche estratto. Ed ecco
qui subito uno Strambotto divenuto popolare:
La buona sera Amor ti dia, Madonna,
E se tu dormi e se riposi in pace ;
Tu dell'albergo mio sei la colonna:
E se' colei che nel mio petto giace:
(1) Nel titolo deW Aurora è chiamato giovane ingegnoso.
(2) G. A. GiLio nei suoi Due dialogi (Camerino, 1564) narra qnesto aned-
doto : " Stando un tratto il Deserto con certi altri signori accademici a burlar
con un libraio in Siena, (questi) disse loro : Attendete pur quanto volete
con questi vostri Danti e Petrarclii, che l'Olimpo mi fa buona bottega, con-
ciosiachè in un anno io non vendo dieci Petrarclii né cinque Danti ma vendo
ben più di mille opere di Bahlassarre Olimpo ,. — La popolarità degli Stram-
botti dell'Olimpo " come più facili „ fra tutti quelli del suo tempo, è atte-
stata da T. Garzoni, Piazza universale, Venezia, 1567, discorso LXXV.
(3) V. Brunet, Manuel, voi. IV, col. 179.
(4) Brunet, ibid. ; Haym, II, 84; Quadrio, II, 227. Vedi anche il lavoro
cit. di S. Ferrari, A proposito di O. da S., Bologna. Zanichelli. ISSO.
!■') Op. cit., voL n, pag. 223; cfr. Fantuzzi, Scritt. bologn.,W, ^^2.
CJ) Catul. Capponi, pag. 274.
(') Posseggo infatti queste stampe del secolo scorso : Olimpia d'amore,
ove si contiene Mattinate, Serenate, Partenze, Strambotti, Capitoli, Sonetti e
Sdegni di amanti: opere dilettevole per i giovani che sono innamorati.
D'Ancona, La poesia pop. ital. — 30
466 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
Non fosti fatta già da mortai donna,
Ma venisti fra l'altre ardente face :
Se ti risveglio, me ne duole il cuore;
Canto per isfogar 1' immenso ardore. (')
In fatti fra i Canti popolari toscani suona cosi mo-
dificato :
La buona sera il elei ti dia. Madonna,
0 vegli o dormi o ti riposi in pace;
Fa' che l'albergo mio sia la colonna,
Sola se' tu che nel mio petto diace:
Sola se' tu che mi puoi far beato,
Viver contento e morir consolato. C)
Spigoliamo ancora :
Ti voglio amare ancor dopo la morte,
Sendoti sempre fedel servitore ecc.
Tu sei del miser cuor la sepoltura,
Ove sepolto l'hai benché sia vivo ecc.
Non posso più cantar che il fiato manca.
Manca la voce e manca ogni mia forza ecc.
Quest'altra ottava è notevole, perchè passata
alle Raccolte napoletane :
Al paragon si conosce ogni argento,
Nella battaglia il saggio capitano,
E nell'avversità l'amico io sento.
Nella fatica l'uom s'è infermo o sano ;
E navigando si conosce il vento,
E nel parlare il rustico villano;
Nel contrastare il dotto disputante.
Nella fermezza il vero e fido amante. (^)
Roma, 1181 (sic) con liccnz.a de" Superiori. Ma sembra assai piìi recente,
e forse fatta su una ristampa del 1811. — Gloria d'amore nella quale xi
contiene Strambotti, Mattinate, Lettere, Sonetti ed ìin'Eyloga curiosa di Bal-
dassarre Olimpio, degli Allessandri da Sassoferkato. In Lucca, con
permesso, s. a.
(1) Lo Strambotto lia duo diverse lezioni neWOlimpia: trascegliamo
dall'una e dall'altra.
(2) Tigri, n. 408.
(3) liacc. napol. I, pag. 14. Il 7 verso: Ai circoli ed ai soyni il negro-
mante.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 467
Passiamo ora alla Gloria d'amore : [})
Felice casa, avventurato letto,
Dove si posa così bel tesoro ecc.
Quest'è quel luogo dove persi il core,
Quest'è quel luogo dove persi l'alma ecc. (^)
(>) Il 11. 187 del Tigri è pui- esso una reminiscenza della Gloria
d'amore:
Vostre bellezze si fan da' capelli
E cadon giù dalle minute ciglia,
Il naso profilato e gli occhi belli,
Le guance rosse e la bocca vermiglia ecc.
E 1' Olimpo tesse parecchie ottave di laudi ."illa sua signora, cominciando
dal capo; qui descrive: Gli arcati negri e le minute ciylia ; o: lì profilato
naso tanto hello; là: Le gtiancie ami due rose ecc.
(2) Ecco alcuni estratti da altre opere poeticlie dell' Olimpo. Dalla
Cammina :
Quel ch'è dalla finestra alla man destra
A tutto il vicinato dà splendore....
Mi parto, e benché parto il cor vi resta:
La buona notte ormai, ch'è cosa onesta...
A farvi riverenza il sol s'è mosso....
Guarda nel cuor, che c'è il tuo nome scritto.
E tu nel mezzo scolpita vi stai....
Tu sei dell'altre donne il gonfalone...
Dell'altre belle porti la bandiera..,.
Dalla iVovn Fenice:
Che del mio cor voi siete la colonna....
Son ritornato, perchè star non posso
Di rimirar la vostra alma presenza....
Vorrei che tutta l'acqua fosse tosco.
Vorrei ch'ogni auge! fosse un falcone.
E vorrei ch'ogni casa fosse un bosco.
E vorrei ch'ogni uom fosse un leone :
E voiTei ch'ogni lume fosse fosco.
Ogni verme vorria fosse un dragone:
E vorrei che la state fosse verno,
E che cadesse Giove nello 'nferno.
Le dure pietre a me son fatte piume.
La pace a me s'è fatta crudel guerra.
Le tenebre mi son splendente lume....
Con le mie man se prendo una viola,
Presto diventa una cocente ortica ecc.
468 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
E qui facciam punto, e forse a taluno sembrerà
che potessimo esserci arrestati da un pezzo. Ma non
senza perchè abbiamo vohito abbondare e soprab-
bondare nelle prove della origine letteraria di sì
gran parte delle poesie cantate dal popolo nostro:
non solo per la stranezza del fatto, che, semplice-
mente enunciato senza arrecarne documenti, avrebbe
potuto trovar molti increduli, ma perchè i molti
esempj dovevano ajutarci a trarne le conclusioni che
ora ne dedurremo, e a toglier forza ad ogni obbie-
zione.
Potrebbe invero del fatto, a prima giunta, re-
carsi una spiegazione diversa : cioè, che i Canti in
forma letteraria non altro fossero se non componi-
menti originariamente plebei, ma qua e là raffazzo-
nati, ritoccati, ripicchiati da mano eulta. Però i
molti raffronti da noi istituiti, componimento per
componimento, debbono a chi vi abbia posto atten-
zione, aver persuaso il contrario, senza tuttavia
escludere, per qualche caso, il procedimento opposto.
Se si volesse dire soltanto che i Canti in forma lette-
raria riproducono, ripetono, esemplano una maniera
di poesia già esistente ne' volghi; che chi li compose
segui al possibile il modo di concepire e di sentire
del popolo, pur nobilitandolo ; che si giovò anche di
vocaboli, di frasi, di versi interi già adoperati dal
popolo per l'espressione amorosa, noi lo concordia-
mo: anzi, è ben chiaro che, queste essendo imitazioni,
non sarebbersi fatte, se la cosa da imitare non ci
fosse già stata. Ma la forma di quelle ottave è di
mente e di mano tutt'altro che popolare: il colorito
generale, la concatenazione delle parti, la fusione
intera del componimento manifesta chiaramente l'o-
pera di chi sia pili o meno esperto al lavoro dell'arte.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 469
Senza che, ponendo a raffronto le due lezioni, ordi-
nariamente noi troviamo più perfetta nelle rime, nel
numero e nella misura dei versi, la letteraria che la
popolare; la quale anche per questo aspetto si dà a
divedere di seconda elaborazione. E pur tuttavia, i
Canti ridotti all'espressione vernacola mantengono
ancora in sì gran quantità frasi e vocaboli apparte-
nenti all'idioma culto, da non lasciar nessun dubbio
sulla loro derivazione da un esemplare in lingua
comune e letteraria. O Questo fatto evidente è un ar-
gomento che taglia, come suol dirsi, la testa al toro.
Un altro fatto che si è mostrato ben chiaro, se
non in tutti i casi, in moltissimi, si è, pur anche,
la derivazione, nella maggior parte dei casi, del tipo
letterario da una anteriore lezione in idioma sici-
liano. (") Ma se l'idioma è il dialetto di una provincia,
rimane letteraria l'indole del componimento. Ora noi
abbiamo visto come dal secolo XVI in poi molti dotti
e culti poeti dell'isola adoperassero il parlar natio
e prendessero a trattare, innalzandola in dignità, la
forma provinciale dell'ottava a rime quattro volte al-
(1) Qui le conclusioni nostre differiscono alquanto da quelle del Ru-
BiERi (pag. 452 e seg.), ma per quello che soggiungiamo qui subito ci accor-
diamo con lui, salvocliè anche nel canto tipico siciliano e primordiale
rinveniamo l'impronta letteraria.
(") Questa sicilianità primitiva dei Canti, in quelli pur anco che non
hanno riscontro in una poesia insulare, o perchè perduta o perchè non tro-
vata ancora, apparisce da certe frasi o parole che sono proprie dell' idioma
siculo, e delle quali già talune abbiamo qua e là rilevate: un'altra ne ag-
giungiamo. Ad es. nella Race, napol. I, pag. 15, leggiamo: Governati, hen
mio, partir degg'io, e nella Race. II, pag. 13: Governati, idol mio, non più
piangete: nella Race. Ili, pag. 9 e 14 : Governati, tiranna, e resta in pace;
Governati, ben mio, abbi pazienza. E questa una forma essenzialmente sici-
liana : ad es. : Guvernati, e ricordati di mia (Vigo, n. 2652): Guvernati,
guverna, duci amuri, Ca lu perdesti a cu' ti vulia beni (AvoLlo, n. 430): Gu-
vernati, curuzzu, ca ti lassù (PlTEÉ, n. 405) : Cuvirnativi, amici, addiu, parenti
(Id. n. 406) ecc. Così anche magarta: ad es. : Race, napol. I, 20: Credendo
fosse vera magarla, che si trova anche nei Canti siciliani : Criju ca ini facesti
magarla (Vigo, n. 2976) ecc.
470 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
ternate. Sono opera, a parer nostro, di quella schiera
di poeti, e dei loro seguaci ed imitatori, per la più
parte ignoti o mal noti al dì d'oggi, C) le poesie di
(1) Come e quanto i poeti del popolo in Sicilia abbiano coltura let-
teraria e di varia specie, potrebbe mostrarlo un poema teologico scritto da
un contadino: V Incredulo cuntertito, j'oema siciliano religioso di Pietro
PrNTEELLO, contadino di Mtissomeli ecc., Palermo, Montiina, 1877. Nacque
il Puntrello nel 180.5 da padre contadino; fin da giovinetto fu inclinato al
poetare: e le funzioni pubbliche e le feste religiose del suo paese volsero
fin da tenera età l'ingegno suo e l'animo al misticismo. Lesse i libri del-
l'Aniico fedele, delle Massime eterne e della Visita di S. Alfonso de' Liguori,
e poi Leggende, il Diario spirituale e le Due morti del P. Lanuzza; imparò
a mente e recitava le Storie dei poeti popolari anteriori e contemporanei: le
Farti della settimana di Ciccu Vutieddu da Mussomeli, il Credo di Cimò,
e altri componimenti del Nicolaci, dell'Amato, del Pituccè, tutti rimatori del
volgo. A venti anni compose i primi versi, di argomento spirituale: e con-
tinuò improvvisando nelle ricorrenze sacre, nell'occasione della mietitura ecc.
Il suo lavoro di maggior merito è questo AeW Incredulo, poema essenzial-
mente teologico e didattico, ch'egli componeva zappando; e quando ave.i
composto un certo numero di versi li incideva colla punta del coltello su
foglie di fichi d'India; indi ritornando in paese dal campo con molte filze di
queste foglie, ricopiava e limava le ottave. Il poema è diviso in parecchi
Capitoli 0 Trattati : La Trinità, Maria Immacolata, I Sacramenti, Il Giudizio
universale, L'Inferno, Il Paradiso, La Morte, ecc. Diamo per saggio queste
due ottave, nelle quali si vede la conoscenza di Dante:
'Rrivannu l'arma a ddu 'nfllici statu
Si trova fra li spasimi e lamenti ;
Ddà li suspiri, ddà cliiantu spietatu,
Diversi gridi, e stridiri di denti;
Stu locu pri Lucifera criatu
È distinatu a la pirduta genti ;
Giustizia fu di l'altu Diu fatturi.
La Summa Sapienza e Priniu Amuri.
Già jiunti l'aimi tra lu 'nfernu, allura
Si trovanu li porti sbalancati ;
Po' cc'è scrittu a li porti ed a li mura :
Niscitinni di spranza, o vui ch'entrati.
Li dinionii contenti, cu primura
Di dd'armi fannu festa arrabbiati;
Lu Salmu nonu ognunu lu cumprenna,
Ch'è locu di ghiustizia echiù trimenna ecc.
E l'autore, lo ripetiamo, è un contadino; ma scaltrito al giuoco della ver-
sificazione dagli esompj anteriori e dalle letture, e ricco di varia erudizione
sacra e profana appresa dalla tradizione e dai libri. — Non dissimile dal
Puntrello, ò un altro poeta siciliano, pel quale vedi Crist. Grisanti, Elogio
funebre del poeta zappatore Carmine Papa, Cefalù, Gussio, 1891; nonché
il vivente Leonardo Insalaco, lavoratore nelle zolfare, del quale informa
A. Medin, in Niccolò Tommaseo, I, 29.
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 471
carattere letterario, che indi passarono lo stretto,
vennero nel continente tradotte in lingua comune,
e poi tornarono a prendere nuova veste dialettale,
specialmente nelle provincie dell'ex-regno napole-
tano : mentre a Roma, nell'Umbria, nelle Marche,
in Toscana si modificarono appena coli' introduzione
di qualche uscita o voce locale. Volendo, dunque,
stabilire le successive modificazioni di questi com-
ponimenti, e come a dire, la genealogia delle varie
forme, avremmo in primo luogo, nella massima parte
dei casi, una lezione siciliana eulta: poi una tradu-
zione italiana eulta: indi varie versioni secondo i
varj dialetti, compreso il siculo volgare, nelle quali
il Canto, via via che si fa popolare, non solo perde
la veste idiomatica letteraria, ma anche smonta un
po' di colore, divenendo proprio delle plebi. Così fatto
sarebbe il processo più generale e comune, che non
escluderebbe in casi speciali, un processo differente,
e diversi intrecciamenti.
Ed ora, riassumendo tutto quello che abbiamo
discorso sino a questo punto, ecco che cosa ci par-
rebbe doversi concludere nel proposito nostro. Di-
stinguiamo nella poesia popolare italiana una forma
spontanea e piìi direttamente plebea, sebbene non
priva di certo artificio, e una forma addirittura arti-
fiziata e letteraria : quella più antica, questa più mo-
derna: quella che risale ai primi tempi della nostra
lingua e letteratura, questa non più vecchia di tre
0 quattro secoli. Ma la fonte prima, e ad ogni modo
più copiosa, dell'una e dell'altra si ritrova in Sicilia,
che e prima e poi, se non altro, diede lo stampo, a
non contare gli esempj, che pur son molti. La prima
forma si trasmise più ch'altro oralmente, di bocca in
bocca, ne' tempi di maggior mescolamento delle plebi
472 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
italiane ; la seconda per la massima parte si diffuse
col mezzo di collezioni manoscritte o a stampa. Ad
ogni modo, se anche nato in Sicilia, il Canto è di-
venuto essenzialmente italiano e comune, sebbene
per diventar tale abbia dovuto cessare di esprimersi
nel volgare dell'Isola. Abbiamo visto come le poesie
della prima specie siensi sparse in gran parte del-
l'Italia dopo una sosta fatta in Toscana, ove presero
le forme di quel dialetto, che è fondamento alla lingua
comune di tutta la nazione. Ma anche le poesie della
seconda specie si popolarizzarono in gran parte della
penisola, dopo che, particolarmente in Napoli, dal
linguaggio insulare vennero più o men bene tradotte
nell'idioma culto e generale.
Seguendo il corso delle vicende proprie al Canto
popolare, abbiamo visto che esso si è continuamente
congiunto, mescolato, intersecato colla poesia arti-
stica e studiata ; e i poeti culti, dal canto loro, più
d'una volta si sono posti ad imitare la maniera poe-
tica dei volghi. Le due forme fino dai tempi più an-
tichi sono come due fiumi, che procedono paralleli,
e spesso confondono le loro acque, per poi separarsi
di nuovo: ma all'uno riman sempre qualche cosa
del sapore e del colore dell'altro. La poesia italiana
fin dai primordj, oltre che ai modelli oltramontani,
oltre che agli esempj dell'antichità, attinse anche a
siffatta vena indigena: e in questa forma spontanea,
naturale, ingenua, noi abbiamo rime sopra ogni ar-
gomento, delle quali cercammo gli avanzi. Tutta
l'antica scuola poetica fiorentina altro non fa che
affinare i sentimenti e i concetti popolari col senso
squisito dell'arte ; e più tardi, quando lo studio degli
antichi sembra averla allontanata di là, vi ritorna
cercando di riunire le due forme disgiunte. Se non
LA POESIA POPOLARE ITALIANA. 473
che, cessata in Italia la vita popolare e nazionale,
le lettere e la poesia si avviano per altra strada,
e il Canto dei volghi si restringe ai soggetti amo-
rosi. La imitazione di questi Canti finisce in Toscana
colle parodie, cioè colle così dette Poesìe rusticali;
mentre altra vena nuova si dischiude in Sicilia per
opera di poeti men noti, ma più fortunati. Ond'è,
che se del Poliziano e del Magnifico, e tanto meno
del Cariteo, dell'Aquilano, del Guidalotti, poco o nulla
trapassa al popolo e resta durevolmente nel suo pa-
trimonio tradizionale, e la sorte arride soltanto a piìi
umili rimatori, come il Verino e l'Olimpo, una gran-
dissima parte invece di ciò che, per l'esempio prin-
cipalmente di Antonio Veneziano, si produsse in
Sicilia sullo stampo plebeo, resta e si perpetua. (\)
Forse finché l'intelletto e l'animo del popolo erano
nella primitiva freschezza e fecondità, sdegnò egli di
appropriarsi le rime dei suoi imitatori: piìi tardi,
quando all'operosità successe per ogni verso la quiete
e la stanchezza, parve al popolo che il desiderabile
fastigio dell'arte, la somma bellezza ch'egli aveva
sempre vagheggiato stesse in quei componimenti di
sottile arguzia, filati giù giù con tanta industria, con
tanto bagliore di immagini e pretensione di forme e
antitesi di concetti e di rime consonanti nella stessa
lor dissonanza. Quindi queste poesie di seconda ge-
nitura, 0 se vuoisi di adozione, divennero popolari,
perchè rispondevano alla nuova condizione dell'in-
telletto e del sentimento del popolo, e si confusero
con quelle, alquanto diverse, di prima e domestica
produzione.
(1) Il Modica, biografo di Antonio Veneziano, riconosce clie alcune
sue ottave " tuttora dai contadini si van cantando per le campagne „. Opere
del Veneziano, pag. xiii.
474 LA POESIA POPOLARE ITALIANA.
Nel corpo, adunque, dei Canti popolari italiani
stanno e con egual dritto, la forma piìi diretta e
spontanea, e l'altra derivata e letteraria: ma in so-
stanza la diversità delle due forme è minore, che non
potesse a prima giunta parere. Ad ogni modo, i
cultori delle forme studiate e artificiose non disde-
gnino questi Canti, dove pur vi lia tanto di ciò che
ad essi piace, e solo par buono; (') e coloro che esal-
tano la Musa delle plebi, perchè credono con antici-
pata sentenza, che debbano i Canti di quella ritrarre
soltanto dalla natura, vogliano riconoscere che or
pili or meno, ma pur costantemente, il popolo italiano
cercò, come è destino suo e sua proprietà in ogni
forma della vita e del pensiero, di porvi in atto
un'immagine dell'intima norma di bellezza, impressa
nell'animo suo dalla Natura non solo, ma pur anco
dalla Storia.
Però, comunque vada, questi Canti ci sembrano
degni di studio, dappoiché questa, di che abbiamo
sì a lungo discorso, è poesia vivente fra il popolo;
e per più di un verso, sia ch'ella abbia pòrto esempj
imitabili ai letterati, sia che dai letterati scendesse
alle plebi, altro non è insomma, se non una forma
particolare della poesia nazionale.
(1) È notevole, come addietro accennammo, che nel secolo nostro il
primo fra i poeti culti a scernere le bellezze della poesia popolare e porgere
ascolto ai Canti delle piazze e dei campi, fu Giacomo Leopardi.
TAVOLA
DEI PEINCIPJ DI CANZONI DEL SECOLO XV E XVI CITATI
NELLE RACCOLTE DI LAUDI SPIRITUALI ( ')
A cavallo a cavai, Pavia, Pavia.
Ed. 1510 e 1512. La Lauda:
O regina in cìel Maria
tutti ti voglion pregare
che ci faccia alfin salvare
iuvochiaiuo ìuvochiani Maria, Maria.
Accoullié ma la belle.
Ed. 1485. L'.altra 1512 legge anche
più erroneamente:
AchoUie mala belle.
Aggio visto l'ammappamondo.
Ed. 1485. Nel Cod. Magliabecliiauo
744 CI. VII:
Aggio viato Tappamondo.
Il cod. ital. 230 della Biblioteca
Eeale di Monaco aggiunge :
Aggio vì«to lo appaniondo
e la carta da navicare,
ma Cicilia pure uii pare
la più bella iwola del mondo ecc.
(1) Ciò che in questa Tavola si contiene è tolto dalle .intiche Raccolte
di Laudi Spirituali, del 1480, del 1485, del 1489 e del 1510 ristampate in Fi-
renze presso il Molini dall'avv. G. C. Galletti nel 1863. Sul principio o alla
fine di quasi ogni Lauda sta scritto, per indicar la notazione musicale: Can-
tasi come; e qui seguono il titolo del canto, o le prime parole di esso; la
qiial cosa giova a farci note non poche delle Canzoni popolari del secolo
decimoquinto e dei primordj del successivo. Avremmo voluto registrare
qui i piincipj delle sole Canzoni profane; ma poiché in certi casi da sole
codeste poche parole era difficile indovinare la natura dell'intera poesia,
e poiché anche le Canzoni sacre furono popolarmente note e diifuse in
que' tempi, abbiamo preferito uno spoglio compiuto di siffatte indicazioni
musicali e poetiche. E inutile dire che ci siamo rigorosamente uniformati
alla dicitura delle antiche stampe; i principj di Canzoni non italiane se-
gnammo in corsivo. Qua e là abbiamo aggiunto qualche schiarimento; ed
altri potranno ancora aggiungersi in seguito.
Dopo di noi, che avevamo già dato un saggio di questi capoversi in
articoli sulla Poesia popolare italiana nella Rivista di Firenze del 1858,
E. Alvisi ampliò, nella sua raccolta di Canzonette antiche (Firenze, tipo-
grafìa Dante, 1884), la Tarala che avevamo posta in fine alla 1" edizione
di questo nostro lavoro, spogliando anche le stampe delle Laudi del 1510,
del 1512, e alcuni manoscritti. Noi ora riproduciamo la Tavola accresciuta
dall'Alvisi, facendovi ancora non poche aggiunte; àa\\e Rime Sacre di Lo-
renzo il Magnifico e di altri Medici edite dal Cionacci (WSOi, e da altre fonti;
ma altre ancora potranno certamente farsene dagli studiosi, specialmente
con uno spoglio più attento di quello che a noi non sia stato possibile, della
Bibliothek der gedriccklen Weltlichen X'ocahnicsik Italiens di E. Vogel (Ber-
lin, Haack, 1892), che tuttavia contiene più ch'altro, componimenti di più
tarda età. Il Saggio sulla melodia popolare del Cinquecento di O. Chilesotti
(Milano, Ricordi s. a.) non ci ha dato in proposito nessun contributo.
476
TAVOLA DEI PRINCIPJ ECC.
Di questa canzonetta si conoscono
due rifacimenti religiosi. Uno è nel
«itato codice di Monaco:
Chi cercasse lo appamondo
per volere Jhesù trovare.
V. Calalogus Codicum Mss. Biblio-
teca Regiie Monacensis, Tom. VI, p. 98.
Un altro è nel cod. Palatino n. 172
della Bibl. Nazionale di Firenze, e
nel cod. 1544 SS. Annunziata:
Aggio visto il cieco mondo
e '1 suo falso dilettare
ogni suo dolcie mi pare
pien d'amaro et grieve pondo.
Agli uccelli, donne, agli uccelli.
Ed. 1510.
Alme eh' V moro
Ed. 1510. Messa in musica da
D. Micliele Pesento trovasi nel 1"
Libro delle Frottole pubbl. da Otta-
viano dei Petrucci: vedi A. Verna-
BECCI, O. de' P. da Fossombrone ecc.
Bologna, Romagnoli, 1882, p. 2 17, n. 42.
Ai me' sospiri non truovo pace.
Ed. 1485 e 1512. Il cod. 119 CI. 35
Magi, ha pur questa Lauda di Feo
B eicari :
Omè, signor, donami pace.
Al gufo al gufo uccelli.
Ed. 1510 e 1512. È pur detta la
Canzone del Gufo. Riprodotta con
questo titolo in Bibl. Lett. Pop., I, 27.
Allegramente.
Ed. 1480 e 1512.
Alle schiave alle schiavone.
Ed. 1485, 1512 e cod. SS. Annun-
ziata n. 1545.
All' inferno voglio andare.
Ed. 1510 e 1512. Vedila riferita
per intero nell'ALViSi, Canzonette An-
tiche, Fii-enze, libr. Danto 1884, p. 5C, e
da S. Febkari, in Giorn. ut. Lett. Ital.,
VL 398. La Lauda:
Al mio Jesù voglio andare
che 'u su legno sta piagato,
versa '1 sangue immacolato
per le mie colpe lavare.
Alma che sei glentlle
Cod. Chig. 577. Vedi più oltre: Non
à lo cor gentile ecc.
Alzando li occhi n' vidi una donzella
È una Canzonetta a ballo di Ser
Giovanni fiorentino, autore del Peco-
rone. Vedi Carducci, Cantilene e Bal-
late ecc., Pisa, Nistri. 1871, p. 176. Il
Cod. Chig. 577 ha la Lauda:
Alzando lì ocelli e' vidi Maria bella.
Ama chi t'ama e chi non t'ama lassa
Cod. Chig. 577 e Riccaid. 2871 con
la variante "Ama donnacce. „ Cos'i
I'Alvisi; ma A. Zenatti (Riv. Crit.
Lett. Ital., II, p. 20) avverte che si
tratta della Ballata di Francesco de-
gli Organi: "Ama, donna, chi t'ama
in piena fede „ (Trucchi, II, 155).
Amar se ti diletta
Cod. Chig. 577 e Riccard. 2871 con
la variante "Amor„.
Amore io vo fuggendo.
Va su questa la Lauda del Magni-
fico Lorenzo: "Vieni a me pecca-
tore „. Ed. Cionacci.
Amor quando nella mia mente miro
el dolce tempo e la stagion fuggita
Cod. Riccardiano 2224.
Angela che mi fai.
È nel Cod. 30 CI. VII Magi. L'altro
cod. 119 CI. 35 Magi, aggiunge:
Angola che mi fai
cliantare atte venire.
Vedila qui addietro a p. 93, dalle
Canzoni a Ballo n. 93: è la Canzone
pubblicata dal Morpukoo in Biblio-
teca di letteratura popolare, Voi. II,
pag. 30:
Auzolla che me fai
de qucnze qui venire,
le gran beUoze eli' ài
hor mi te piaza aldire ecc.
TAVOLA DEI PRINCIPJ ECC.
477
Anche la Lauda di ser Glielo prete
del cod. Chigiano n. 577 è fatta sul
testo di questa Canzone a hallo:
Vergine tu mi fai.
orando a te venire,
perchè non restì mai
per me pregare il sire.
O carità
Ronima piata ecc.
Anima ingrata, da ette vuoi seguire
Ed. 1480. Nell'ed. 1510: "A. i., da
che vuoi partire „.
A pie d'un cesto delia verde erbetta
Cod. Riccardiano 2224.
Apresso un fiume chiaro
Cod. Riccardiano 2871 e Laurenz.
n. 87.
Arai tu mai pietà
Cod. Chig. 577 con la Lauda:
Merzé con gran piata.
Ave, tempio di Dio.
Ed. 1480, 1485.
Benché 'I ciel mi sforzi amarti.
Ed. 1510 e 1512.
Benché partir da te molto mi doglia
Cod. Riccard. 2871. Pubblicata fra
le Ballate di Fr. degli Organi dal
Trucchi (II, 154); e forse fu da lui
soltanto intonata (v. Carducci, 1. e.
320).
Benedetto ne sia lo giorno
Cod. Chig. 577.
Ben finirò questa misera vita.
Ed. 1480 e 1512. La Lauda di Feo
Bel cari:
Ben finirò cantando la mia vita.
Sempre sia ringraziato el dolce idio
che m' ha tratto dal core gran disio
et facto san d'ogni raoiial ferita.
Ben lo sa Dio s' io son vergine e pura.
Ed. 1480, 1485, 1512 e cod. palatino
n. 172.
Ben venga Maggio
Ed. 1485. 1510 e 1512. È la nota
Canzone polizianesca del Maggio "la
quale s'avea a cantare per donne
nell'entrare de' giostranti in campo,
et coronandogli, per loro amore gio-
stravano „ come dice la rubrica di
un antico codice, cit. dal Carducci
nell'ediz. delle rime volgari del Po-
liziano, p. 295. E la Canzone dura
a cantarsi, specie nel contado, fin»
quasi ai di nostri. Il Cod. Riccar-
diano n. 1497 ha una Lauda di Lucre-
zia de' Medici, che cantavasi a quel
modo :
Ben venga Osanna
ben venga Osanna
e la figliuola d'Anna ec.
Quest'altra conservava le rime;
Viene '1 Messaggio
viene '1 Messaggio
e lo Spirito saggio ecc.
L'una e l'altra sono edite nella
raccolta del Cionacci, Firenze. IfiSO;
e con esse anche due altre di Lu-
crezia ToRNABUoNi, che pur vanno
sull'aria di "Ben venga maggio,, e
sono la I: "Ecco '1 Messia, Ecco 'ì
Messia E la madre Maria ,, e la IVl
" Ecco il re forte, Ecco il re forte,
Aprite quelle porte „.
Berrlquocoll, donne, e confortini.
Ed. 1510. E di Lorenzo de' Medici.
Vedi Canti rarnasciolesehi, pag. 7.
Bìen vegnant matres.
Ed. 1485 e 1512, nella quale si nota^
" Cantasi come ; Ben venghant ma-
tres. et come: Pover preson pur ma-
ledies. „
— Canto (el) dello Imperatore.
— Canzona (la) dell' Alloro.
Ed. 1489.
— Canzona (la) di Bardoccio.
Ed. 1489.
— Canzona (la) di ben morire.
— Canzona (la) delle Cicale.
Vi sono due Canti carn. delle Cicale,,
uno (p. 565) che comincia: ' Fuor Ci-
478
TAVOLA DEI PRLN^CIPJ ECC.
cale in malora, fuor cicale „ ; Taltro
(p. 3): " Donne, siam come vedete „,
sulla cui musica va la Lauda del Ma-
gnifico: "Io soli quel misero ingrato,.
— Canzona (la) dei Diavoli.
Ed. 1510. Probabilmente è il Canto
Carneseialesco (p. 190) di N. Machia-
velli : " Gi.à fummo, or non siam
più spirti beati,. Altri di simile argo-
mento ne composero il Giuggiola e
rOiTONAJO (C. carn. 328, 423).
Canzone (la) del Fagiano.
Va sulla musica di essa la Lauda
del Magnifico: "0 Dio, o sommo bene,
or come fai ,.
— Canzona (In) della Forese.
Ed. 1489 e Cionacci. Va sulla sua
musica la Lauda del Magnifico: " O
peccatore io sono Iddio eterno ,.
— Canzona (la) delle Forese di Xar-
cetri.
È del Magnifico (C. carn. 5). Va
sulla sua musica la Lauda del Magni-
fico stesso : " Quanto è grande la bel-
lezza,.
— Canzona (la) dei Fornai.
Ed. 1489. Vedi più oltre a: "Donne
noi siamo giovani fornai „.
— Canzona (la) della Gelosia.
Ed. 1510.
— Canzona (la) della ingratitudine
dei peccatori.
Ed. 1510.
— Canzona (la) delle Nocciòle.
— Canzona (la) de' Valenziani.
Ed. 1489, 1510 e Cionacci. Va sulla
sua musica la Lauda del Magnifico:
" O maligno e duro core „.
— Canzona (la) de' Vecchi.
E il Canto de' Vecchi e Ninfe [Canti
carn. 109) : " Ciascun apra ben gli
oreccbi „. Infatti ncll'ed. 1510, aUa
lauda: " Deli volgete ognun l'afletto ,
trovasi notato : " Cantasi come la
canzona de" veccbi, cioè : Deb guar-
date in quanti affanni , e la 3« strofa
del cit. Canto carnasc, dove comin-
ciano a parlare i veccbi, incomincia
appunto : " Risguardate in quanti
affanni „.
— Canzona (la) de' risi addietro.
Ed. 1489. Va sulla sua musica la
Lauda del Magnifico : " Peccatore]
su tutti quanti „.Vedi nei C. carn. (79)
quello d'uomini che iranno col viso volto
di dietro.
— Canzona (la) di ben morii-e.
Ed. 1510.
— Canzoni (le) a Ballo.
Cela san plus
Ed. 1512. 'SnWOdhecaton del Pe-
TEUcci, n. 26. (Vedi Vernakecci,
p. 236).
Che credi fare, amore
Cod. Cbig. 577. È la 3» fra le IV
Ballate popolari del secolo XV, pub-
blicate da E. Percopo, Napoli, 1884
(Per nozze Coccbia-Del Franco).
Che degglo ma' più fare.
Ed. 1489.
Chiamo merzè o caro signor mio.
Ed. 1485 e 1512. La Lauda di Fran-
cesco d'Albizo:
Cliiarao merzè Jesù clemente e pio.
Chi ara maj pietà.
Cod. 119 CI. 35 MagL con la Lauda:
Amanti del Signore.
Chiarita stella mia
Cod. Chig. 577.
Chi guasta l'altrui cose fa villania.
Ed. 1480, 1510 e 1512. E cod. Eie.
n. 1502 e Magi. SO. 367 e 744 CI. VII
e Cbigiano 577. È la nota Canzone
della Lisabetta cui accenna il Boc-
caccio (IV, 5) e die trovasi nelle
Canzoni a Ballo n. 114. Fu di poi
riprodotta dal Fanfani nella sua ed.
del Decam., dal Carducci, p. 48, e
ultimamente, riducendola a pretta
forma siciliana, da T. Cannizzaro,
(v. Bass. Bibliog. Lettei: Ital. XI, 124).
TAVOLA DEI PRIXCIPJ ECC.
479
Vedi in proposito di questa canzone
I'Alvisi, p. 22. La Lauda di Feo Bel-
CAKI:
Chi non serve Giesù con mente pia
fa grandissimo peccato.
Chimera adormentata
Cod. Bice. 2224. Vedi, più corret-
tamente: "Io m'era ecc. „
Chi mi terrà, amor, che io non canti
Cod. Cliig. 577. E di Aniuìea Ste-
fani e fu pareccliie volte pubblicata:
vedila in Carducci, p. 331.
Chi serve a Dio con purità di core.
Ed. I-ISO, 1485.
Chi vedes&e il Carmagnola
Chavalcar per lo Bresciano.
E citato in una Lauda del cod.
Cln'g. 577 e in un'altra del cod. 307,
CI. VII Magliabecbiano.
Chi vuol ballare a righoletto.
Cod. Magi. 119 CI. XXXV. Il Cod.
Palatino 172 ha questa Lauda:
Chi vuol ballare al regholetto
muova al passo a Porghanetto.
Muova al passo al dolce suono
lo schanbetto facce buono,
achordando il pie col suono,
cliome suona l'angioletto ecc.
Chi vuol castagne
Ed. 1510.
Chi vuol l'anima salvare
faccia bene a' pellegrini.
Ed. 1485.
Come tradir pensasti donna mai
Chi t'amava con fé' più c'altri assai.
Cod. Rice. 2224. Il testo è nel
cod. 151, Kediano della Biblioteca
Laurenziana. Vedi Cantilene e Ballate,
p. 151.
Com' haggio perduto
la dolce mia fatica.
Ed. 1480. E quella di Leonaedo
GiusTiNiAN, ediz. Wiese, Bologna,
Eomagnoli, 1883, p. 11:
Poiché azo perduta
la dolce mia fatica.
Con allegro disio
Cod. Chig. 577.
Con desiderio vo cercando.
Ed. 1485 e 1512 e panciaticli. 27.
In quella del 1512 si nota: "Cantasi
come: "Con desiderio vo cercando,:
et come: "La vita della sglialera ec. „
Conosco.
Ed. 1485, 1510 e 1512. È religiosa,
attribuita a Jacopone:
Conosco ben clie pel ])eccato mio ecc.
Ma nell'ed. 1485 è data a France-
sco d'Albizo, con questa nota: "Que-
sta detta Lauda ha modo proprio
fatto per ser Firenze prete „.
Corona delle donne, o gentil fiore
Cod. Chig. 577.
Cosa crudel m'ancide.
Kel Laurenz. n. 87 e nel Cod. Chig.
577 con la Lauda:
Il cor mi si divide.
Cosi ti faccia. Iddio, contenta te.
Cod. Chig. 577.
Creature la plus bella
Xel Cod. Chigiano .'.77 è detta
" canzona franciosa „ e su vi si can-
tava la Lauda:
Sopr'ogni stella bella.
Crocifìsso a capo chino.
Ed. 1510.
Crudel donna ch'ai lassato me
Così il Cod. Palatino n. 172. Nel-
l'ed. 1480 e 1512 si ha: "O crudel
donna eh' liai lassato me ,, ed anche:
"poi che lasciato m'ai „.
Fra le canzonette del Giustinian
[Bihl. Leti. ììop., II. 4) ve n' è una
che appunto comincia:
O crudel donna despietata
che lassato me hai ecc.
ma non può essere quella che qui si
cita. Vedi: "0 crudel donna ecc. „
Cum autem.
Ed. 148.5.
480
TAVOLA DEI PRINCIPJ ECC.
Da che tu mi hai, o Dio, il cor ferito.
Ed. 1480, 148.5 e 1.510.
Dal giardino
La laude: " Maria dolcie che fai „
nel cod. Cliigiaiio ,577 ha la nota che
" cantasi come quella canzone che
dicie: Dal giardino „. (Abbia che fare
con la canzone: " Vidila in un giar-
din ch'ella s'andava , cit. nell'edi-
zione 1485?)
Dalia più alta stella.
Ed. 1510. È una Lauda del Magni-
fico Lorenzo.
D'altra amanza procaccia
Cod. Chig. 577.
Dammi il tuo amor. Gesù clemente e pio.
El. 1510.
Dammi la morte, dolce Signor mio.
Ed. 1480.
Da poi che aggio perduta.
Ed. 1489 e 1.512. Vedi " Com'ag-
gio perduta „, e "Poi che ecc. „
De' anima.
Ed. 1512. Su di essa si cantava la
Lauda di Messer Castellano:
Alma leggiadra gratiosa e bella
diva et fulgente stella
volta la luce ingrata al divìu sole.
Dedutto se' a quel che mai non fusti
Cod. Chig. 577.
Deh guardate in quanti affanni.
Ed. 1485, 1510 e 1512. Vedi qui
addietro Canzone (la) de' Vecchi.
De' lucie del mio cor non voler ch'io
Cod. Chis. 577.
De' merzè, crudele amore.
Ed. 1510 e 1512. E la Canzona del
Trionfo della Pudicizia: vedi Jiìhì.
Lett. pop., I, .'ìi). La Lauda di Barto-
lomeo DI B. è:
De' merze, Uiesu amore,
di me raiser peccatore
non guardare a' mìei difetti
Deh quel che dentro a me vampeggia.
Ed. 1480. Vedi: "Do che è quel ec. „
De' sappiatevi guardare
0 garzon di non tor moglie.
Ed. 1485. E nell'ed. 1512 si nota:
Cantasi come: "De ecc., et come:
" Horamai sono in età,. La Lauda di
Piero di Mariano Muzi:
Deh sappiatevi guardare
da cattive compagnie
Deh torna omai pecorella smarrita.
Ed. 1510.
De' volgi li occhi tuoi piatosi in giù
Cod. Chig. 577. Ed. 1510: "Deh
volgi gli occhi „.
Di sospirar sovente
Cod. Chig. 577. 11 testo fu pubbli-
cato dal Carducci, Cantilene e Ballate,
pag. 132.
Diletto non spero d'aver mai
Cod. Chig. 577. E anche col se-
condo verso: "Poi che lei per viltà
lassai , nel cod. illustrato da T. Ca-
sini: Vn repertorio giullaresco del se-
colo XIV. Ancona, tip. dell'Ordine,
1881, p. 16.
Dimm', dolze Maria, a che pensavi.
Ed. 1485. 1510. Vedine la notazione
musicale in E. Levi, Lirica ital. an-
tica, Firenze, Olschki, 1905, pag. 67.
— Dingherlindina (la).
Ed. 1485 e cod. Palatino 172.
Dio mi guardi di peggio
Cod. Chig. 577 e Laurenz. n. 87.
Di tuo ben pieni.
Ed. 1510 e 1512 con la variante
" De tu „. La Lauda
Dì tutto bene sé' forte eterno idio
e sé' quel sommo ben desiderato.
TAVOLA DEI PRINCIPJ ECC.
481
Do che è quel che dentro a me vampeggia.
Ed. USO e 1512. E così anche nel
cod. 367 CI. VII magliabechiano. Il
Chigiano 577 legge: "Or ecc. „ Vedi
sopra: "Deh ecc. „.
Dolze fortuna, omai rendimi pacie
Cod. C'iiig. 577, con la L.auda:
Dolze signor, de' don' all'alma pacie.
Donna che d'amor sente
Cod. Chig. 577.
Donna s' i' t'ò fallito
Cod. Riccard. 2.871 ; Laiirenz. 87 e
Panciaticli. 26, che nota essere stata
musicata da Fr. degli Organi. Vedi:
" S' io t' ò fallito ecc. ,.
Donna sti mie' lamenti.
Nella ed. 1+85 è pur citata co-
me: "Donna questi lamenti,. E nel
cod. 1502 Riccardiano : " Donna que-
sti mit' lamenti „. Nella ed. 1489 si
trova con questa nota : " Cantasi
come: Donna esto mio lamento: Vi-
nitiana ,. E nell'ed. 1512: "Cantasi
come: L'amore a me venendo „ et
come : " Donna questi lamenti. „ E
del GiusTiNiAN, ediz. Wiese, p. 1.59.
Vedi anche Canzoni a ballo, n. 87. La
riproduce, sec. il CTadd. Laurenz. 61.
I'Alvisi, p. 59, e cos'i pure il Mok-
PURQO in Bibl. Leti, pop., II, 56.
Donne chi vuol far filare
lino, stoppa over capecchio.
Ed. US5 e 1512. Le rime del Canto
carnascialesco sono cosi conservate
nella Lauda:
Chi salute vuol trovare
guardi nel divino specchio.
Donne gentil, di gran slam mercatanti.
Ed. 1510. E il Canto carnascialesco
di Gio. Francesco del Bianco. Vedi
Canti carnascialeschi , pag. 255.
Donne no' slam giovani fornaj.
E pur citata come la canzona de'
Fornai. V. Canti carnascialeschi, Tp. 39.
Ecco il Messia.
Ed. 1510. E una Lauda di madonna
Lucrezia Toenabuoni-Medici, e la
musica ne è data nel cit. libro di
E. Levi, Lirica italiana antica, p. 96.
Eccho la primavera
Cod. Chig. 577 e Laurenz. 87.
Egli è tutt bon homme.
Ed. 1485 e 1512: con questa va-
riante : " tutto bonome „ forse è una
canzone francese, italianizzata alla
meglio. Così comincia la Lauda:
Egli è il tuo buon Jesù
che ti darà il tuo amore,
egli è Jesù aiguore,
egli è '1 tuo buon Jesù ecc.
Ero beato e mò sono Infelice.
Ed. 1485, 1510 e 1512. La Lauda:
Io fu' creato a essere felice :
pensate in alto et io penso alla terra,
omè ch'io sono condotto in tutta guerra.
E in un tempo fatta ero.
Ed. 1510 e 1512.
En suso in su quel monte
chiara vi surge la fontanella.
Ed. 1485. Vedi : " In su quel mon-
ticello. ,
Et se gli è 'I vero.
Ed. 1512, che dice " Cantasi come :
"Et se gliel vero„, et come gli Stram-
bocti „. Il modo era proprio ad una
Lauda di Feo Belcari per le Murate :
O gloriosa regina del mondo
soccorri le tue serve
— Fagiano (el).
Ed. 1489. Canto d' incerto, che
comincia: "Portiam, donne, per voi
questo fagiano „. (0. carn., p. 113).
Fammi per grazia del tuo piacer degno
così da lungo per vederti vegno. (i)
Cod. Rice. 2224.
— Farunfera (Ut).
Vedi: "Il cervel mi fa,.
(1) L'Alvisi ha veramente regno, ma sembra un error di stampa o di
lettura evidente.
D'Ancona, La i>oesia pop. ital. — 31
482
TAVOLA DEI PKLN'CIPJ ECC.
Fedel e bel cagnìolo.
Il coJ. Palat. 169 ha pure la Lauda :
Benigno et dolze agnìello che ti riposi
in braccio a Gniesa tua diletta sposa.
Ferri vecchi, rami vecchi.
Ed. USÒ e Cod. 119. CI. .35 Magi.
L'ed. 1512 nota '^Cantasi come: L'iier-
ba buona è sempre buona,. Vedi Canti
carnascialeschi, pag. 119.
Finch' i' vivo e po' la morte.
Ed. 1510 e 1512. Vedila per intero
in A. Saviotti, Rime ined. del se-
colo XV. Bologna, Fava e Garagnani,
1893, p. 30.
Fora fora, ingrata.
Ed. 1510 e 1512. La Lauda:
De' contempla auiiua ingrata
alla morte acerba e rea
quonìam conturbat.i sunt omnia ossa mea
Fortuna disperata.
Ed. 1485 e 1512. Musicata da Jo.
Pinarole è nell" OdfeecatoH del Petrucci
(vedi Vernarecci, p. 241 e 243). I
primi quattro versi, in V. Rossi, Let-
tele di A. Calmo, p. 421.
Franza e Franza.
Ed. 1510. È forse il Cauto carna-
scialesco (p. 571):
Fransa, Fransa, viva Fransa
colla sua perfetta usanza
Nel Feeraei, Bihl. leu. pop., I, 17,
comincia: " Franza. Fiandra, viva
Pranza Con la lor perfetta usanza ec.„
Fuor cicale in malora fuor cicale.
Cfr. Canzona (la) delle Cicale.
Galantina, morosina.
Ed. 1485 0 1512 con la variante:
" G.alatina etc. „ e Cod. 30 CI. VII
Magi. Comincia la lauda:
Vergine alta regina
Genitrice di Dio.
Ed. 1485.
Gentil madonna non mi abbandonare.
Ed. 1480, 1485 e 1512. La Lauda
così comincia:
Humil madonna non mi abbandonare
degnia per me il tuo figliuol pregare.
Gesù, fammi morire
Ed. 1510.
Gesù, sommo diletto e vero lume.
Ed. 1485 e 1510. Una poesia spiri-
tuale del Savonarola (ediz. Audin
de Rians, p. 41) comincia: "Gesù
splendor del cielo e vero lume ,.
Giorno perchè mi fai
Il Cod. Chig. 577 nota die " fé ci e
Vanni _.
Giovinetti con fervore.
Ed. 1485, 1510 e 1.512 e Cod. SS. An-
nunziata n. 154.5. È il rifacimento
sacro del Canto carnascialesco delle
Vedove e de' Medici:
De maestri
riparate al
con fervore
LOstro onore.
Giù per la villa lunga
la bella se ne va.
La ma' tornò dal santo
trovò il figliuol mala.
Ed. 1485. 1512 e cod. Magi. 119
CI. 35 con la variante: " Ciiù per la
valle lunga,. L'altro cod. Magi. 367
CI. VII ha " Giù per la via lunga „.
È riportata per intero dall'ALVisi.
pag. 66. Il cod. 367 CI. VII Magi, ed
il n. 1.545 SS. Annunziata hanno la
Lauda (che nell' ediz. 1485 è col nome
di Feo Belcari) :
Giù per la mala via
l'anima mia ne va :
s'ella no' ha soccorso
I>rcsto morta sarà.
Giuroti, donna, per la fede mia.
Ed. 1480, 1512 e Cod. M.agl. 744
CI. VII e Chig. 577. È una b.aÌl.ita di
Matteo de" Grifoni, riportata dal
Carducci, pag. 327 : " Zurote donna
ecc. .
TAVOLA DEI PRIXCIPJ ECC.
483
Guardami, donna, un poco
Ood. Chig. 577, con la Lauda:
Guardami, anima, un poco
Guerriera mia.
Ed. U85 e 1512, e Cod. 30 e 744
CI.VII Magliabechiano e Cliigiano 577.
È quella del Giustinian:
Guerriera mia, consenti a mi
esti lamenti un pocho aldire ecc.
Cfr. Mazzatinti, Ms. iteti, delle
Bibl. di Francia, II, 269: " Guerriera
mia consentirne „ ; e vedila per intero
in S. MoRPrRGO, Canzonette e Stram-
botti in un codice veneto, nel voi. 2"
della Bibl. di lett. pop., p. 31.
Guerra e pace e pace e guerra.
\e ha un rifacimento il Codice
SS. Annunz. 1545.
Horamai che fora sono.
Vedi: " Ora mai „.
Humllmente ad te eh' i son venuto
Cod. Chig. 577.
damai fan bua je vous revojé.
Ed. 1480. I cod. Magi. 744 CI. VII
e Chig. 577 leggono meglio: " Jamais
tant que je vous revoje ,, A quel
modo si cantavano due Laudi :
Giamai laltlarte quanto degna se\
Kou si può dir l'amor che '1 magno re.
Jam pris amore.
Ed. 1485 e 1512 con la variante:
" J'a pris amour „. È neW Odhecaton ;
vedi Vernarecci, p. 23.3.
Jamo alia caccia.
Ed. 1489; ed è anche nel Pan-
ciatich. 27. È il principio di un canto
romanesco, di cui un'antica stampa
è nella Mise. Palatina di Firenze :
Jamo alla caccia su su alla caccia
su su su su ognun se sacia.
Per la porta pertusa
ne andarimo in questa mattina
senza far jiiù possa
a la tristiberina,
che gli è tempo di andare ecc.
Vedila riferita per intei'o dal Car-
ducci, Cacce in rima dei sec. X/T^
e XV, Bologna, Zanichelli, 1896, e in
varia lezione da E. Lovaeiki, Bass.
hihliogr. lett. ital., V, 146.
Una canzone Su alla caccia è ri-
cordata nella Rappresentazione di S.
Uliva (Rappres. sacre, HI, 259).
Il beilo smerlo da me s'è fuggito
Xel cod. Cliigiano 577 si trova
pure la Lauda:
Giesò Cristo da me s' è fuggito
Il cervel mi fa tutto el di e la sera
Ed. 1510 e 1512. Vi si nota " Can-
tasi come la Farunfera cioè: Il cer-
vel ecc. „ L'Aretino neirj}jo<:ri7o ri-
corda la Canzone:
Fara rirunfera, farà rirunfà.
Il primo di di maggio
Canta l'uciel selvaggio
Cod. Chig. 577.
Il senno e be' chostumi e lo splendore
Cod. Chig. 577.
In su quei monticello.
Ed. 1485 e 1512. Vedi: " En suso
in su quel monte,. Il cod. Chigiano
577 aggiunge:
In su quell'alto monte
è la fontana che trabochella
drento vi si bagna
bella fantinella.
Una lauda del b. Giov. Colombini
(Cod. Palatino, n. 172) comincia:
In su quell'alto monte
è la fontana che trabochella
d'oro si ha le sponde
ed è d'argento la sua chanuella.
Vedine la notazione musicale in
E. Levi, Lirica ital. ant., p. 130.
In te, domine speravi.
Ed. 1510. Musicata da Josquino :
vedi Vernarecci, p. 270.
484
TAVOLA DEI PRINCIPJ ECC.
Invidia al ciel nimicha.
Cod. 30 CI. VII Magi.
lo m'era adormentata
cotanto dolcemente udi' cantare
Cod. Chig. 577 con la Lauda:
Io m'er.i adormeutato
e nel pechato forte era moitale.
Insegnatemi Gesù Cristo.
Ed. 148.5.
r seminai lo campo.
Ed. 1485 e 1512. Vi si nota. " Can-
tasi come: I' seminai lo campo, et
come gli Strambotti „. Fra le poesie
del Poliziano, pag. 266; ed il Car-
ducci pubblicò l'intero Rispetto:
I' seminai lo campo e altri il miete ;
aggiorni spesa la fatica invano ecc.
r so' ben perchè m'ài lasciato amore
Cod. Cliig.577.Vedi: ".So ben ecc.,
r son l'angiol buon di Dio.
Ed. 148.5.
I' son più perfida ingrata
che mai fosse donna alchuna.
Ed. 1512. La Lauda :
I' son più perfida ingrata
che mai fusai anima alcuna .
di virtù priva et digiuna
et ne' vitii nutricata.
Quando mi ritorna a mente
come Dio mi fece bella ecc.
r son quella villanella.
Ed. 1510 e 1512. Ne fu pubblicato
il testo dal Flugi nei Eomaniisdie
Studien del Boehmer, Strassburg 1875,
Voi. L pag. 697:
Io son quella villanella
poverina sconsolata
dal mio padre abbandonata ecc.
La Lauda di messer Castellano
dice :
I' son quella pecorella
che '1 pastor d'amore infiamma ecc.
I' son l'uccel che sopra rami d'oro
Ed. 1510 e 1512. È nel libro IV
delle Frottole del Petrucci. musicata
da Marco Cara. (Vernarecci, p. 253).
La Lauda:
Io son Gìesù che sopra e rami d'oro
d'un verde legno in croce mi lamento.
r son più mal maritata.
Ed. 1510 e 1512. Vedi in Casini,
Un Repertorio giullaresco, p. 25, la
Canzone: "Ch'io me so malmarita-
ta „ . Una Canzone della malmaritata
è in Menghini, Canz. ani. del pop.
ital., Roma, 1890, p. 10. E in genere
sull'argomento, vedi Novati, Malma-
ritata, Canzone a ballo lombarda del
see. XV, Genova, 1890.
r ti riveggo bella.
Ed. 1480.
r veggo ben che 'I ben servire è vano.
Ed. 1480 e 1512. È pure nei codici
Riccardiano n. 1502, Magliabecliiaui
367 e 744 CI. VII e 119 CI. XXV e
Chigiano n. 577 con la variante "bon„
che è pure nell'originale del Giu-
stinian (ed. Wiese, p. 385). La Lauda
era:
veggio che '1 servire al mondo è vano
r veggio ben ch'amor m'è traditore.
Ed. 1480, 1512 e Cod. Magi. 367
CL VII e Chigiano 577. Nell'ed. 1512
si nota " Cantasi come: Piangi isven-
turato. et come Io veggio ben ch'amor
m'ò tiaditore: et come Sia benedetto
il d'i „. E del GiusTiNiAN (ed. Wiese.
287). Un testo toscano è nel cod.
P.alatino 241 della Bibl. Naz. di Fi-
renze. Altro testo nel cod. parigino
illustr.ato dal Mazzatinti (II, 26S),
e nel marciano 346 (Bibl. leti, pop.,
II, 26).
Lacrimosa afflitta e stanca.
Ed. 1480.
La bionda trezza
Nel Lanreuz. 87 e nel Cod. Chig.
577 con la nota " di Vanni .. Non ò,
TAVOLA DEI PKINCIPJ ECC.
485
come credette I'Alvisi, la canzonetta
del GlCSTlNIAN:
Vegio la bionda treza e 'I vello ad auro.
L'albero delle ghiande
Ed. 1510.
— Lamentazioni (le)
Ed. 1480.
Lamento di Geremia profeta.
Ed. 1480.
L'amor del tuo bel viso si m'achora
Cod. Chig. 577, con la Lauda:
L'amor di Giesii Cristo si m'accora
L'amore a me venendo.
Ed. 1485, 1510 e 1512. Il Cod. Palat.
169 legge:
L'amore ch'a me venendo
Il Cod. Palatino n. 172 ha una
Lauda che cosi comincia:
L'amore a me venendo
sim m' a ferito il chore
sicché chon gran fervore
strugomi e vo languendo ecc.
Ma il cod. Chig. 577 ne ha un'altra
che si cantava a quel modo:
D'amor tutto m'acciendo.
La morte eh' è spavento de' felici
Ed. 1485.
La puerli bellezza.
Ed. 1512. Vi si nota: " Cantasi
come: Kon son più innamorato : et
come: La pueril bellezza: et come:
Più bel viso del sole „.
Laudate el sommo Dio
Ed. 1480, 1485, 1510.
Laudato idio ch'io son fuor di tuo trame.
Ed. 1510, 1512. La lauda è:
Laudato Dio eh' i son fuor de' legami
delle mie grieve colpe inveterate.
Lassa quanto son lo.
Ed. 1485 e 1512.
La vita della sgalera.
Ed. 1485 e 1512. Il cod. Chig. 577
ha una Lauda "Da poi che '1 mondo
rio „ con questa nota : " Cantasi a modo
de' canti di gh.alea quando si voglia,
e in SU: Dappoi che '1 mio messere,.
La vita non mi piace.
Ed. 1510 e 1512. Una Lauda di
Berto delle Feste cosi comincia:
La vita non mi piace
scliorretta e senza guida
di questo mondo misero e fallace.
L'erba buona è sempre buona.
Ed. 1485, 1512 e Cod. 119 CI. .35
Magi, e Palatino 172 con la nota:
"Cantasi come: L'erba ecc. et come
le Canzone a ballo „. La Lauda:
L'oratione è sempre buona,
se la carità la sprona.
Leggiadra damigella.
Ed. 1480, 1512 e Cod. Magi. 367
CI. VIL 11 Cod. 30 CI. VII Magi., come
il Chig. 577, aggiunge:
Lezadra damigella, o signor mio.
E COSI il Cod. Eie. 1502:
Lezza' danmizella, o signor mio
Kell'ed. 1480, 1512 si nota: " Can-
tasi come: Leggiadra damigella, et
come: Molto m'è a noia de lo mio
messere „.
Leggiadra diva e' mi convien perire.
Ed. 1480, 1512 e cod. Chig. 577.
Le ed. 1485 e 1512 hanno per va-
riante "partire,. 11 cod. Rie. 1502
aggiunge :
Lezadra diva eh' el mi conven partire
tu sa ben coutra.
Levami d'un bel mattino
alla stella Diana.
Ed. 1489. Il Cod. 30 CI. VII Magi,
corregge :
Levami un bel mattino
alla stella Diana.
Cfr. colla Canzonetta musicata da
G. B. Zesso e stampata nella rac-
486
TAVOLA DEI PRDs'CIPJ ECC.
colta musicale di A. Antico: " Me
levava una mattina Per andar ad
un giardino eec. „ che è pur riferita
da A. Zenatti, A. A. da Montone,
p. 28 deirestr. dall' Archivio per Trie-
ste ecc., e dal Reniek, Giorn. st. Leti,
ita!:, XXII, 388. Vedi in proposito di
questa canzone e di una probabile
fonte francese, E. Lovarini, Canz.
pojìol. in Buzzante, p. 19 dell'estr. dal
Fropiignatore. E cos'i anclie qui ad-
dietro a pag. 98 e segg.
Levati su ornai.
Ed. 1489.
Madonna il vostro core
piacciavi aumiliare
Cod. Chig. 577.
Madre che fosti colui che ti fece.
Ed. 1480. Vedine la notazione mu-
sicale in E. Levi, p. 100.
Maggio valente.
Nel cod. Magi. 686 CI. VII si nota:
" Cantasi come Maggio valente, e ri-
pigli ogni volta il verso „. La Lauda
del cod. Chigiauo 577 è:
Grande allegrezza ne porta la gente.
Mamma l'erba.
Cod. Palat. 169.
Ma' si debba disperare.
Ed. 1512.
Mercè ti chiamo, dolce anima mia.
Ed. USO, 1512 e Cod. Cliigiano 577.
È del GiusTiNiAN. 11 Mazzatinti ne
riferisce (II, 267) il primo e ultimo
verso, come di Strambotto adespoto.
Il WiESE, Neunzehn Lieder L. Giusi.,
Ludwigslust, 1885, lo riporta per in-
tero: ha 14 versi. La Lauda:
Mercè ti chiamo vergine Maria,
mercè ti chiamo di Dio madre e nposa,
mercè ti chiamo, che non truovo posa,
mercè ti clùamo per la jiena mia.
Mio ben, mio amor.
Ed. 1485 e 1512. Una Lauda di
Feo Belcari cosi appunto comincia:
Mio ben, mio amore
mia gioia e mio disio,
se' tu Giesu letitia del mio core
cantando vengo a te dolce mio Dio.
Miserere al mio languire.
Ed. 1510 e 1512. La Lauda così co-
mincia:
Miserere al mio fallire,
o Maria sola regina,
tomi tanta disciplina,
nello tuo amor fammi morire.
Molti son da Gesij nel ciel chiamati.
Ed. 1485, 1510.
Molto m'è a noia de lo mio messere.
Ed. 1480 e 1512 con la variante
" m'annoia „.
Mon Seul plesir, ma dolce Joy e.
Ed. 1480, e anche soltanto " Mon
Seul plaisir , come nell'ediz. 1485;
1512 " Monseu psalire „. Altrove, pur
nelle ed. 1485 e 1512: "Mon sir pra „
e " Monsir prasi „.
Mort' è l'anima mia.
Ed. 1510.
Morte 0 merzè, gentil aquila altera.
Ed. 1480 e 1512. Nell'ediz. 1485
soltanto : " Morte merzè „ Il cod.
SS. Annunziata 1545 ha anche la Lau-
da di Feo Belcari:
Anima, mia contempla il mio patire :
i' sono Dio Jesù dolce Signore
elle per tuo amore - in croce vo morire.
Nessuno in gioventù ponga il desio.
Ed. 1485, 1510 0 1512. È .sacra.
Nella bellezza del sommo splendore.
Ed. 1480.
Né tte né altra voglio amar giammai
falsa, po' che cosi tradito m'ài.
Cod. Chig. 577 con la nota: "Fatta
per Vanni „. Il testo è nel cod. 1394
CI. VII Magliabechiano. Cos'i I'Alvisi;
ma come di Franco Sacchetti (e
TAVOLA DEI PRINCIPJ ECC.
487
Franciscus de Organis sonum dedit]
è nel Carducci, p. 223. La Lauda è:
Altro che te non voglio amar giamai
madre di Dio eli' illuminato ci ài.
Noi Siam tre pellegrini.
Ed. 1485. Nell'ed. 1510: " Cantasi
come : Noi slam tre pellegrini, e come :
l' seminai lo campo, e come gli Stram-
botti „. E nell'ed. 1512: " Cantasi co-
me: Noi Siam tre pellegrini, et come
e Rispetti, et a ballo „.
Non à lo cor gentile.
Cod. 30 CL VII Magi, e cod. Cliig.
577 e SS. Annunziata 1544. In questo
si avverte: "Cantasi come: 0 rosa
mia gentile, e come: Non à lo cor
gentile „. La Lauda è:
Alma ch'e ssl gentile
Ma c'è una Lauda che pure co-
mincia:
Non ha lo cor gentile
chi te Maria non serre per amore,
che sempre a tutte 1' hoi-e
tu preghi Dio pel peccatore umile.
Non c'è magior diletto
che sempre agientll donna star sugietto.
Cod. Cliig. 577.
Non chieder, donna, che l'ardente fiamma
Il cod. Chigiano 577 ha pure que-
sta Lauda:
Non chieder, alma, che la dolze fiamma
Non creder, donna, che nessuno sia.
Cod. Chigiano 577, e Riccard.2871
con la v.ariante " nessuna „. E del
Sacchetti: vedi Carducci, 289.
Non più guerra eh' io m'arrendo.
Ed. 1510 e 1512. Una Lauda di mes-
ser Castellano cosi comincia :
Non più guerra ch'io m'arrendo :
lasso omè Giesu che fai ?
col tuo sangue vinto m'hai.
Non più guerra eh' i m'arreudo :
lasso omè Giesu che fai ?
Non son piili innamorato.
Ed. 1480, 1512 e Cod. SS. Annun-
ziata 1545. La Lauda diFEoBELCARi è:
O peccator ingrato,
per te sostenni pene,
et sono il sommo bene - che t' ho creato.
Non so perchè si sia.
Ed. 1480, 1510 e 1512 e Cod. Chi-
giano 577. Anche il cod. Magi. 744
CI. VII dice come l'ed. 1480, 1512;
Non 80 perchè sì sia.
Signor a questa volta.
E fra le Canzoni a ballo n. 74. Una
Lauda di Beenaedo Giambullari.
Nou so anima mia
come tu se' si stolta
che ti sie tolta - dalla voglia mia.
Non so perchè tu m'ài lasciato amore
Cod. Chig. 577.
Nunquam fu/t poena ma/or.
Ed. 1485. Musicata dal Trombon-
cino. E neìVOdhecaton (v. Vernaeec-
ci, p. 235).
0 benigno Signore.
Ed. 1485, 1510, 1512. In questa si
nota: "Cantasi come: 0 rosa mia
gentile et come: O benigno signore „.
0 canzonetta mia.
Ed. 1480, 1512. È del Giustiniax
(ediz. Wiese, p. 21, e Bill. leti, pop.,
II, 20). Nel cod. 30 CL VII Magi, e
nel Chigiano 577 si trova la Lauda:
Dolce preghiera mia
con sospir lachrymosa
vanne a Maria pietosa
che siede in ciel sopr'ogni gelarchia.
0 chor del corpo mio perchè mi fai
Cod. Chig. 577 con la Lauda:
O uom fatto da Dio ijerchò mal fai.
0 crucifìsso che nel ciel dimori.
Ed. 1480; nell'ed. 1485 solamente:
" 0 crocifisso „.
0 crudel donna eh' hai lassato me.
Ed. 1480 e 1512. La variante "poi
che lasciato m' hai , indica che è il
principio della ballata del Poliziano
488
TAVOLA DEI PRIN'CIPJ ECC.
pubblicata dal Carducci, pag. 350, che
appuuto comincia:
Crudel donna, poiché lasciato liai me
per un altro amadore ecc.
Non dissimile è la Canzonetta del
GiusTiNiAN : " 0 crudel donna di-
spietata Che lasciato mi bai, ecc. „
(ediz. Wiese, p. 252).
0 donna del mio chore.
Cod. Eiccard. 1502 e Cod. Magliab.
744 CI. VII e Cbig. 577.
0 Gesù che morte è questa
SI crudele e disonesta
Ed. 1510.
0 Gesù dolce, o infinito amore.
Ed. 1480, 1485, 1510. È del Giusti-
NiAN : vedi Mazzoni, Miine sacre di
un tns. del secolo A'T', Padova, Randi,
1902, p. 7. Vedine la notazione musi-
cale in E. Levi, p. 191. Sulla sua
musica va la Lauda di madonna Lu-
crezia: " Contempla le mie pene o
peccatore „.
0 gloriosa Vergine Maria.
Ed. 1480.
0 gloriosa regina mundi suc-
[curre nobis
Ed. 1480.
Ogni giorno tu mi di.
Cod. Pai. 169. È riferita colla no-
tazione musicale in E. Levi, op. cit.,
p. 190.
Ogniun faccia per se
Cod. Cbig. 677 con la nota " Fatta
da Vanni „. Nei testi piìi antichi co-
mincia: "Ciascun faccia per se„; ed
anche " Ogni liuom ecc. „ nel cod.
Kicc. 2224.
0 Jesù sommo diletto.
Ed. 1510.
0 lasso me tapino sventurato
Ed. 1480 e Cod. Chig.577, che ag-
giungo :
O lassa a me tapina iaventurata,
eh' io fui giovane e bella
e fantinella - fui incharcierata.
0 lasso 0 me dolente.
Cod. italiano 230 della Biblioteca
Reale di Monaco. Vedi Catalogus Co-
diciim Mas. Bibliotecce liegiie Mona-
censis. Tom. VII, pag. 99.
0 maligno e duro core
Ed. 1510 e 1512, con la variante,
o forse errore, " Omognial „. È can-
zone sacra di Lorenzo de" Medici.
Vedine la notazione musicale in E.
Levi, p. 194.
Ornò omè quanto mi sarò.
Cod. P.al. 169.
0 morte dispietata.
Cod. Rie. 1502 e Cbig. 577. V. Can-
zoni a ballo, lì. 113 e anche qui ad-
dietro, pag. 96.
0 partita crudele.
Ed. 1485. In questa si nota: " Can-
tasi come: O partita crudele, et
Doime „.
0 peccator, perchè.
Ed. 1510.
0 peregrina luce, o chiara stella.
Ed. 1480 e 1512. È uno Strambotto
del GlUSTINIAN.
Ora gridar omè posso ben io.
Ed. 1480 e 1512 e Cod. 30 CI. VII.
Magi.
Oramai che fora sono.
Ed. 1485 e 1512 e cod. Palatino
n. 172. Il testo intero sì rinvenne
dall' IvE nel codice n. 1069 della Bi-
blioteca nazionale di Parigi; vedi
Giornale storico della letteratura ita-
liana, Voi. II, pag. 153.
Ora may che fora son
non volio esser più monica.
Arsa li sia la tonicha
a chi se la Testerà più.
•Stava in quclo monastero
Como una cosa perduta ecc.
TAVOLA DEI PKIKCIPJ ECC.
489
e fu pubblicato anche da G. Volpi,
Note di varia er udizione, Fivetize,See-
ber 1903, p. 29. Vedi qui addietro
p. 148 11.
A questo modo si cantava la Lauda
attribuita a Feo Belcaei ed al Savo-
narola (ediz. Capponi, p. 49):
Oramai sono in età
che i' vo aex'vir Gesù
al mondo i' no to* star più
perchè pieu" di vanità.
Cfr. Serie di testi di lingua di
Gaetano Poggiali. Livorno, 1813. To-
mo I, pag. 49. Questa Lauda è pure
attribuita a suor Diana degli Imbar-
cati. Vedi Opere volgari a stampa di
Francesco Zamhrini, Bologna, 1884.
E il capoverso n'è pur dato come
quello su cui modulare altre laudi.
Ed. 1485, 1489.
Ora manze oti.
È nel Cod. 119 CI. 35 Magi, che no-
ta: "Cliantasi chome Ora ecc. chan-
zor.a tedesca a piacevole modo,. La
Lauda comincia:
Egli è "1 tuo buon Giesù
che ti da el suo amore
Or che è quel che dentro a me vanpeggia
Cod. Cbig. 577. Vedi qui addietro :
" Do che è quel ecc. „
0 regina del mio core.
Ed. 148=. e 1512 e cod. SS. Annun-
ziata 1544. E la Lauda di Francesco
d'Albizo è:
O speranza del mio core
sacra virgo alta Maria
Nel cod. Marucelliano C. 256 a
e. 172 si trova:
O regina del mio core
solo conforto all'alma atHicta,
nauzi a tte mi guidi amore
che distrugi la mia vita.
O mia rosa colorita,
poi ch'amor vuol eh' io sia tuo,
segui adunque il voler suo,
che per te languisco e moro
O mio tesoro ecc.
Or è mai tempo, amor, che questa donna
Cod. Cbig. 577 con la variante
" tal „
0 rosa bella o dolze anima mia.
Ed. 1485 e cod. Chigiano 577. È del
Giustinian. Nel Mazzatinti (II, 268)
è recata per intero come Strambotto
adespoto; ed è pure nei Neumehn
Lieder del Wiese, n. 1. Lodovico Ge-
novesi in una lettera del 2 marzo 1473,
descrittiva di una cena carnevalesca
del card. Pietro Riario (pubblicata da
N. Tamassia per nozze Vigo-Magenta,
Roma, Forzani, 1885) narra che ad
un certo punto " cantosse in uno
chitarrino: "0 rosa bella,. La Lauda:
O diva stella o vergine Maria.
0 rosa mia gentile.
Ed. 1480, 1485 e 1512. È pure nei
Cod. Chig. 577, Rice. 1502 e Magi.
774 Ci. VII e 119 CI. XXXV. È del
Giustinian (ediz. Wiese. 138).
0 vaga damigella onesta e pia
Cod. Chig. 577.
0 vaghe montanine e pastorelle.
Ed. 1485 e 1512. Vedi anche Cod.
119 CI. XXXV Magi, e 367 CI. VII.
Si sa che fu attribuita a molti ; vedi
qui addietro pag. 92 n. Si cantava a
quel modo particolarmente una Lau-
da COSI rifatta:
0 vaghe di Giesù o verginelle
dove n'andate si leggiadre e belle,
dov'è "1 vostro Jesù?
0 vergine Maria
guarda la tua Fiorenza.
Ed. 1510. Nell'ed. 1485 semplice-
mente: "0 vergine Maria,.
Pace non trovo e non ho da far guerra.
Ed. 1485 e 1512. È il sonetto del
Petrarca così rifatto da Francesco
d'Albizo :
Pace non trovo e ■
vo sempre in guerra.
Partiti messere, e vanne al tuo cammino
Cod. Chig. 577 e Rice. 2224 con
la variante "va lo,.
490
TAVOLA DEI PRI>'CIPJ ECC.
Peccator che non hai posa.
Ed. 1489 (?).
Pellegrino son tornato.
Ed. 1485 e 1512. Una Lauda di
Francesco d' Albizo :
Pellegrino Jesu incarnato
torno a te con devotioue,
per avere redemptione
di quel sangue eh' à' versato.
Perchè l'amor di Dio.
Ed. 14S5; ed. 1510: "Perchè,.
Per crudel donna vo strugendo 'I core
Cod. Chig. 577.
Per l'allegrezza col parlar d'amore
Cod. Chig. 577 e Laurenz. 87.
Per me l'hor è venuta.
Ed. 1512.
Peschatori se vo' volete
del buon pescie sanza scoglio.
Cod. Chigiaiio 577 con La Lauda:
Pechadori se voi volete
Piangete con Maria.
Ed. 1480.
Piangi [sventurato amante privo.
Ed. 1480 e 1512. È del Giustikian.
Piango el tempo perduto.
Ed. 1485, 1489 (?). Sulla sua musica
va la Lauda di Lorenzo di Pier
Francesco de" Medici: "Virgo madre
Maria „.
Piata mi tira e tanto amore
Cod. Riccard. 1303.
Piglia lo tempo come va.
Ed. 1510 e 1512. La Lauda:
Pi(,'lia il mondo come va:
non sperar nella fortuna
imperUò che cosa alcuna
o tesoro rìcheza o stato
ma' conforto ti darà.
PIÙ bel viso che 'I sole.
Ed. 1480, 1512 e Cod. 30 CI. VII
Magi. Nel cod. Gaddiano n. 161 della
Biblioteca Laurenziana di Firenze, a
e. 36-, la canzone comincia:
El più bel viso del sole
scholora i tua saucti oehi,
che par che fiochi-iiori rose e viole.
La tua volante chioma
eh' ad ogni luscie ecc.
Più con Firenze bella
Cod. Chig. 577.
Plus que je vis le negar grac-
[cieus.
Ed. 1480 e 1512, nella quale solo
si riporta: "Più que ie vis „.
Poiché haggio perduta
la mia dolce fatica.
Cod. MagL 744 CI. VIL Ed. 1512
con la variante " Poch' i' „. Vedi
" Com'aggio perduto e Da poi ecc. „
È la ballata di Leonardo Giustikian :
Poi che azo perduta
la dolce mia faticha etc.
Po' che in festa e gaudio siemo.
Ed. 1510 e 1512 con la variante
" Poi „. Forse è una cosa stessa con :
"Poiché in gaudio siamo „.
Po' che partir convienmi, donna cara
Cod. Kiccard. 2871, Laurenz. 87 e
Panciaticli. 26, dove si avverte eh' è
intonata da Fr. degli Organi.
Poi ch'io non truovo in te, donna, merzé
Cod. Cliig. 577.
Portiam donne per voi questo fagiano.
Si cita come il Fayiano.Yeài Canti
carnasrìaleschi, pag. 113.
Pover presoti pur maladies.
Ed. 1480 e 1512. 11 cod. 30 CL VII
corregge :
Pover presou pur maladic.
TAVOLA DEI PRINCIPJ ECC.
491
Por presonero.
Ed. 1485 e 1512 anche "Pour pie-
son „. Vi si nota: "Cantasi come:
Vatten mon quer, e come : Pour pri-
son„. Probabilmente sono un solo e
identico Canto.
Provar lo possa chi noi crede.
Cod. Chig. 577.
Purità, Dio ti mantenga.
Ed. 1485.
Pur mi posso lamentare
c'amador che fussi mai
d'una eh' m'ò pres' ad amare
Cod. Chig. 577.
Qua! è si duro core
Ed. 1480, 1485, 1510 e 1512. È sacra,
poiché segue: " Che Gesù non vuol
seguire „.
Quando le spalle mia.
Ed. 1485.
Quando sono in sta cittade.
1510.
E in
Ediz. 1485. Neil' altra del
"Quando in questa cittade „.
quella del 1512:
Quando sono in questa ciptade. „
che è proprio il principio della " chan-
zona siciliana „, pubblicata da Ko-
Vati-Pellegkini, Feì- nozze Venturi-
Fanzago, Anconsi, 1884, e di nuovo dal
Volpi, Note ecc., p. 33 :
Quando sono in questa cittade,
per ite sono im paradiso :
quando veggio tuo bel viso,
8on chonteuto e ehoasolato.
Chi nnon fu mai innamorato
vengha a vedere questa siugniora :
clii di lei non si innamora,
ben è di prieta chi nnol sente.
Beato è Napoli piacente
d'està donna graziosa ecc.
Va sulla sua musica la Lauda di
Madonna Lucrezia Toenabuoni Me-
dici : " Venite pastori A vedere Jesìi
ch'è nato „.
Quando ti sguardo in croce, o Signor
[mio.
Ed. 1510.
Quanti martir verginegli
Ed. 1510.
Quanto più gli occhi mia.
Ed. 1485.
Quanto più penso amore
la tua nobiltà.
Ed. 1485 e 1512 con la variante
di correzione " alla „. La Lauda di
Feo Belcari è:
Quanto più penso Dio
la tua gran carità
più sVccende il cor mio
a far tuo volontà.
Questa crudel partita.
Ed. 1489. Vedi Canzoni a hallo
n. 77. Probabilmente è la Canzonetta:
" Questa amara aspra partita „ , mu-
sicata dall'Antico: v. Zenatti, p. 13.
La Lauda dice:
Quest'anima ferita,
o Maria aita aita.
Mia dolente alma tapina
nel peccato è invecchiata,
et in tenebre camina
come cieca et insensata,
prima che sia giudicata
o Maria aita aita !
Quest'è donne un arber grande.
Ed. 1510 e 1512. La laude:
Questa è quella croce grande
la qual tutto el uiondo honora
perchè Dio su vi dimora
el suo sangue per no' spande.
Questo mondo è una ruota.
Una Lauda del Tolosano che cosi
comincia è pubblicata dal Trucchi
nelle Poesie di dugento autori, Voi. Ili,
p. 71 dal cod. Cimitile di Napoli.
Questo mostrarsi adirato di fore.
Ed. 1510 e 1512. La Lauda di ser
Firenze:
Ben ch'adirato si mostri il Signore,
non esser pertinace
a chieder pace allui o peccatore.
492
TAVOLA DEI PRINCIPJ ECC.
Regina del cor mio.
Ed. 1480 e 1512. È del Gustinian.
S. MoRPUKGO la riproduce di sul Cod.
mare. 3-16 nella Bihliot. leti, poji., II,
40. Kel cod. SS. Annunz. 1.544 vi è
anche la Lauda di Feo Belcari:
Geuitrice di Dio
chi con buon quor t'adora
sanza dimora — adempì il suo desio.
Rendo l'armi al fiero amore.
Ed. 1510 e 1512. Nel V libro delle
Frottole dice invece " Prendi Tarmi
o fiero amore , (Vernarecci, p. 257)
ed è musicata dall'Antico. La Lauda
di messer Castellano così comincia:
Rendo l'arme al cieclio mondo
che m'ha tolto ogni conforto:
to' tornare al divin porto
dov' el cor si fa giocondo.
Ricordati, Maria.
Ed. 1510.
— Rispetti (f).
Ed. 1485.
— Ritornello {il).
Ed. 1485.
Rose gigli e viole escon dal viso.
Ed. 1480 e 1512. Vedi anche i Cod.
Magi. 367 CI. VII. SS. Annunz. 1544 e
Chig. 577. La Lauda di Feo Belcari :
S' i' pensassi a' piacer del paradiso
e agli etterni guai,
non sare' mai — dal buon Giesu diviso.
Il cod. Chigiano ha quest" altra
Lauda " di Gerardo d'Astore „ che
dice:
De' fa, Jesù, la mia misera mente
Salymandra Salimandra.
Cod. 30 CI. VII Magi.
Sappiatevi guardare.
Cod. Chig. 577. Vedi:
piiitevi ecc. „
Do' sap-
S'avesse forza sdegno quant'amore
Cod. Chig. 577.
Se ben soletto vado.
Ed. 1510.
Se del signior che nella quinta lucie.
Su questo "madriale, il cod. Chig.
677 ha la Lauda:
Maria el tuo figlio ecc.
Sed io ò ragione, de' non mi far torto,
uccidimi costei che mi vuol morto.
Cod. Eiccard. 2224.
Seghuendo la beltà che 'n te dimora
Cod. Cliig. 577.
Se gli occhi son contenti e consolati.
Ed. 1485.
Se la fortuna mi vuol pur contastare.
Cod. Chig. 577. Sembra la canzone
a ballo:
Se la fortuna o il mondo
mi vuol pur contrastare ecc.
che è ricordata dal Sacchetti, nov.
193, riprodotta col nome di frate
Stoppa De' Bostichi, dal Carducci,
p. 104, e dal Medin (Propugnai. N. S.,
II, 139), ed è anche nella Bibl. Leti,
pop., I, 368.
Se libertà ma' riavessi amore.
Ed. 1480 e 1512.
Se mai adempierà per forz'amore.
Cod. Chig. 577.
Se mal la tua virtii vince la guerra.
Ed. 14S5 e 1512. Vi si nota "Can-
tasi come: Se ecc. e gli Strambotti
0 vero Rispetti „.
Se mai lo viceré viene in sta terra.
Ed. 1480 e 1512.
Se mai s'andrà per pietà costei.
Cod. Chig. 577.
Se m'ascholtate, donne innamorate
Cod. Chig. 577.
TAVOLA DEI PEIXCIPJ ECC.
493
Sempre nel core harò ferma speranza.
Ed. 1480 e 1512. Il Cod. SS. An-
nunziata 1545 ha pur questa Lauda
di Feo Belcari:
Christo Jeaù tu sei la mia .speranza,
io ti prlego con fede
che tu in' babbi merzede,
da poi che '1 tuo amor o^'altro avanza.
Se non mi pare.
Ed. 1485 e 1512. Il cod. Magi. 744
CI. VII, come il Chigiano 577, cor-
regge :
Senno mi pare et cortesia.
E COSI i] cod. Magi. 367 Cl.VIL II
Cod. SS. Annunziata 1544 aggiunge:
"La sopradecta pazzia si chanta co-
me: Senno mi pare e chortesia Di
inpazzar pello bel messia,. E il canto
di Jacoponequi attribuito al Belcari.
Se non ti guardi amore.
Ed. 1485 e 1512 e cod. Chig. 577,
e 30 CLVII 3Iagl.
Se per diletto amor cercando vai.
Ed. 1510 e 1512.
Se poi che vi partisti.
Ed. 1510 e 1512.
Serviteur (le)
Ed. 1510. È neW'Odhecaton, mu-
sicata dal Busnoys 'v. Vernarecci,
p. 236).
Sia benedetto el di che 'I tuo bel viso.
Ed. 1480.
Se v' savè maire.
Il cod. Chig. 577 nota: "Cantasi
come : Se vo' savè matre, canzona
franzese ; o in su: Madre che festi
ecc., A quel modo si cantava anche
l'altra Lauda:
Se Tiioi ghustar el dolze amor Jeaù.
Siamo stati in Fiorenza.
Ed. 1485 e 1512. Il cod. Magi. 744
CI. VII aggiunge:
Siamo stati in Fiorenza
alcuni gioi-ni a riposto
per la magnifìcentìa ecc.
Sia benedetto il di che 'I tuo bel viso.
Ed. 1480 e 1512.
Siam galanti di Valenza.
Ed. 1510 e 1512. È pur detta la
canzona de' Valenziani, o anche Canto
dei profumieri, di Jacopo del Bien-
TiNA. Vedi Canti carnasHal., p. 177,
e Bihliot. lett. popoh, I, 48. Va sulla
sua musica la Lauda del Magnifico:
" O maligno e duro core „. Una lauda
di Bernardo Giambullari :
Sian con somma
alla croce inginocchiati
con fervor in penitenza ecc.
Siccome que' che non sapea niente.
Cod. Bice. 2224.
SI fortemente son tratto d'amore.
Ed. 1480 e 1512. È pure nei Cod.
Rice. 1133 e Magi. 367 e 744 CI. VII
e Chigiano 577.
Signor Leons.
Ed. 1480 e 1512. Là Lauda è cosi
rifatta:
Signor Jean tu sia
lo ben Tenuto.
Signor nostro da Pavia.
Ed. 1485 e 1512.
S' io non dezo veder più gli occhi belli.
Ed. 1510 e 1512.
S' i' ti son stato e voglio esser fedele.
Cod. Chig. 577 e Laurenz. 87.
S' io t'ò fallito donna mi dispiace.
Ed. 1512. E una ballata a dialogo,
riferita per intero dal Carducci, pa-
gina 149 e dall'ALVisi, pag. 75. Xel
Cod. .30 CI. VII Magi, Eiccard.2871 e
Cod. Chig. 577 si ha pur la Lauda:
S' i t' ho fallito Giesu e' mi dispiace
misericordia idio rendimi pace.
Misericordia ecc.
494
TAVOLA DEI PEIKCIPJ ECC.
So ben perchè tu m'aj lassato amore.
Ed. 1-510 e eod. Palatino 172 e 30
CI. VII Magi.
Son stato ne V inferno tanto tanto.
Ed. 1485, 1512 e Cod. 119 CI. XXV
Magi. È uno strambotto tradotto in
latino dal Cantalicio (v. Zannoni,
Poeti cortigiani del Monte feltro, Roma,
tip. dei Lincei, 1894, p. 27\ Il Cod.
SS. Annunz. 1545 ha pure la Lauda:
Son stato in paratils
che pianger dovei'eì
tanto tanto
la notte ei die.
Uno strambotto del cod. Palat. 288,
p. 30, cosi comincia:
Per poco tempo che so' stato fore
son stato ne 1' inferno tanto tanto.
Speranza del cor mio.
Cod. Cbig. .')77.
— Stanze della Passione.
Ed. 1480. 1485.
— Strambotti (gli).
Ed. 1485, 1510.
Tanta pietà mi tira.
Ed. 1485 e 1512. Va sulla musica
di questa Canzone la Lauda del Ma-
gnifico: "Poich'io gustai, Jesu, la
tuo' dolcezza „.
Tardi il mie core harà quel che disia.
Ed. 1485.
Temperai fuor di natura.
Ed. 1510 e 1512.
Tot pur moi
Ed. 1485, 1510 e 1512 con la v.v
riante "Tota per moi,. E così Cod.
SS. Annunziata 1545. La Lauda di
Frakcesco d'Albizo:
Tntto per noi
si dette il sommo Dio.
Tu m'hai legato, amore.
Ed. 1489, 1510 e 1512.
Tutta soletta si già mormorando.
Cod. Chig. 577. La Lauda è:
Tutta gioiosa Cristo va cliiamando
Una donna d'amor fino.
Ed. 14S0 e 1512. È anche nel Cod.
Rice. 1502 e Magi. 744 CI. VII e Chig.
577. Vedi Cannoni a hallo, n. 117.
Un verde boschetto.
Cod. Rice. 2871 e Laurenz. 87. Se-
condo lo Zenatti. la vera dicitura
sarebbe " Per un verde boschetto ,
e così è infatti nel Cod. panciatich.
26, dove è avvertito che fu intonata
da fra Bartolino da Padova.
Uscirò di tanti affanni.
Ed. 1512.
Vaga, bella e gentile.
Ed. 1485, 1489. 1510. 1512 e Cod.
Magi. 774 CI. VII e Chig. 577.
— l'angeli (i) della Quaresima.
Ed. 1480. 148.5, 1510.
Va pure amore cho' le reti tue
Cod. Chig. 577 e Laurenz. 87.
l/aten mon guer.
Ed. 1480. Gali. pag. ,35.Ered. 1512:
" Cantasi come : " Vatten mon guer, e
come: Pour prison,.
Vedranno gli occhi miei la sepoltura.
Ed. 1510 e 1512. Anche per l'Av-
visi sarebbe, come mostrano le rime
della Lauda:
Farmi sempre veder la sepoltura.
O peccator tu non ha più riparo
la tuo bellezza e gioventù non dura:
da identificare collo Str.ambotto (ch'e-
gli chiama rispetto) già edito da me
di sul cod. palat. 288, e. 31:
Videro gli occhi miei la sepoltura
In mezzo agli occhi tuoi che mi sguardaro :
Vidi la vita mia, misera, oscura,
Vidi lo core mio senza riparo;
Hi tanta forza ti creò natura
Ch' al mondo sola sei e non hai paro;
Quando la morte darà 1' nltim' ora
Dirai : queste fur l'ossa che m'amare.
TAVOLA DEI PRINCIPJ ECC.
49i
Vengoti a rivedere anima mia.
Ed. HSO. Kell'ed. 1512 si nota che
" cantasi come e Rispetti „ qnesta
Lauda:
Vengoti a visitare anima amia
e vengoti a picchiar Tuscio del cuore.
È lo Strambotto della incatenatura
del Bronzino. V. qui addietro ap. 188.
Ventura a Dio
eh' i' mi conduca a porto.
Cod. Chig. 577 con la Lauda:
Etemo Dio
Conducim' a porto.
Verbum caro
Ed. U85.
Vicin, vicln, vicln
chi vuoi spazar camin.
Ed. 1485, 1512 e cod. Palatino 172
e SS. Annunz. 1.545. È il Canto car-
nasc. degli spazzacamini, che trovasi
a pag. 110 della raccolta. E ripro-
dotto in Bibliot. leti, popol., I. 51, e
eolla notazione musicale da E. Levi,
p. 296. Il canto Carnascialesco cosi
si converte in Lauda:
Gieaù Gìeaù Giesù,
ognun chiami G-iesù.
Vidila In un giardin ch'ella s'andava.
Ed. 1485 e 1512.
Vidi selvaggia donna
nel dimestiche fiore
tal che rendea sprendore
di sua beltà più che nlun altra donna.
Cod. Eiccard. 2224. II cod. Chig.
577 ha solo il capoverso, anche con
la variante "Chi vidi una ecc.,.
Vidi una foresetta in un boschetto
Cod. Chig. 577 e Riecard. 2871.
Vien a me peccatore.
Ed. 1510.
l/ie sacfì blider dach.
Ed. 1480, 1512 e Cod. SS. Annun-
ziata 1545 con la variante " Viesac
hlider drac „.
Vita non è
Cod. Eiccard. 2871. Forse è il com-
ponimento del repertorio giullaresco,
ilIu.strato dal Casini: " Vita non è
più ria Che troppo amare altrui con
gilosia „ (n. 120).
Viva, viva la ragione.
Ed. 1510 e 1512.
Vivo per voi, madonna, in gran pensiero.
Ed. 1480, 1512 e Cod. Chigiano
con la variante " te „. È una Ballata
di anonimo riferita dal Cardi-cci.
p. 150.
Vox c/amant/'s.
Ed. 1510.
Vuo' tu, donna, eh' io mora
Cod. Chig. 577.
TAVOLA
DELL ARIE ANTICHE, E MODERNE, CHE SI SOX POTUTE
DESCRIVERE SOTTO I NOMI NOTI AL VOLGO
Si è messo questa Tavola per maggior facilità di quegli, che non in-
tendono le Note, e sanno tuttavia cantar le Arie sotto i nomi più volgari. (})
Agli amoi-, agli amor, agli amori.
Alle gioie, alle gioie, Pastori.
Altro non è '1 mio cor.
Amor, poiché non giovano.
Andiam compagni alla riviera.
Antururù.
La ricorda fra le canzoni del tempo
il Redi in un suo Capitolo ;
Apollo, s' a cantar rAutururù
O s'a cantar maestio Bernabò
Tu m''invita9si, o la Cucurucù ecc.
(Imbert, n Bacco in Toscana, Città di
Castello, Lapi, 1890, p. 194).
Aretina.
Alia dell'Ortolano, o Ruggieri, ov-
vero: Donne mi chiamo il maturo.
Aria di Maggio.
Quest'aria è diversa da quella dei Mag-
gi drammatici odierni, della quale ho
parlato nel voi. II delle Origini del Teatro.
Aria, 0 sia ballo di Mantova, ovvero :
Amor fals' ingrato.
Aria di Narciso.
Aria di Prudenza.
Vedi più oltre a Prudenza
B
Ballo, o sia Aria di Mantova ovvero:
Amor fals" ingrato.
Belliri, ovvero: Luccioletta.
Belle Ninfe, al prato, al prato.
Bellissima Regina.
Riferita nella Bìbl. Leti, pop., I, 152.
Bergamasca, ovvero: Lerullelleru.
Bosearola.
C
Carazzena, ovvero: Piti.
Caterinin con quel bocchin.
Che fustu in quella vigna.
Chicchirichì, ovvero: Ecco la bella
Lisa.
Chi vuol moglie la pigli, ovvero: Id
Moda.
Con le luci d'un bel ciglio.
Colonm, colonna.
Con un dolente oimè.
Cotognella.
Crudel, tu vuoi partire.
Da piani, da valli, da monti e colline.
Della vita agili e destri.
Riferita neUa Bibl. Leti, pop., I, 193,
ed è Canto dei giocatori di pallone.
Disperata Ricciolina.
Donne mi chiamo il maturo, o Aria
dell'Ortolano, ovvero liuggieri.
(1) Questa Tavola con tutto il titolo sopra riferito trovasi in fondo
alla Corona di Sacre Canzoni o Laude Spirituali di diversi autori, nuova-
mente corrette ed accresciute per opera di Matteo Coferati, Sacerdote
fiorentino ecc. Firenze, Onofri, 1689. Come si vede, contiene soltanto prin-
cipj di Canzoni profane, cantate nei sec. XVI e XVII.
D'Ancona, La poesia piop. ital. — 32
498
TAVOLA DELL'ARIE ANTICHE, E MODERNE ECC.
Doppo lunga tempesta.
Dorino mio.
Ecco la bella Lisa, ovvero: la C'/iic-
chirichì.
E la medola non ha gambe, ovvero:
la Zampognetla.
E 'n su quel monte.
Anclie adesso si cauta uua canzone
che comincia: Sopra quH monte Noi cene
andremo ecc.
Felicissimo giorno, ovvero: Sison.
Fillide mia, o mia Fillide bella.
Follia.
G
Gallo di Mona Fiore.
Già de' bei rai di quel bel ciglio.
Già l'Elefante è morto.
Ghirumetta.
Vedi qui addietro pag. 117 nota. Ag-
giungiamo clie nel 1799 i deportati di
Cattaro inventarono e cantarono uua
canzone di metro singolare col titolo di
Giroletta.
Gran Bure.
Girolamo, Girolamo.
H
Hai pur mentito, o mentitrice.
L
La bella Boscarol.a.
La mia donna lusinghiera.
La mia padrona Gliiriglù.
La mia Ninfa, Ninfa bella.
La speranza mi va consolando.
Leggiadra donna il vostro volto fu.
Lerullelleru, ovvero: Bergamasca.
Probabilmente è la vecchia canzone
bergamasca Linim bilUirum lirum, musi-
cata da BoBsino mantovano, qualificata
" un sonar de piva in fachiuesco „ (Ze-
NATTI, A. Anticoda Montone, p. 11). Vedi
Vernarecci, p. 249.
Lo rosignolo canta alla gaiola.
Luccioletta, ovvero: la lieìliri.
Madre non mi far monaca.
Forse reminiscenza e rimpasto di più
antica Canzone.
Mentre Amor dentro al mio petto.
Mille dolci parolette.
Minuet.
Moda, ovvero: Chi vuol moglie la pigli.
Mostri terribili.
N
Narciso.
Ninfa cinta le chiome.
Riferita in Bihl. Leti. po]K, I, 145.
Non sa che sia dolor.
0
0 Clorinda.
0 faccia bella.
O mio bel Sole.
O sommo ben.
O Stelle omicide.
0 tu eh' a tutt'ore.
Riferita in Bitil. Leti, pop., I, 197.
Piti, ovvero: Cai-azzena.
Poiché d'empia, e rigida.
Prudenza.
Vedi a Aria di Prudenza. Probabilmente
è un canto che si riferisce a quella ma-
donna Prudenza, elie alcuni dicono gre-
ca, altri di Trani, altri di Ancona, che
avvelenò il marito Matteo Cecchi e fu giu-
stiziata a Firenze nel 1549. Si ha a stampa
un Lamento (in terzine) piWoso che fece la
signora Prudenza anconitana prima che /osse
condotta alla giustizia. Firenze, Sermar-
telli, 1623; Prato, Vannini, 1841 ecc.
Quando vuoi sentir mia voce.
Riferita in lllll. Lclt. pop., I, 201.
Quanti cuori hanno gli amanti.
Quella bella Amor.
Questo è quel loco, dov'ho il mio
cuor perduto.
TAVOLA DELL'ARIE ANTICHE, E MODEKNE ECC.
499
K
Ruggieri, o Aria dell'Ortolano : Donne
mi chiamo il maturo.
Salone.
V. qui addietro pag. 10 n. la citazione
del Manni e qui sotto a Scappino.
S'alcun vi giura, cortesi amanti.
Scappino.
Il Kedi in una Frottola: ... cavato dal
zaino il ribechino, Fece spiccarvi su ?jer eccel-
lenza Il Saltarello o Varia di Fiorenza E
l'antico Sajone e lo Scappino (Imbekt, p. 179)
Vedi Ferkabi, Appendice al Centone, p. 15,
il quale dice che "l'aria di Scappino [il
comico Francesco Uabrielli] ebbe gran-
dissima voga „,
Siam quattro fantolini.
Sison, ovvero: Felicissimo giorno.
Spagnoletta.
Stanotte mi sognava.
Tarantella.
Tempo già fu, donna, ch'io amai.
Tirinto mio, tu mi feristi.
Trescone.
Veddi una pastorella.
Verginella.
Vezzosetta pastorella che mi struggi.
Riferita in Bill. Leti, pop., I, 151.
Voi partite sdegnosa.
Volgi Jole i tuoi bei lumi.
Riferita in Bihì. Leti, pop., I, 158.
Zampognetta, ovvero: E la niedola
non ha gambe.
RISPETTI DEL SECOLO XV
Questi Rispetti sono tratti dal Codice della Comunale di Perugia, C, 43.
Esso è di mano del secolo decimoquinto, e contiene varie scritture in versi.
Pubblicando intera la parte che contiene i Rispetti, ci siamo dovuti qua e
là allontanare dalla lezione del codice, e sempre dalla scrittura. Kel primo
caso ci Siam presi siffatta licenza quando era evidente che il senso era
corrotto, e facile si porgeva la correzione; ma in qualche luogo la lezione
è disperatamente errata. Per aver poi un' idea della grafia del codice, ci
piace riportare la prima ottava come sta scritta dall'antico amanuense:
0 «jilio fra le rose o fiore de lixo
Ho ^ema Lorienttale ho voioletta
Ben credo ttunassisty in paradiso
Per che ttupari ttarpata an^oletta
Et mai non vitty s'i polito viso
Che denttro del chore mi sentto una saetta
Per certo ttunom sie nel mondo natta
Ma fusty imparadiso in^eneratta.
A maggiore illustrazione del codice, ch'io potei copiare a mio agio, per
gentil prestito fattomi dal Municipio perugino, aggiungo che ogni tante
ottave si trovano intercalati alcuni versetti, che cominciando sul verso della
pagina di sinistra seguitano nel recto di quello di destra. Se ci sieno posti
senza r.agione alcuna, ovvero se sieno quasi epigrafi, o anche debbano pren-
dersi per indicazioni della diversa intonazione musicale di varj gi'uppi di
Piispetti, non saprei decidere, Piacemi piuttosto recar qui questi versetti
nella loro esatta grafia :
0 specchio del mio core, io moro ladra.
Le stele per to amore saluto.
no me lasare o fortuna o dio.
Amore gentile nel to peto,
BeLEZA VIVA E LA PIETOSA F.
Costringeme de esere
Sempre to sogeto dolce rosa mia,
Fanciula che de bruna vai vestita.
Io saccio bene che te trovi marito.
To porti in testa uno fornimento.
Una cordela che pare d'ariento.
Perche m abanduni amore.
O spiechio del mio core,
llgiadra damisela o signor mio.
o chiara perla dal viso soave.
Vita e honobe.
502 KISPETTI DEL SECOLO XV.
JESUS MARIA
0 giglio fra le rose, o fior d'aliso,
0 gemma orientale, o violetta,
Ben credo tu nascesti in paradiso
Perchè tu pari tarpata angioletta ;
E mai non viddi sì polito viso.
Che dentro al cor mi sento una saetta;
Per certo tu non se' nel mondo nata,
Ma fusti in paradiso ingenerata.
È il 360 degli Stfambotti di Luigi Pulci, riprodotti da A. Zenatti,
Firenze, Libreria Dante, 1887, dove ha queste varianti: 3 Io credo che —
4 Ch'a' somiglianza, mi par, di — 5/0 mai non guardo il tuo — 6 non
senta — 8 in paradiso da Dio formata.
Tu se' più bella che non fu Elèna,
E se' più bella che non fu Medea,
E se' più bella che mai Pulissena,
E se' più bella che Pantasilea,
E se' più bella che non fu Alcmena,
E se' più bella che Venere idea,
E se' più bella che morir mi fai :
Più crudel donna di te non fu mai.
Ricorda, almeno nella mossa, un Rispetto toscano (Tigri, n. 190):
Siete pili bella che non fosse Elèna,
Avete le bellezze d'Assalone ecc.
Anclie altrove è menzionata Elena (Tommaseo, pag. 186):
Eccola là quella nobi! galera
Addormentata nel mezzo del mare,
E dentro v'era una regina Léna ecc.
Il EuBiEEi, p. 373, in questa regina Léna ritrova un'allusione storica!
EISPETTI DEL SECOLO XV. 503
Tu se' la mia speranza e il mio conforto,
Tu se' pur tutto quanto el mio desio,
Mi può' far lieto e sì mi può' far morto,
Tu se' mia stella in ciel, tu se' mio Dio.
Se m'uccidessi mi faresti torto;
A te m'arriccomando, o signor mio :
Non mi lasciar condurre appresso al fine:
Dammi le rose, e lascia star le spine.
IV.
Tu se' pur bella ! e quanto più rimiro,
Gentil fanciulla, el tuo bel viso adorno.
Veggo stellato tutto el cielo empirò,
La luna e '1 sole, e ciò che v'è d'intorno.
0 gentil perla, o orientai zaffiro
Tu può' far notte chiara e scuro il giorno
Tu sei d'ogni beltà ferma colonna :
Non me lassar morir, gentil madonna.
Chi sarà sì crudel che non t'amassi.
Gentil fanciulla, e '1 tuo bel viso adorno ?
El tuo bel viso dentro al cor mi passi,
E' tuoi occhi leggiadri tanto belli.
Faresti innamorar le pietre e i sassi,
E per le selve innamorar gli uccelli :
E se tu fossi a me punto pietosa.
Al mondo non sarìa più bella cosa.
Il primo verso risponde al 147 delia Serenata del Bronzino, ed è da
aggiungersi ivi, a pag. 202, in luogo della citazione del Rispetto del Po-
liziano. L'ultimo verso ricorda quello della Xencia del Magnifico: Nel mondo
non fu mai sì bella cosa (st. ■!;. Del resto, trovasi tutto quanto fra gli
Slraììibotti del Pulci, n. 45, con queste varianti: 1 sare'... non amassi —
2 idea, e' tuoi biondi capegli ? — Z El vago viso con che il — 4 £" lucenti
ocelli tua più ch'altri begli ? — 7 Se in ver di me tu fossi un po' — 8 non
fu mai. — Ed è anche, anonimo, nei Dodici Rispetti popol. ined. puljbl. da
M. Menghini nel Propugnatore (N. S., Ili) al n. 10, con queste varianti :
1 sare' quel — 2 Dama bella e' tuoi costumi — Z E quel... che 'l mio cuore
— 4 Con quegli occhi sì lucenti e — h la terra — 1 al servo — 8 fu mai.
504 RISPETTI DEL SECOLO XV.
VI.
Se fussi tanto umil quanto se' bella
Non si morrebbe un che per te more ;
Tu se' mio primo amor, tu se' mia stella,
Io son tuo servo e tu se' il mio signoi-e.
Tu m'accendesti al core una tiammella
Che m'arde sempre e strugge a tutte l'ore,
E se non mi darai presto conforto,
Cìentil fanciulla, tu mi vedrai morto.
E il 17'5 degli Strambotti del Pulci, con queste varianti: 1 S' tu —
2 chi per te — .3 lo mio... solo se' quella — i Et ~ (> m'arde e strugge sempre
— 1 Se non soccorri e non mi dai — 8 Tic m'hai vedere in poco tempo.
VII.
De, non voler nella tua giovenezza
Tenermi giorno e notte in pianto e in foco;
Tu sai che in cor gentil non regna asprezza,
Non mi lassar morire in questo loco;
Non lassar consumar la tua bellezza,
Che fugge come gli anni a poco a poco :
Non si può sempre star nell'età verde.
Non si può racquistar chi '1 tempo perde.
Il tema è comune, ma odasi questo Strambotto di Bartolomeo da
Parma (fra le Poesie del Calmeta, Chivasso, 1529).
Non ti varrà pentir da poi eh' avrai
Perduto il fior della tua gioveneza,
Tutta dolente ancor ne piangerai
D'aver usato a me tanta dureza.
E poi son certo ancor maladirai
Che indarno al mondo passa tua helleza;
Tempo perduto niai più s'areequista.
Ma in quel pensando ognor più l'uom s'attrista.
Vili.
Tu fai morire el più Adele amante
Che si attrovasse per tutta To.scana,
E chi cercasse el ponente e levante;
Nascesti tu nel tempo de Diana,
Che tu pari de le sue membre sante ;
Tu se' più bella che la tramontana,
E se' più cruda ; e se morir mi fai,
Gentil madonna, mai pietà non hai.
RISPETTI DEL SECOLO XV. 505
Tu se' più cruda che non fu Nerone
E se' più cruda che non fu Mesenzio :
Fami morire, e fai non a ragione;
Mostrami el mele, e poi mi da' l'assenzio.
Ara' tu mai di me compassione,
Darà' tu mai a me qualche silenzio ?
Ara' tu mai pietà de le mie pene,
Che son ligato con mille catene?
X.
Amor mi dice pur che 'I tempo aspetti,
Ch'ancor di me tapino incresceratti.
Pertanto leggerai questi Rispetti,
E tienli per amor di chi li ha fatti.
Che so che di cantar tu ti diletti,
E so ancor che di me ricorderatti :
A te li scrivo, a te li dono e mando,
E quanto io posso, io mi ti raccomando.
In una Serenata di Minèo (Vigo, n. 12G8) :
Stancati, sunatori, di sunari
Mentri ca sta durmennu la me Dia;
Mi spagnu no la vegnu a rrisbiggbiari
Ccu sta bella famiisa sinfunia ;
Sacciu ca cei piaci lu cantari,
Sidda durniissi 'un la rrisbigghiaria:
Lassatila, lassatila ripusari,
Mi credu ca s" insonna ca è ccu mia.
XI.
L'alba apparisce, o nohil cherubino,
E la stella diana si nasconde :
Ancor la luna ha fatto il suo cammino,
E '1 giorno vien ch'allumina le fronde;
Levati suso, o occhio pellegrino,
Alza la testa da le trecce bionde :
Levati suso, e più non dormire,
E '1 tuo servo fedel ti piaccia udire.
Il 4' verso ne ricorda un altro di un Poemetto noto nel Quattrocento,
intitolato La visione di Yenus, e che da taluno venne attribuito, a torto
secondo noi, al Boccaccio. La prima ottava dice :
506 RISPETTI DEL SECOLO XV.
Già le sue ^liorue d'oro s' intrecciava
Apollo iùella Spagna a meze l'onde,
E le colonne d' Ercole lassava ;
Spento era el d"! che alumina le fronde,
E '1 cielo d'ogni parte si stellava.
Il penultimo verso ricorda quello di una stanza " da dirsi in sulla
viuola la sera per serenata „ edita da 6. Volpi {Note di varia erudiz., Fi-
renze, Seeber, 190.3, p. 23):
Alza le bionde ciglia e non dormire.
Fra i Canti marcliigiaui uno cos'i comincia (Gianandre\, p. 131):
Alza la bionda treccia e non dormire ;
e un Canto toscano (Tigri, n. 263) :
Alza la bionda testa e non dormire ;
verso che tale e quale trovasi in un Canto veneto (Bernoni, punt. IV, n. 45).
Un canto toscano (Giannini, 162):
Alza le trecce bionde e non dormire.
Altri confronti vedi in Gianandrea, loc. cit., e in Marcoaldi, Canti popol.
nmbri, n. 69 : C. popol. latin., n. 40 ecc.
XII.
Soccorrimi, per Dio, che più non posso
Tanti crudi martìri più durare,
Che li occhi tuoi m'han messo il foco addosso,
Tutto m'accendi e non mi vuoi aitare.
Vorrìati favellar, ma io non posso;
Tu che sai el modo me lo de' insegnare :
Vorrei che lussi gentile e cortese
A le mie pene eh' io ti fo palese.
Trovasi anche nei Rispetti a Tishe del cod. magliab., strozz. 638
(ci. VII, 1008), ed è stampato cosi dal Carducci nel Discorso preliminare
al Poliziano, CXIV:
Soccorremi, per Dio ; che più non posso
Tanti crudel martini sopportare;
Co' gli occhi tuoi m'hai messo il foco a dosso,
Tutto mi abbrucio e non mi posso stare.
Vorrùti favellare, e io non posso :
Tu che sai modo me '1 debbi insegnare :
Merzè ch'io t'addomando al mio tormento,
0 tu mi uccidi o tu mi fai contento.
Vedi anche gli ati-ambotti del Giustinian, n. XIV.
XIIL
Come un falcon che de l'aria discende,
Così fanno, madonna, gli occhi tuoi:
Trist'ò colui che tal colpo prende.
Medico al mondo guarir no' lo poe.
RISPETTI DEL SECOLO XV. 507
Dal capo ai piedi tutto tu Io fendi :
Mestier, madonna, è ch'io m'arrenda a voi:
Quegli occhi ad un falcon tu li furasti,
E del ferire tu li ammaestrasti.
XIV.
Chi ara cotanta grazia da Dio,
Chi sarà quello tanto grazioso,
Che goda el tempo che perduto ho io
In questo mondo senza aver riposo !
Chi sarà el tuo marito, o signor mio,
Chi sarà quello avventurato sposo,
Chi sarà quel di sì contenta vita,
Chi metterà l'anel fra le tue dita?
Cfr. colle citazioni al v. 33 della Serenata del Bronzino, pag. 178; e
per l'ult. verso cfr. Giannini, C. p. lucch., p. 22 :
Oh chi ti metterà l'anello in dito?
e C p. tose, in uno Stornello chianaiolor
Chi ve lo metterà l'anello 'n dito?
XV.
Affacciati, signora, e udirai
Costui che par che tanto pianga forte:
A fatto li Rispetti a li suoi guai.
Piange e sospira e domanda la morte.
Oimè, signora, se lasciato m'ài,
Girò baciando le mura e le porte :
Girò baciando le porte e le mura,
Se m'abbandoni, o cara mia signora.
Cfr. colle citazioni al v. 51 della Serenata.
XVI.
Fanciulla ch'hai i capelli d'oro fino
Ed al viso le rose spampanate.
Gli occhi tu ài d'un falcon pellegrino.
Le ciglia nere, e portile inarcate ;
Nelle mascelle porti un gelsomino,
Le labbra rosse, e àie inzuccherate :
O zuccherina 'nzuccherata da Dio,
Che inzuccherasti lo compagno mio !
Bella che tiene li capeglie d'oro, è il principio d'una Canzone musicale
del sec. XVI (Saviotti, in Giotn. star. lett. ital., XIX, 447). Il 3» verso ram-
menta la Fiammetta (Decam., IV, 10) " con due occhi in testa che parevano
d'un falcon pellegrino „.
508 EISPETTI DEL SECOLO XV.
xvn.
0 fior d'ogni bellezza, o viso adorno.
Corona e specchio d'ogni leggiadria,
Gli occhi rilucenti più ch'el giorno
Aprili un poco, e caccia il sonno via :
Non far che indarno vegna quinci attorno,
eh' io son tuo servo e tu la donna mia :
De, fa ch'el mio parlar non sia perduto,
Che sol perchè tu m'odi e' son venuto.
Forse, madonna bella, tu non sai
Com' io son forte di te innamorato :
Non mi conosci, e non m'udisti mai
Andar cantando per questa centrata.
Madonna, sono lo servo che ormai
Novellamente l'alma t'ho donata:
Sono il servo, madonna, che di novo
Tu m'ài ferito, e pace più non trovo.
XIX.
Ferito son d' un'amorosa fiama,
Tutto infiamato con perfetta fede ;
Di vedere i miei occhi [altro] non brama
Ch'el tuo bel viso ched ogn'ora ride ;
El cor mio di dolcezza sempre brama
El tuo bel nome e gli occhi che m'ancide;
Così son preso, e fattomi soggetto
Novellamente del tuo vago aspetto.
XX.
Disposto m'era i giorni di mia vita
Tutti passar senza sentir d'amore;
Giammai non vidi donna si fiorita
Che commovesse el mio 'ndurato core :
Ma poi ti viddi, o rosa colorita.
Gli angelici costumi e '1 bel colore,
Subitamente innamorato fui:
Tanto mi piacque il viso e gli occhi tui.
RISPETTI DEL SECOLO XV. 509
XXL
Deh non fuggir, amor, poiché natura
T'à di bellezza sì bene adornata :
Non perder tempo, non stare più dura.
Centra '1 tuo servo non esser spietata ;
Or t' innamora, angelica figura ;
Fin che hai il tempo vivi innamorata ;
De non fuggir, amor, non esser vile.
Che donna senz'amor non è gentile.
XXII.
Non posso più celar l'ardente fiama,
Che porto per tu' amore nel mio petto ;
Dir mi conviene quanto il mio cor t'ama,
Quanto mi piace il tuo leggiadro aspetto :
Tacer non posso più l'ardente brama
Se non servirti ed esserti soggetto :
Ma ti puoi avvantar d'un servo ch'hai
Il più fedel che donna avesse mai.
Madonna, tu se' molto biasimata
Che tanti amanti passin di qni via :
El se ragiona molto in sta contrata,
Per certo dicon che tua colpa sia :
Ed io soltanto ti aggio scusata
Molte fiate, dolce donna mia :
Però ti priego, non li ritenere,
Cacciali via, e fammi sto piacere.
Il V. 3 ricorda quel della Kencia (st. Ili: Pel vicinato molto si ragiona.
XXIV.
Credea che avessi l'animo gentile
Quando mi festi, donna, innamorare,
Io t'ò trovato disleale e vile,
Che tu non ami chi ti vele amare ;
A tutti attendi se fussen ben mile,
Con tutti quanti stai a vagheggiare :
Madonna, se 'sti modi ài a tenere.
Tempo verrà che te 'n potrai pentère.
510 RISPETTI DEL SECOLO XV.
XXV.
Io maledico l'ora, il giorno il punto,
Il mese e l'anno che m' innamorai :
Io maledico Amor che m'à sì punto,
Che vo chiamando Morte alli miei guai,
E la Fortuna a torto m' ha congiunto
Che io sia tuo, e mia tu non sia mai ;
E vo piangendo come disperato,
E non ti vien di me, donna, peccato.
Un Canto siciliano (Vigo, n. 3874) :
Fui di l'occhi mei, fui, ti dicu.
Non voggliiu amari ccliiu stu cori 'ngratu ;
Ha tantu tempu mi si' statu araieu,
Ora di hi me cori discacciata.
Ti malidicu iu lu ben sirvitu,
Puru lu tantu tempu che t' be' amatu;
E tuttu quanta ti lu malidicu:
Malidittu sugn' iu ca t' haju amatu.
Un antico rimatore, citato dal Carducci, Cantilene e Ballate, p. 268 :
Io maledico l'ora e '1 punto e '1 d''i
E '1 luogo e '1 tempo, dove Amor mi fé'
Veder le tue bellezze ecc.
Benedizioni, invece di maledizioni, in proposito di amore e dell' innamo-
r.imento annovera, togliendole specialmente da Poesie popolari, lo Schu-
CHAKDT. pag. 121, alle quali aggiungo io quest'ottava del Verini ueir.4>"(ior
d'amore :
Sia benedetto chi trovò l'amore,
Sia benedetto chi è innamorato,
Sia benedetto chi ama di cuore.
Sia benedetto chi è sempre amato.
Sia benedetto chi amando muore,
Sia benedetto amore e il suo stato,
Sia benedetto e benedetta sia
L' unica di beltà, la dama mia.
Che rammenta que' versi del Rispetto toscano (Tigri, n. 449):
Sia benedetto e benedetto sia
La casa del mi' amore, e poi la mia.
XXVI.
Addio centrata, addio el mio redutto:
Piangendo el mi conviene abandonai'e ;
Non m'ò giovato a dire ajuto ajuto,
Non m'è giovato le braccia incrociare,
RISPETTI DEL SECOLO XV. 511
Perchè '1 mio bel servire e' l'ho perduto;
Più bella donna non potrò trovare :
Con gli altri amanti io anderò doglioso,
Col capo chino e col cor lagrimoso.
Cfr. per gli ultimi due versi questo Rispetto (Giannini, C. ì». tose,
pag. 226):
Ne mai più riderò né farò festa,
Con altre donne abbasserò la testa.
XXVII.
Più lieto amante in questo mondo fui;
Ora mi trovo el più disconsolato.
Questo mi vien per lo mal dir d'altrui :
Or male n'aggia chi me n'ha incolpato;
Ancora spero di veder colui
Stentare al mondo sol per sto peccato :
Ancora spero di veder vendetta
Di quella falsa lingua maledetta.
Cfr. qui addietro a p. 166 n. e gli Strambotti del Giustinian, n. XXI.
Ed è fra gli Strambotti del sec. XV pubbl. da V. Gian (Giorn. stor. ìett. ital.,
IV, 53) con queste varianti: 1 amato — 2 vezo — 3 E q. si è sol — i: tual
aza — 5 Che ancora credo — 6 per questo — 1 E ancora credo. È anche
nelle Rime amorose del sec. A'F pubbl. da V. Joppi, Ladine, 1879, con queste
varianti : 3 mi avvien — 4 Che mal ne abbia chi mi gli ha — 6 x>^'' questo —
8 lingua falsa e.
xxvin.
Ogn'uom sta lieto, e io meschino mai
Non mi posso veder, sono doglioso :
Da poi che in te, fiore, m' inamorai
E' par ch'el ciel mi sia contrarioso.
Lo viver m'è tornato in pianto e in guai,
E della morte io son desideroso :
Fosse a venire, e non venisse mai,
Lo giorno che di te m' inamorai !
Cfr. colla lezione in Bibl. lett. pop., II, 75: 1 ormai — 2 Se non —
3 Del ziorno che datte — 5 Diletto m'è rivolto — 7-8 Morir vorria e non
posso morire Kè tante pene non posso soffi ire.
XXIX.
Giojoso vorìa star, ma la Fortuna
Per mille modi par che mi molesta ;
)12 EISPETTI DEL SEGOLO XV.
E par elle '1 cielo, le stelle e la luna
Giri d' intorno ogni allegrezza e festa.
D'amarti non starò per cosa alcuna,
E la mia fé si farà manifesta;
Sarò fedele, e tu '1 potrai vedere :
Per molti modi tei farò sapere.
Cfr. gli Strambotti del Giustinian, n. XII.
Tuo servo son, madonna, e tu m'ancidi
Con gli atti tuoi e con la guardatura :
Da casa tua passo e non mi ridi.
Ma gli occhi abbassi con la ciera scura.
Innamorar mi festi, or mi disfidi,
Spesso fai impallidir la mia figura,
E se ben guardo, morto vo per via :
Tant'è le pene cli'à la vita mia.
XXXI.
Perla gentil, che mai non sei partita
Dalla mia afflitta e tribulata mente.
Cristo ti doni allegrezza compita
Quanto desidra l'alma tua piacente.
Or qui venuto son, ora m'aita;
De, non abbandonar 'sto tuo servente;
Che sempre più che Dio io faggio amata
Or mi soccorri, o rosa angelicata.
Le male lingue pur lassale dire,
Che dal mal fuogo (tutte) arse sia ;
E se credesse ben dover morire
Io non starò di passar quinci via.
Quando mi vedi di qua via venire
La verdura me batte notte e dia ;
E se '1 tuo amor mi fa di qui venire,
De, non mi far, donna gentil, morire.
Uno stornello toscano (Giannini, C. p. Inceli., p. 10.51:
Tutte le male lingue lasci.i dire.
Quel verdura mi riesce difficile a intendere. Noto soltanto clic in un canto
consimile veneto (v. pag. 2.56) si legge: ti gieri in camara serata E nii
meschino fora a le verture.
RISPETTI DEL SECOLO XV. 513
XXXIII.
Ma se Madonna m'è stata casone
D'abbandonarmi senz'aver fallato,
Io prego l'alto Dio che li perdono
E facciala pentir de 'sto peccato:
Ma penso se vai dire alle persone,
Che chi è cagion non crede all'ammalato.
Però, 0 dolce amor, fagli sentire
Oh quant'è acerbo il mio grave martire !
XXXIV.
Io son disposto di quinci venire.
Vaga leggiadra donna, per tuo amore,
E più che mai ti voglio servire
Ch'omo fedele, amante e servitore :
Ma una grazia ti voglio richiedere.
Che non mi lassi per altro amadore ;
E a lui vedessi un cortello nel core
A chi dispiace eh' io sia tuo amatore !
L'anima mia ti voglio lassare.
Che me la salvi per ricco tesoro ;
Per bella carta mi voglio obbligare
Di non ti abbandonar perfin eh' io moro.
A la mia vita ti voglio portare
Nel mezzo del mio cor scolpita d'oro :
D'oro ti vo-glio portar nella mente.
Che sempre ti sarò obbediente.
Confronta il Canto toscano (Tigri, n. 461):
Piglia la penna, il calamaro e il foglio,
Scrittura ti vo' far della mia vita:
Du' testimoni alla presenza voglio,
Acciò che tu non negbi la partita:
Se la partita a me la negherete,
Sarà dal poco ben che mi vorrete.
XXXVI.
Io faggio posto nome la piti bella.
Cara madonna, perch'ai mio cor piace:
Mo abi per certo questa novella
D'Ancona, La poesia pop. itaì. — 33
514 EISPETTI DEL SECOLO XV.
Che li tuoi occhi sì mi fan languire.
Tu sei savia e pari un'aiigiolella,
O dolce donna, tu mi fai morire ;
Per fin eh' io moro sarò tuo servitore,
E fitta mi starai sempre nel core.
xxxvn.
Quando io mi penso del bello partito
Cli' io persi sol per non aver baldanza,
Vorìa esser morto o vivo sepellito,
0 posto in croce per tanta fidanza :
Per tristezza mi trovo isbigottito
Per via dell'amorosa e bella amanza;
Se a quello luogo, donna, non ritorni,
Morire mi vedrai in pochi giorni.
Kel cod. Laurenziano SS. Annunziata, 122. dice così:
Quand'io mi penso, oimè del bel partito
Sol che perdei per non aver baldanza,
Ben vorrei esser vivo sepellito ;
E porto in cuore pur tanta tristanza.
Che di baciarti non fui sì ardito
La tua boccuccia di tanta dolcezza.
Che se a quel luogo presto non ritorni,
Morto mi troverai in pochi giorni.
xxx^^II.
Se '1 potesse esser, io vorìa sapere
Come e' ti piace il mio leal servire:
Se se' contenta eh' io vegna a vedere
1 tuoi bei occhi che mi fan morire.
Non mi tener celato el to' volere,
Secretamente mandamelo a dire :
Se mandi messo, fa che '1 sia celato,
Che '1 nostro amore i' tegna ben secreto.
XX XIX.
Quattro parole ti voglio ridire
Poi che m'avesti, donna, abandonato.
.E la prima è che tu mi fai morire,
E l'altra ch'io vi sia raccomandato:
La terza io non la po.sso sotferire :
Dammi la morte, io sono apparecchiato.
RISPETTI DEL SECOLO XV. 515
S'io muoio ch'io non sia da voi aiutato,
Vostra sarà la colpa e lo peccato.
Vedi qui addietro (p.425; e Io Strambotto XX del Giustinian (v. i con-
fronti in Sabatini, Alcuni St>: di L. G., Koma, 1890, p. 13). Si trova già nel-
VAnconiiana del Ruzzante (v. Lovarini, p. 25) in questa forma:
Quattro suspiri te vorrie mandare
E mi meschino fusse ambassadore:
Lo primo si te deza salutare,
L'altro te conta lo mio gran dolore;
Lo terzo si te deza assai pregare
Che ti confermi questo nostro amore :
E lo quarto te mando inamorato,
Xon mi lassar morir desconsolato.
Un Canto toscano (Tigki, n. 263):
Alza la bionda testa e non dormire,
Non ti lasciar superar dallo sonno :
Quattro parole, amore, io son per dire,
Che tutte e quattro son di gran bisogno.
La prima, ell'è che mi fate morire,
E la seconda che un gran ben ti voglio :
Laterza che vi sia raccomandato;
L' ultima che di voi so' innamorato.
Cfr. GlANANDREA, pag. 131; Maecoaldi, Canti popol. umbri, n. 69; Canti
Xiopol. latini, n. 29, 40: Ive, pag. 72; Villanis, XXV Stramb. pop. zaratini,
n. 1; Mazzatinti, n. 254; Giannini, C. p. tose, 162, e lucchesi, p. 85; Ron-
dini, p. 49.
XL.
Ogni uomo sì si vuole inamorare
Credendo che l'amor si sia piacere :
Non vi si metta chi non lo sa fare,
Che lo conduce al punto del morire.
Ma ben ti voglio questo ricordare,
Ch' io ti sarò un leal servitore :
Tu sai. Amore, ciò che 'I mio cor vole :
Al bon intenditor poche parole.
Cfr. per 1 due primi versi, Giannini, C. p. tose, p. 141 :
Credevo che l'amore fosse un gioco ecc.
XLI.
S' io mi potesse tanto gloriare
Che m'appellassi per tuo servitore,
Voria alle tue voglie satisfare,
E conservarti sempre lo tuo onore.
516 RISPETTI DEL SECOLO XV.
Pur eh' io potesse ben poterci stare
Nella tua grazia, caro mio signore,
Sarìa contento più ch'uomo che sia,
- Se tu m'amassi, dolce anima mia.
Nei clt. Rispetti a Tisbe suona cosi (Carducci, in Prefaz. al Poli-
ziano, pag. cxiv) :
Se mi potessi tanto groliare
Ch' io m'appellassi per tuo servidore,
E tutte le mie voglie sodisfare.
Sempre s.ilvando, i' dico, il tuo onore,
S' i' fussi certo di potere stare
Nella tua grazia, caro '1 mio signore,
Sare' contento più clied uom die sia,
Se tu m'amassi, dolce anima mia.
XLIL
Ecco, madonna, lo tuo servitore.
Ecco colui che ti vuol tanto bene,
Ecco colui che ti chiama Signore,
Ecco colui che si muore per tene:
Aggi pietà de lo tuo servitore,
Egli è colui che per te porta pene :
Egli è colui che mai non trova posa:
Per Dio, madonna, siate graziosa.
Non ti credetti mai tanto fallire
Che da te, donna, fossi abandonato.
Misericordia, quanto se' crudele.
Che fai morir lo tuo inamorato !
L'omo che falla e poi torna a mercede
Quel fallo fatto siagli perdonato.
Ahimè meschino, quanto lungo tempo
Son stato servidor ma legnio al vento !
XLIV.
Recordati di me, che non fu mai
Omo che una donna tanto amassi :
E degli amanti attroveresti assai.
Ma no chi tanta fede a te portassi.
Però, fanciulla, guarda quel che fai.
Non credere a ogn'onio che qui passi :
Però che spesso ingannato si trova
Chi lassa la via vecchia per la nova.
RISPETTI DEL SECOLO XV. 517
XLV.
Portato ò più pene iu vita mia,
E per amor son stato a gran perigli ;
Ma i' non credo aver melenconia
Che a cento a una a questa si somigli ;
Un vermine ò nel cor che par che sia
Un can che per istizza il cor mi pigli,
E mai non fina notte né dì né ora,
Che a poco a poco tutto mi divora.
XLVI.
Tutta la notte, lasso me dolente,
Quand'ogni omo è posto a riposare.
Piango e sospiro dolorosamente
Fin la mattina quando il giorno appare;
Il dì eh' io doverrìa star fra la gente
Convienmi in qualche luogo ascoso stare,
Ch' io non sia visto da persona alcuna
Pianger la dispietata mia fortuna.
XLYII.
Che fai, dolce speranza di mia vita,
Che non soccorri il tuo servo che more ?
Li giorni volan come fan saette :
Pure aspettando, io muoro per tuo amore.
Poi che bellezza e gioventù t' invita
Prendi piacer, che '1 te Io mostra Amore :
Se lasci andare il tempo, tu vorrai
Darti piacere quando non potrai.
Cristo ti fece, donna, la figura.
Lui stesso credo che la lavorasse:
Siete gentile e nobil criatura,
Mandata al mondo ch'ogni uomo v'amasse.
Se '1 si sforzasse il cielo e la Natura
Non farìa un'altra che ti assomigliasse ;
Tanto se' bella che lo sole passi :
Giorno faresti se la notte andassi.
518 KISPETTI DEL SECOLO XV.
XLIX.
L' uomo fallisce a Dio mille fiate,
E pur ch'e' si ripenta e' gli perdona :
Non fa [si] come voi, madonna, fate,
Che per diletto uccidi ogni persona.
De, lassa andare tua crudelitate.
Donna che di beltà porti corona :
Non fu mai bella che non fusse dolce,
E tu sei più che bella, e sei feroce.
Cavami d'este pene e d'esto fuoco,
E parla un poco a quel che t'ama tanto :
Ch'io vo penando e mai non trovo luoco;
Oimò eh' io moro per te, volto santo !
De, non tener le mie parole un gioco.
Abbi piotate al mio nojoso pianto :
Fammi contento, che n'è tempo omai :
Non mi lasciar durar con tanti guai.
LL
Io vivea senza sentir d'amore.
Non avea donna a cui volessi bene.
Quando m'apparì innanzi un bel fiore.
Per dare alla mia vita amare pene:
Subitamente m'entrasti nel core.
Come saetta che dall'iirco viene ;
La prima volta che mi riguardasti
Lo cor s'aperse, e tu dentro v'entrasti.
Vedi gli ytrambotti del Giistinian, ii. XI.
0 chiave ch'apre e chiude lo mio core,
Consolameiito della vita mia,
0 medicina del mio gran dolore.
Per te non ho riposo notte e dia.
Tanto n'è inamorato lo mio core.
Fussi in le braccia tue, madonna mia!
RISPETTI DEL SECOLO XV. 519
Fussi con teco una notte d'inverno;
Cento cinquanta poi stessi in inferno.
Il 4* V. ricorda quel di Cielo dal Camo :
Per te non haju abentu notte e dia
e il canto toscano (Giajtnini, C. p. lucch., p. 108):
Per te non dormo né notte ne giorno :
e il penultimo è il voto del Petrarca (sestina 1):
Con lei potessi stare
Solo una notte, e mai non fosse l'alba.
E anche (sest. 7; :
Sola venisse a stars'ivi una notte,
E '1 di si stesse e '1 sol sempre nell'onde.
Come questo concetto si ritrovi e si esprima nella poesia popolare, lo ab-
biamo fatto notare nel nostro lavoro critico, a pag. 317 in nota. Citeremo
qui un Canto siciliano (Vigo, n. 674) ivi accennato soltanto:
Su' graziosi assai li vostri mora.
Li labbruzzi dui mennuli agghiazzati :
L' haju prijatu a Diu pri sinu ad ora
Di dormiri nui "nsemula abbrazzati ;
E li nuttati 'un li vurria quant'ora.
Li vurrissi dui jorni di la stati ;
Ch' hannu a ssiri biati ssi linzola,
Appujannu a ssi carni dilicati !
Tu se' cotanto graziosa e adatta
Che Pulissena, se ma' fosse viva,
Parìa ad ogn'uonio una cosa disfatta
A tuo rispetto, tanto sei giuliva.
Non fu mai donna in questo mondo nata
Ch'avesse così gran prerogativa,
Come ài tu, donna, che con gli occhi tuoi
Leghi per gola gli uomini che vuoi.
Liv.
Tanti dispetti mi fate lo giorno,
Paretemi, madonna, disperare :
Vegno a vedere lo tuo viso adorno.
Tu ti nascondi, e non mi vuoi sguardare.
Ed io come uomo morto mi ritorno
Con gli occhi bassi, e non gli posso alzar(
520 RISPETTI DEL SECOLO XV.
Poi mi ritorno forte sospirando,
Di passo in passo la morte chiamando.
È il 320 dei Bispetti del Pulci, con queste varianti: 1 tu mi fai
— 2 Che tììi farcii, idea — 3 il tuo bel — 4 -E tu me 'l celi e non me 'l vitui
mostrare — 5 ferito a te — 6 Abbasso gli occhi, e non so che mi fare —
7 E poi mi parto — 8 ^ passo a p.
LV.
De, non mi far portar sì gran dolore I
Mercè ti chiedo, viso d'angiolella ;
Per ben ch'io non sia degno del tuo onore,
Perchè, madonna, siete tanto bella.
Ama chi t'ama con leale core,
Con pura fede ascolta sua favella ;
Pregoti, donna, non esser crudele
Ad un amante che ti sia fedele.
LVI.
Odi che fa 1' insognio traditore
La notte poi che sono adormentato :
Fammi venire in sogno lo mio amore.
Tutta la notte me lo sogno allato.
Poi mi risveglio con grave dolore.
Trovo r insognio ched e' m' ha ingannato :
Sogno traditor che inganni la gente !
Strinsi le braccia e non trovai niente.
Nel codice laurenz. plut. 90 super. (89 gaddian.), trovasi questo Stram-
botto edito dal Carducci (loc. cit., pag. cxvii, :
Sta notte lo sognai quello che fosse,
Sta notte lo sognai quello che fla :
Ch'i' ero fra le rose bianche e rosse,
Ch'i' ero in braccio dell'amanza mia:
O sogno vano che inganni la gente :
Strinsi le braccia e non trovai niente.
Kon molto diversa lezione è data dall'ALVisi, Bispetti del sec. XV, An-
cona, 1880:
Stanotte mi sognai quello che fia.
Stanotte mi sognai quello che fosse,
Ch'io ero tra le braccia della donna mia,
Ch'io ero tra le rose bianche e rosse,
O sonno vano clie inganni la gente.
Strinsi le braccia e non trovai niente!
0 sonno vano che la gente inganni.
Strinsi le braccia e mi trovai fra' panni !
RISPETTI DEL SECOLO XV. 521
E fra i Rispetti a Tisbe:
Tutta la notte dinanzi m'apare
L'angelica figura e '1 bel aspetto,
E parrai star con teco a ragionare,
Onde per questo ne prendo diletto;
Omè, che io non mi vorre' [dijsvegliare.
Gigli e \iuole parrai aver nel letto,
Omè, ch'io n'ebbe tanta consolazione
0 gentil donna, di tua visione !
Parte di esso trovasi in un Canto veneto (Beenoni, punt. VI, n. 10):
Sta note m' ò insogna, magari fusse,
Gaveva de le rose bianche e rosse:
e parte in un Canto vicentino (Alvekà, n. LXVI . Cfr. Righi, C, p. veron.,
D. 49:
Stanote mi sognai di te, Betina,
Che per amor te m'è porta una rosa :
Quando che me desmisio a la matina,
Trovai la rosa, e non trovai Betina:
A me desmisio co l'amor contento :
E mi trovai le man piene de vento.
Uno Strambotto siciliano (Vigo, n. 1116):
Unn'è la n'osa ch'haju amatu tantu?
La guardu, la scuprisciu e nnn la sentu !
La notti m'insonnu ehi 1' h.iju accantu:
La vaju ppi tuccari, e toecu venta.
Un canto di Serrara d'Ischia (Amalfi, n. 71):
Tutta la notte mi te sonno accanto.
N'ho potuto fa' 'nu suolino contento;
Vado pe' mme vutare a l'auto canto.
Vado p'abbracciare a vuje, e abbraccio il vento.
Chisti occhi miei sbuttarono a lu pianto,
E me parean 'nu fiume corrente.
Oh Dio, o essere chell'ora santa !
Lu core tuo e lu mio fosse contento !
Uno stornello toscano (Giannini, pag. 19):
Io vado a letto sotto le lenzuola;
Mi credeo d'abbracciarti, o bella cara;
Mi trovai fra le braccia le lenzuola.
E finalmente nelle Raccolte napolitane (V. pag. 19) :
Di quante volte sospirai per voi.
Una sola notte in sogno t'abbracciai ;
Quando alle braccia mie stretta ti fui.
Mille baci alla cocca ti donai.
Tu mi dicesti: fa quel che tu vuoi,
Saziatene, cuor mio, ora che m' hai.
Quando dal sonno risvegliato fui.
Le mani pien di vento mi trovai.
522 EISPETTI DEL SECOLO XV.
Pel tema in generale, v. A. Saviotti. in Giorn. star. leti. Hai., XIX. 449;
Menghim, C. p. rom., n. 228, n. ; Rondici, p. 29, n., e più ampiamente
V. Rossi, in Ardi, tradiz. popol,, XIV, 69.
LVII.
Cara speranza che mantien la vita,
Dolce diletto che nel mio cor stai,
D'ogni bellezza voi siete fornita
Piìi ch'altra donna eh' io vedessi mai ;
La faccia tua di rose colorita
E di viole ingarofolata 1' hai ;
Benché ci sia dell'altre che sian belle,
Voi siete come luna in fra le stelle.
Xei eit. Rispetti a Tishe (Carducci, Pi-ef. al Poliziano, pag. cxiv):
Cara speranza mi mantien la vita ;
Dolce diletto nel mio core stai.
E di bellezza se' tutta compita
Più c'altra donna eh' io vedessi mai.
La faccia tua di rose è colorita;
Tapino a me, percliè la viddi mai:
Perchè la viddi mai? perchè, perchèe?
Perchè la viddi mai ? tapin a mee !
E v'è anche un po' di parentela con qnesto pubblicato dal Menghini Do-
dici Rispetti ecc.. n. 9) :
Tante bellezze porta il tuo bel viso
Chiunque lo veda innamorar lo fai,
O fanciulletta nata in paradiso,
Più bella di te non vidi mai:
Quando alzi gli occhi e fai un certo riso
Se fusse morto suscitar lo fai;
Perchè ci sia ancor dell'altre bolle
Se' come il Sole in mezzo delle stelle.
L'ultimo verso ricorda quello del Poliziano (ediz. cit., p. 278):
Tu pai il Sole in mezzo delle stelle.
Gentil madonna graziosa e bella,
Alta speranza e specchio del mio core,
Non fu giammai sì polito anello
Né mai in terra un si leggiadro fiore,
A questo mondo perla nò gioiello,
Madonna mia, di tanto valore:
Intra di tutte porta la corona
Anima mia, la vostra persona.
RISPETTI DEL SECOLO XV. 523
0 Morte o Morte, de, ^'ercliè cotanto
Mi tien tu in vita abbandonato ancora
Dal più bel viso che mai porti vanto,
E per lo quale io mi consumo ogn'ora ?
Trami di pene e d'angoscioso pianto.
Che a poco a poco, miser, mi scolora :
De, ancidimi se ancider tu mi dei,
E non mi far gridar cotanto omei.
Tu spergiurasti, e dannata morrai
De' sagramenti tanti che facesti :
Come ti deggio creder più giammai
Che tanto quel che sai m' impromettesti ?
Tu di' che m'ami, e falsa ti provai
In nel parlare tuo che mi facesti:
Tu mi giurasti per quel vero Iddio
Che contento faresti lo cor mio.
Non ti perdona Dio questo peccato,
Falsa, spietata, cruda e sconoscente ;
L'anima e '1 cuor ad altri 1' hai donato;
E me tu lasci tanto amaramente.
Non sai quante volte m' hai giurato
Ch'altri che me non sia il tuo servente ?
Tu m' hai pasciuto di parole assai,
E nel fine tradito pur tu m' hai.
LXII.
Se con mille mani m'avessi giurato
D'abbandonarmi, io non l'avrei creduto;
E tu, giudìa, non hai di me peccato
A questo punto avermi sì distrutto !
Vatti con Dio! ch'io non l'avrei pensato
Che tanto amore fosse in te perduto :
Se tu fai bene, credi che '1 mi piace,
Ma credi eh' io non ti farò mai pace.
524 RISPETTI DEL SECOLO XV.
LXIU.
Se incontra Iddio sperassi aver fallito,
Io gli dirìa che '1 mi facesse torto .
Poi che perduto veggio tanta fede
Che mi giurasti, o dolce giglio d'orto,
E amo una giudìa che non crede,
Disposto son d'amarla o vivo o morto:
Guarda, madonna mìa, se fai peccato,
Ch' io SDII tuo servo, avermi abandouato !
Quando ti vedo tutto mi conforto,
Quando ti vedo io mi sto pien di gioglia;
S' io non ti vedo, lasso, eh' io son morto,
È tutta sconsolata la mia voglia.
De, dolce diva, non mi farti torto
E non voler che morte mi ti toglia.
Guarda se con ragion debbo morire :
Le lagrime m'abonda ed i suspire.
LXV.
Pace domando a te, madonna mia.
Pace domando a te, madonna bella.
Pace domando alla tua leggiadria.
Pace domando a tua gentil favella ;
Se pace mi darà tua signoria
Giammai non spero aver miglior novella :
E sempre pace el tristo cor domanda :
Da l'altra parte a voi s'arricomanda.
T'aggio dipinto in una carticella,
Quando ti veggio mi sto inginocchiato :
Adoromi la tua persona bella
Ogni mattino po' che son levato.
Guardoti spesso, che mi par pur quella:
Però priego ti sia ricomandato
El più fedel che donna avesse mai.
Che in questo mondo attormeutato 1' hai.
Cfr. GiusTlNiAN, Struiiib. n. XVIU.
RISPETTI DEL SECOLO XV. 525
AI paradiso è fatto un gran rimore
Che via se n'è volato un'angiolellti :
Àia furata l'alto dio d'Amore,
Perchè li parse angelicata e bella.
Amor la tiene, ciascun li fa onore,
E tutto il mondo s'allegra per ella:
Ben par che la sia nata in paradiso :
Se non mi credi, guarda il fresco viso.
0 casa bella, gentile e graziosa,
Ben sopra ogn'altra vanto ti può' dare
Di ritenere in te si gentil cosa,
Che giorno e notte mai non trova pare.
Bianca e vermiglia e fresca quanto rosa,
La bella bocca col dolce parlare:
Rubato hai le bellezze all'altre belle,
E sei come la luna in fra le stelle.
LXIX.
Addio vicine, addio dolce contrada.
Addio, voi che ascoltate el mio lamento,
Addio, fanciulla bella innamorata.
Addio, tutto el mio consolamento ;
Addio, balconi e fenestra serrata,
Addio, che mi parto malcontento:
Addio, che lasso l'alma di qua via,
Addio, no' ardisco di portarla via
LXX.
0 viso bello, 0 anima beata,
0 specchio dell'eterno paradiso,
Ben è beato il luogo e la centrata
Dove riposa el tuo chiarito viso.
Chi vede tua persona tanto ornata.
Dice : Costei è nata in paradiso.
Credo che Cristo con tutti i suoi Santi
Ti fabricorno con soavi canti.
C'fr. Petrahca, RÌ7h. CXXVI, .55: Costei per fermo nacque in Paradiso.
526 RISPETTI DEL SECOLO XY.
LXXI.
Leggiadra, bella, valorosa e franca,
0 rosa colta su le verde spine
Di Maggio all'alba colorita e bianca.
Per onestate voglio por qui fine
Al mio lamento che giamai non manca
0 specchio delle donne pellegrine,
Soccorrime per Dio, ahimè, eh' io moro
Cara madonna, tu' se il mio tesoro.
Pel 2° Y. cfr. (ili Giannini, C. p. tose, 126):
Sembri una rosa colta sulla spina.
LXXII.
La bona notte resti in sta contrada.
Piccoli e grandi che qui tutti siete,
Per parte d'una giovinetta ornata
La qual in vicinanza vui tenete :
Per lei arete spesso mattinata
Da un pellegrin amante che sapete :
La buona notte Dio si ve la dia,
A voi vicini e a l'amorosa mia.
Cfr. con questa serenata toscana (Tigri, ii. 376):
Si dà principio a questa serenata,
0 bella gente, perchè in casa siete
Ci avete una fanciulla tanto vaga;
Dov'è quel lato che voi la tenete ?
E se per sorte fosse addormentata,
Con due parole la risveglerete ecc.
E nei Canti marchigiani (Gianandeea, pag. 121) :
Te so' venuto a fa' la mattinata.
Capo de casa, si contento sete;
Ci avete 'ssa fija tanto garbata.
Che sotto li vostri occhi la tenete.
Cfr. anche Eondini, p. 54.
Se ti mettessi in cuor d'abandonare
Cotanti amanti sol per l'amor mio.
Io t' imprometto di volerti dare
L'anima e tutto quanto il cuore mio
RISPETTI DEL SECOLO XV. 527
Ancor ti voglio sagianiento fare
D'esser tuo servo, caro signor mio:
Pregar ti voglio, amor, ch'egli ti piaccia
Ricever il tuo servo in le tue braccia.
LXXIV.
Io son disposto non ti abandouare
Per fin che vita sì mi duri adosso :
Ma io ti veggio tai modi pigliare,
Che '1 mi viene la doglia in fino all'osso.
E non ho modo a poterti parlare
Da poi che a te [non] piace et io non posso:
Udito ho dire, e non è cosa nova,
Chi ingannar crede, ingannato si trova.
LXXV.
Le lagrime, li pianti e li suspiri,
Dolce Signor, de, fatemi ajutare,
Dinanzi a Cristo se ne voglion gire,
Voglionsi di te, donna, richiamare ;
Tu mi conduci al punto di morire.
Vedi eh' io moro e non mi vuo' aitare;
Moro, 0 ladra, cogli occhi lagrimando :
Non mi lassar viver così stentando.
LXXVI.
L'alta bellezza tua e lo splendore
Della tua vaga luce e '1 bel parlare,
Gli onesti modi e '1 vago tuo colore
M' ha mille volte e piìi passato il core :
Per modo tal che sempre a tutte l'ore
Convienmi nella mente suspirare :
Pregar ti voglio dolce anima mia.
Raccomandato il tuo servo ti sia.
Di poco è diverso nel principio (la uno dei dodici pubblicati dal
Menghini :
L'alta bellezza tua e lo splendore
De' tuoi vaghi occhi e de' costumi ornati,
L'onestà cara e '1 donnesco valore
E' modi e gli atti pili ch'altri lodati, ecc.
528
RISPETTI DEL SECOLO XV.
LXXVIL
S'io donno o veglio o s'io vado per via,
Non posso lo mio cor riconsolare;
Io mi distruggo della vita mia,
Disposto son di mai non ti mancare;
Tu se' il fiore dell'altre, o vita mia.
Sempre disposto son volerti amare :
Se errato avessi di quel ch'io ragiono.
Per mille fiate vi cliieggio perdono.
Bramosa voglia che '1 mio cor tormenta
Mi fa presuntuoso a te venire:
Ognor eh' io non ti veggo par eh' i senta
Tal pena al cor che ne credo morire ;
E se del mio morir ne se' contenta,
Ti priego, amor, che tu mei facci dire;
Benché mia morte sia el non vederti.
Prima vorrei morir che dispiacerti.
È il 200 (Jel Pulci, con queste varianti: 3 L'ora che ...el par —
4 Amara doglia che mi fa morire — a E sol si trova l'alma mia — C Dove
e' tuo' occhi debbono apparire — 1-8 In questa doglia sempre staro forte
Pinchi mia vita durerà alla morte.
LXXIX.
Per dir l'animo mio ci son venuto.
Ti piaccia, donna, volermi ascoltare,
E non guardare al suon ch"è qui venuto.
Ascolta le parole del cantare;
Dice il proverbio che '1 tempo perduto
Giammai indietro non po' ritornare :
Sciocca è colei che crede restorare
Quando i capei cominciano a imbiancare.
Un Rispetto che il Cabduoci attribuisce al Poliziano (ediz. cit.,
pag. 194), ma è anche rsò" fra quelli del Pulci:
Prendi bel tempo, innanzi che trapassi,
Gentil fanciulla, el fior degli anni tuoi;
Se '1 dolce tenijio trapassar lo lassi,
Prima pentuta tu ne sarà' poi,
E prima piagneran gli occhi tuoi lassi :
El pentirsi da sezo non vai poi:
Tristo a colei che crede ristorare
Quando e' capei cominciono a 'mbiancare.
RISPETTI DEL SECOLO XV. 529
Il nostro è il ò^ fra i dodici del Mbnghini:
Per dirti le mie pene i' son venuto
Deh, piacciati, fanciulla, d'ascoltare
E non guardare al suono del liuto.
Ascolta le parole del cantare.
Dice il proverbio che il tempo perduto
Giammai nel mondo si può racquistare;
Tristo a colei che perde giovinezza
E chiede ritrovarse (ritrovarlaì) in sua vecchiezza:
e confr. la lezione data dal Volpi, p. 24.
LXXX.
La bona sera, signor mio, ti dono.
Non saccio che saluto mi ti dare
Che sia sì degno e ad accettar sì buono :
Dio ti contenti, ch'è buon salutare .
Prima eh' io falli ti chieggo perdono.
Tu graziosa sarai al perdonare :
Io ho speranza nel senno che avete :
S' io ho fallito, mi perdonerete.
Apri la tua finestra ch'è serrata,
Fatti di fuora, o pellegrin falcone.
Non è ora ch'a letto sia andata.
De, fatti alla finestra, o car signore,
E udirai la nostra serenata.
La quale è fatta sol per lo tuo amore,
E udirai cantar nostri Rispetti
Che so, fanciulla, che te ne diletti.
Un Canto marchigiano (Gianandkea, pag. 129):
'Ffacciate alla finestra rinserrata,
'Ffacciate fuori, specchio de valore ;
Tu ne stai nella stanzia rinserrata.
Io sto de fuori collo raffreddore ecc.
Vedi a pag. 182 l'illustrazione al v. -io della Serenata.
LXXXII.
Rivolgi a me la tua benigna faccia,
Conforta il mio dolor cogli occhi tuoi,
Poss' io al mondo far cosa che ti piaccia,
Ajuta il servo tuo, che sai e puoi :
D'Ancoxa, La poesia pop. ital. — 34:
530 EISPETTI DEL SECOLO XV.
Chiedi e dimanda, e dimmi quel ch'io faccia,
Che son disposto a far quel che tu vuoi :
Del gran dolor eh' io ho tu te ne ridi :
De, non lo fare, amor, che tu m'uccidi.
Se alcun fu mai d'amoroso desire
Acceso ne' tuoi lacci o inviluppato,
A me par esser, senz'alcun fallire,
E così bellamente essere entrato,
E sono acconcio vivere e morire
Per te, signora, e non essere ingrato ;
Or ti priego, signor, con tutti i prieghi
Ch'a' miei dimandi non mi facci nieghi.
LXXXIV.
Quest'occhi belli, de, non li celate.
Quando vedete il vostro servidore ;
De, perchè tante passion li date,
Ch'affligger fate il suo dolente core ?
Veggendo che per lui li nascondiate
Che solo vien per visitarti. Amore,
Non esser isdegnosa, anima mia,
Ch'altro che '1 tuo onor non cercheria.
LXXXV.
Non vidi mai sì bella giovinetta
Quanto tu sei con tanta gentilezza:
Tu sei tanto benigna e benedetta,
E 'I viso tuo rende tanta bellezza:
Quando ti vidi, anima mia perfetta.
Tu mi sfogasti amor con tanta asprezza,
Ond' io ti prego, signor mio perfetto.
Ch'aggi pietà di me, che ho gran difetto.
Le lagrime che gettan gli occhi miei,
E li sospiri che getta '1 mio core,
Farebber convertire li giudei :
Tu se' più cruda che non fu Nerone.
Ahi duri affanni ed aspri pensier miei !
Fami morire, e sai, non a ragione :
RISPETTI DEL SECOLO XV. 531
De, moviti a pietà, ch'Amore è forte :
Ch' io ti sarò leal piìi che la morte,
LXXXVII.
Arnoi*, che forte nel mio core entrasti
Per voler la mia vita consumare.
Per servidore a una mi donasti
Ch'io non son degno di doverla amare;
Crudele Amore, perchè non pensasti
Che mai ninna volsi seguitare '?
Tu m'entrasti nel cor si dolcemente.
Che tu non n'uscirai al mio vivente.
LXXXYIII.
Ohimè, eh' io soleo gire tra gli amanti
Libero e sciolto con allegro core.
Lieto vivendo in fra stromenti e canti,
In giochi e in festa sempre a tutte l'ore :
Ma tu in quel punto m'apparisti inanti,
Che mai per te non sto senza dolore :
Ormai per te- io son redutto a porto,
Ch' io non so s' io son vivo o s' io son morto.
LXXXIX.
Rigido cor, crudele e dispietato,
Senza nulla cagione abandonarmi !
Il tuo servo fedel sempre io son stato,
E non ti curi tante pene darmi.
Almen tu avessi almanco migliorato,
Po' che disposto avevi di lasciarmi:
Pregar ti voglio, mio diletto e bene.
Ch'alquanto die conforto alle mie pene.
O dolce tempo, che ti se' rivolto,
0 dolce amore, o amara fortuna.
Un po' di ben che aveva tu m' hai tolto ;
Era contento più ch'altra persona
Sol di vedere el tuo pellegrin volto,
CTcntile aspetto e la bella persona ;
Po' che da te abandonar mi veggo,
La morte a Cristo giorno e notte chieggo.
532 RISPETTI DEL SECOLO XV.
XCI.
Qual crudel orso o tigre venenoso
Potrà fuggir che non ne stesse attento,
Udendo un lamentar tanto pietoso,
Gli' io fo per te, e tu se' piìi contento ?
E vedi ch'ogni corso m'è ritroso,
Il sole e luna e stelle e acqua e vento :
E tanta è la doglia che mi viene,
Che chiamo Morte per tìnir mie pene.
XCII.
Donna gentil, che siete innamorata
D'un pellegrino amante onestamente.
Odi, non esser in ver lui spietata,
Abbi pietate alquanto al suo stento.
Se voi sapessi da lui qualche fiata
Quant'ò noiose le sue fiamme aidenti,
Voi piangeresti al suo grave tormento.
Cercando i inodi di farlo contento.
XCIIL
Meschino, non mancai per bene amare
Né per leal servire, al mio parere ;
Cosa non mi potevi comandare
Ch' io non facessi tutto al tuo volere ;
Da poi che '1 non ti piace lo mio affare.
Dio ti dia cosa che ti sia in piacere.
Se m'ami e se non m'ami io t'ameraggio,
Tanto ti penserò eh' io t'averaggio.
Con quante pene io ho, ti chiamo, Amore :
Amore, Amore, moviti a pietate :
Conforta nn poco quest'afflitto core.
Non li donar cotanta crudeltate.
Ch'io ti son stato fedel servitore,
Morivo pel tuo amor mille fiate :
Sono contento per tuo amor morire,
Purcliò morendo io ti creda servire.
RISPETTI DEL SECOLO XV. 533
XCV.
Voi siete ornata di tante virtute
Quante si posson colla bocca dire .
Io ho per certo assai donne vedute,
Nulla con teco si può convenire:
Di tutte quelle eh' io ho conosciute,
O che mai al mondo debbono venire,
Tanto sei bella che dir non lo posso :
Quando ti guardo mi trema ogni osso.
Perchè lontano sia, non consentire
Ch' io sia da voi in tutto abbandonato ;
Ricordati del mio leal servire
E quanto fedel servo a te son stato ;
Che da te non mi volsi mai partire,
Come con pura fede avea giurato:
Ma non de' '1 mio giurar punto fallire:
Vogliovi amare per fino al morire.
XCVII.
Occhi miei, perchè non piangete.
Già non vedete ch'io so' abbandonato?
Piangete forte, e tutto me lo empite
Di lagrime 'sto corpo disperato.
Amore m' ha condotto a 'sti partiti
Ch' io muoio e non poss'essere ajutato.
Soccorrime, per Dio ti prego, Amore,
Ch' io ti son stato e son buon servitore.
Pel 1« V. cfr. il Rispetto pistoiese (Giannini, C. p. tose, p. 242):
Occhi miei, occhi miei, forte piangete
Or che di tanto ben privati siete.
XCVIIL
Cotanto grazioso è lo tuo aspetto,
Tanto son dolci le maniere eh' hai,
Ch'ogni uomo ti desidra per diletto,
E prova amor chi non amò giammai.
Co' tuoi begli occhi e '1 tuo gentile aspetto
Tolto m' hai l'alma e imprigionata 1' hai.
534 RISPETTI DEL SECOLO XV.
Fecite Cristo che bella paressi,
Ma non ti comandò che m'uccidessi.
xcix.
Dio ti dia buona notte: io son venuto,
Bella madonna, a veder come stai :
Fatti di fuora, e mo' ti do saluto
Di miglior voglia ch'io fossi giammai.
Tu sei colei che sempre m' hai tenuto
In questo mondo innamorato assai :
Però ti prego, s'io t'ho ben servito.
Non mi lasciare a sì duro partito.
Cfr. gli Strambotti del Giustiniani, ii. XIII.
Mille saluti ti manda l'amore,
A te leggiadra donna e signorile ;
E giorno e notte ti chiama signore,
Ad alta voce el tuo nome gentile.
Pur l'altro giorno mi feristi al core
Col dolce sguardo e con parlare umile:
Volesse Iddio che essere potesse
Là dove è '1 core la persona stesse !
CI.
Dimmi, madonna mia, per qual difetto
A me ti mostri tanto dispietata.
80 ben che non è già per mio difetto
Che tu mi stai sì forte corrucciata :
Ch' io ti soa stato fedele e soggetto
Ch'amante mai fosse a donna nata:
Sempre faggio servito di buon core.
Come perfetto amante e servidore.
Madonna, dimmi quel eh' io faggio fatto,
Che non m'accetti piìi per tuo servente ?
Non sono a te fedele servo stato,
Come colui che fama lialmente?
Non son io quel che di te è infiammato
Già tanto tempo, fior d'ogni diletto ?
BLSPETTI DEL SECOLO XV. 535
Non son io quello ch'era tanto amato,
Che sopr'ogni altro era il pia beato?
OHI.
Perchè ti parti, donna, e non ci stai
Di su la porta ? io lo vorrìa sapere ;
Un qualche amante innamorato t'hai.
Che abbassi gli occhi e me non vùò' vedere.
0 renegata, che lo cuor vile hai.
Ti feci io mai alcuno dispiacere?
Tu te ne parti, e sì te ne va' via :
Dimmi perchè, dolce anima mia.
Pel 4" V. cfr. il Kispetto pistoiese (Giannini, C. p. tose, p. 2181:
Abbassa gli occhi per non mi vedere.
A la tua grazia voglio ritornare.
Cara madonna, se far si potesse :
Pi'egoti che mi degni perdonare.
Se fallimento alcuno fatto avesse.
Non creder alia gente e al mal parlare.
Se alcuno male di me ti dicesse :
Che faggio amato, e mo bene lo sai
Che abbandonarti io non porrìa giammai.
Cfr. il 1" V. col canto lucchese (Giannini, p. 108):
Alle grazie die hai faccio ritorno.
CV.
Partir mi voglio, e non mi so partire,
Se la licenza, donna, non mi dai ;
Comandami, eh' io son per ubbidire,
Bella madonna, quel che mi dirai ;
Comanda per infine al mio morire,
Bella madonna, quel che mi dirai {tìi vorrai'^):
De, fammi grazia, parlami, amor mio,
E poi mi di' che men vada con Dio.
Il Rispetto 61 del Pulci, recato anche dal Volpi (pag. 28). comin-
cia: Vòmi partire e non mi so partire, ma poi diverge: e un altro del
Laurenz. Conv. 122 similmente, ma ha il l'i v. identico al nostro. {Bihl.
luti, pop., II, 107.)
636
KISPETTI DEL SECOLO XV.
evi.
Ricordati di me, madonna cara ;
Ben mille volte innanzi al tuo cospetto
Già ti pregai con giusta fede e pura,
Non conoscendo in te solo un difetto.
Per onorarti, e tu crudele e dura
Donimi il tuo parlar pien di sospetto.
Quanto t'ho amata di fé e cortesia!
Ben mi dovresti essere stata pia.
CVII.
Dappoi che '1 Dio dell'amor t' ha creata,
E hatti dati tanti be' costumi.
Io ti priego che alcuna fiata
Alzi quei vaghi e graziosi lumi.
De, non voler esser così spietata
Né far che quei be' occhi mi consumi,
Ch'io ti son stato leal servidore;
De, non voler amar altro amadore.
Tutti gli amanti io voglio abbandonare.
Da poi che '1 vero Amor sì mi abbandona
In questo mondo non ne voglio amare
Alcuna che non sia bianca né bruna:
Farò la vita della turturale,
Poi che '1 tuo amore di me non ragiona:
Vita di torturella voglio fare :
Lo dì dormire e la notte vegliare.
Rispetto all'immagine della tortorella, vedi a pag. 225.
La notte mi si viene approssimando,
Cara madonna, rimanti con Dio :
Agli angioli del ciel arraccomando,
Ti raccomando l'anima e '1 cor mio.
Ch'io son disposto a fare il tuo dimando:
Non ti abbandono, giuroti per Dio :
Chiamando Amore, chiamando per Dio,
Che '1 se ne porta l'anima e '1 cor mio.
RISPETTI DEL SECOLO XV. 531
ex.
0 ri.splendente stella o gentil fiore,
Consenti un poco a' miei lamenti udire:
Forse pietà ne prenderà '1 tuo core
E farà grazioso el mio fenire :
Ora ti prego che non fuggi Amore,
Ma che beato facci el mio languire :
Fammi contenta, o cara donna mia,
Che non mi lasci infin che in vita sia.
Fra i Rispetti del PuLcr questo è il 35» con alcune varianti: 1 rilucente
— 2 Attendi un po' questi — 4 Che — 5 Priegoii, Donna, non fuggire —
6 faccia — lo dolce anima — 8 non ti lasso.
Occhi miei hei, che mi tenete in fuoco
E giorno e notte mi brugiate tanto.
Il misero meschin non trova loco,
Se '1 tuo bel viso noi sovviene alquanto;
Oimè, che mi distruggo a poco a poco
A far questo lamento e 'sto mio pianto:
Ognora piango e mercè t'addimando,
Cara madonna, eh' io non muora amando.
E non porrla mai tanto pregare
El tuo dur cuor che si rivolga alquanto?
Come può' tu sofferir di lassare.
Madonna, lo tuo servo in fuoco tanto?
L'anima trista lasci consumare,
E '1 misero meschin non trova aiuto ;
El non mi giova mercè addimandare,
Quando a diletto tu mi fai stentare.
cxin.
Crudel madonna, pur m'arriccomando.
Benché '1 sia indarno, a la tua poca fede.
La notte e '1 giorno vo per te penando,
Tanto 'sto Amore m'arde e non si vede.
Già fui contento, ed ora muoro amando,
E la tua mente altiera non mei crede :
)38 RISPETTI DEL SECOLO XV.
Domando pace, e pace non vien mai,
Perchè del servo tuo pietà non bai.
cxiv.
Non fa giammai in donna cuor di diaccio,
Che del suo servo no' increscesse alquanto.
Vedi, madonna, stu m' hai messo al basso,
Quando non curi di mio danno o pianto !
Ben posso sofiferire e dire: ahi lasso,
A chi ho servito, e dato el mio cuor tanto !
Ad una ch'è nimica dell'Amore,
Quando non cura del suo servidore !
CXV.
0 maledetto e biastemato Amore,
Crudel nimico al tuo fedel servente,
Qual forza, qual possanza o qual furore
Sì ti comniove a farmi sì dolente?
Come pietà non hai del mio cuore.
Come pietà non hai del tuo servente.
Come sofferistù sì poca fede,
Ch' io bramo chi di me non ha mercede ?
Pietosa voce, andate a aumiliare
Colei che in fuoco tien la vita mia :
A' suoi be' pie v'andate a inginocchiare,
E questo dite de la vita mia :
E da mia parte la debbia pregare
Sì dolcemente che crudel non sia
A me meschin, che quasi notte e giorno
Penando vo per lo suo viso adorno.
cxvn.
Donna leggiadra, vaga e preziosa,
Ecco lo servo tuo che s'appresenta :
Or mi comanda, o angelica rosa,
Quel che ti piace e quel che ti attalenta.
De, non esser al domandar spaurosa
S'alcuna cosa di me ti attalenta,
Che per servire a te io son venuto,
E come servo ti faccio saluto.
RISPETTI DEL SECOLO XV. 539
ex VI IL
Novellamente innamorato m'ài,
Donna, che passi sopra ogni bellezza,
Per gli atti gentileschi che tu fai,
Per la tua vaga, bella e bionda trezza.
Rendimi l'alma mia, che tu hai
In lo tuo cuore e in la tua gentilezza.
Volesse Dio ch'a me amor portassi.
Sicché in ver di me pietà mostrassi !
CXIX.
Ardente fiamma mi mettesti al cuore
Il primo giorno che ti risguardai :
Ardomi dentro e non mi par di fuore ;
La vita mia porta pene assai.
Ricordati di me, che son tuo amore,
Soccorrimi alle pene che mi dai :
Soccorrimi, per Dio, cara speranza,
Che son tuo servo, e tu se' la mia amanza.
CXX.
Fa' eh' io mi viva per te consolato,
Che se tu m'ami non avrò mai doglia:
Tu se' colei che mi pòi far beato,
E vivere in 'sto mondo in canto e in gioglia.
E se tu m'ami paradiso ho trovato,
E sempre t'amerò di buona voglia:
Fior delle donne, lasciati consigliare,
Che se tu m'ami in gioja posso stare.
CXXL
Quando ti veggo tutto mi conforto.
Quando ti veggo mi fai pien di gioglia ;
Lo dì che non ti veggo, si son morto ;
Disconsolata va tutta mia voglia.
0 dolce diva, de, non mi far torto
E non voler che Morte sì mi toglia:
De, lasciati veder, stu vuoi eh' io viva ;
Se non, del viver mio Morte mi priva.
Poco dissimile dal n. LXIV.
540 RISPETTI DEL SECOLO XV.
CXXIL
0 Dio, che dolce cosa è '1 vagheggiare
Ed amar donna che sia innamorata !
Le greve pene non potria contare
Ch'io porto per 'sta donna dispietata:
Che giorno e notte la mi fa penare,
E non gli incresce di me alcuna fiata:
La si contenta eh' io debba morire,
E poco cura del mio ben servire.
CXXIII.
0 vivo 0 morto sono al tuo piacere,
Comandami, per Dio, che lo può' fare:
La mia persona sì è al tuo volere,
Null'altra cosa voglio a te contare.
Ma pruova '1 servo tuo, se vuo' vedere
Che pure aspetta lo tuo comandare :
Mill'anni parmi avanti el mio morire,
Bella madonna, io ti possa servire.
CXXIV.
E con licenza mi vorria partire,
Bella madonna, se lo comandate.
Che l'ora è tarda, e vogliomene gire.
Cara madonna, che a me perdonate.
Un'altra sera ci voglio venire,
Che tra 'niendui staremo consolati :
Addio amorosa, addio, e pure addio;
Per fin che torno, rimanti con Dio.
È il 30 dei Rispetti antichi pnbbl. da G. Lega, con queste varianti:
2 SI me 'l — 3 e me ne voi/o — 4 s» me 7 — 5 io vorù — 8 al mio riliD-no.
Pei primi versi cfr. Giannini, C. p. tose, p. 16i:
E giaccliè vedo qui l'alba apparire.
Chiedo licenza e non vo' più cantare.
RISPETTI DEL SECOLO XV. 541
CXXV.
Non ti fidar di femmina nessuna,
Che tutte son di casa di Maganza,
Tutte si voltan come fa la luna,
In loro non è fede né speranza :
Per me lo dico che n'ho provato una,
Che m' impromise d'esser lial 'manza:
Guardommi un giorno con i suoi begli occhi,
E femmi una insalata di finocchi.
Nel cod. 1069 della Bibl. Xazionnle Parigina, trovasi questo Rispetto
con lievi varianti (v. 6 Credendo che la fosse la mia manza) ma mancante
dei vv. .3-1 (.Mazzatinti, Ms. delle Bibl. di Francia, II, 271).
STRAMBOTTI DI LEONARDO GIUSTINIANI
Riproduco qui appresso dal Giornale di Filologia Eomanza (11,179),
dove primamente li inserii, questi strambotti del Giustiniani, non soltanto
per l'affinità loro con i Canti propriamente popolari, ma anche per ovviare
ad una dimenticanza.
Il lettore, che mi abbia pazientemente seguito fin qui, avrà potuto
osservare come mi sia ingegnato di giovarmi di quante pubblicazioni sul-
l'argomento uscirono a luce dal 1878 in poi, che è la data della prima
edizione di questi Studj, se anche il più delle volte si trattasse di articoli
di giornale o di brevi pubblicazioni generalmente in pochi esemplari; nò
pretendo perciò di aver di tutto profittato, né tutto notato. Ma dolorosa
mi riesce la dimenticanza, della quale ora soltanto mi avvedo, di un opu-
scolo del prof. T. Ortolani: Appunti su Leonardo Giustiniani con l'Appen-
dice di ventiquattro nuoci Strambotti (Feltre. Castaldi, 1896, di p. 56ì. pregevole
non soltanto per la notizia di quei componimenti e per la bibliografia delle
antiche stampe, più ampia e corretta di quella comunicatami dal Tessier,
ma specialmente per il luogo che nella storia letteraria assegna al poeta
veneziano e ai suoi Strambotti. Bimedio qui il meglio che posso allo scorso
di memoria, e quello che ora dico sarà correzione e aggiunta al cap. IV
(pag. 14G e segg.).
Secondo quanto il prof. Ortolani afferma, dopo il Gaspary, il Casini,
il Ferrari, il Gian, e saldamente dimostra, avrebbe Leonardo Giustiniani,
0 Giustinian, alla veneta, nato nel 1388, morto nel 1446, precorso tutti gli
altri poeti culti del sec. XV nell" imitare le varie forme della poesia po-
polare. Le Laudi sacre appartengono evidentemente all'età tarda [extrema
{etate, come attesta un contemporaneo), quando pei conforti del fratello,
patriarca di Venezia, il poeta si volse a casti pensieri; e Ambrogio Tra-
versar! afferma in una sua lettera che già nel 1429 il Giustiniani coltivasse
la poesia e la musica sacra. Le rime profane, Strambotti e Canzonette,
sarebbero adunque opera di gioventù, e apparterrebbero ai primi lustri del
Quattrocento, cosicché il Giustiniani avrebbe di parecchi anni preceduto
il Pulci, il magnifico Lorenzo e il Poliziano: nati, il primo quattordici anni
prima che il Giustiniani morisse, il secondo, due anni dopo la morte di lui;
l'ultimo, otto. Le date pertanto non permettono di porre in dubbio l'ante-
riorità del Giustiniani, come autore di Strambotti e Canzonette, sui tre
fiorentini.
Ma rispetto allo Strambotto, noi abbiamo cercato di dimostrare
ch'esso è un prodotto siciliano, trasportato di buon'ora e diramatosi di
là in ogni parte della Penisola, e in Toscana specialmente accetto e tra-
sformato: ed anche il prof. Ortolani consente con noi che nel Veneto esso
giungesse dalla Toscana ; ma noi abbiamo anche addotto non pochi antichi
esempj di imitazione toscana dello Strambotto insulare, che avrebbero
544 STRAJIBOTTI DI LEO^'ARDO GIUSTINIANI.
potuto essere, più che gli originali componimenti siciliani, il modello del
genere coltivato dal rimatore veneziano. Ad ogni modo però, questi sarebbe
il più antico fra i rimatori culti, del quale si abbia certa notizia come autore
di siffatta forma, e come tale che, coU'autorità dell'esempio e del nome,
introducesse lo Strambotto fra le foggio poetiche. Se poi i fiorentini testé
ricordati seguitassero consciamente le forme di lui, richiamandosi al suo
esempio, o se perfezionassero quei primi tentativi paesani, che il vene-
ziano dal canto suo non avrebbe probabilmente ignorato, è diffìcile deter-
minare con sicurezza.
Per quel eh' è poi delle Canzonette, e non fermandoci alle Laudi che
dal sec. XIII in poi appariscono in tutta Italia come proprie ai Disciplinati,
anch'esse sono un genere anteriore al Giustiniani e che aveva già avuto
nell'Italia del mezzo larga fioritura, e che dalla forma plebea delle ballate
bolognesi, passando, come il dolce stil nuovo, l'Appennino, era in Toscana
giunto a forma d'arte, secondo che attestano la canzone della Ghirlandetta,
quella della Bosa novella ed altre assai. Se poi innanzi al Giustiniani altro
poeta veneto ci si fosse esercitato, o se egli per il primo riproducesse gli
eseuipj toscani, è altro punto controverso e di difficile soluzione. Questo
è ben certo, ch'egli compose fra brevi e lunghe, anzi molto lunghe, non
poche Canzonette.
Concludendo diremo pertanto, che ci chiamiamo in colpa del non aver
parlato a suo luogo, fra le pagg. 156 e 157 del Giustiniani; e similmente, dopo
ricordati due centri — Firenze e Napoli — dove nel secolo XV si avverò
il fatto dell'imitazione della poesia popolare, del non aver anche men-
tovato Venezia. Salvochè, mentre altrove si può parlare di una scuola, cioè
di un iniziatore che intorno a sé raccoglie altri, i quali con lui consentono
riconoscendolo qual duce e maestro, il Giustiniani, per quel che ne sap-
piamo, è solo, e non trova consenso e par che scriva non pei dotti e pei
cortigiani, ma pel popolo, usando di preferenza le forme idiomatiche ve-
neziane, e nelle Canzonette molto spesso stemperando quella brevità, che
dovrebb'essere, e altrove fu, propria del genere. Vero è che diede rinomanza
a siffatti componimenti, che, come il Bembo attesta, furon per lui detti
comunemente Giustiniane; ma forse più che altro a eagion della musica
ch'egli vi aveva adattata, e che servì via via ad altre poesie condotte sui
medesimi metri.
Questo che qui diciamo del Giustiniani, mentre risponde al vero,
corrisponde anche all'indole della cultura italiana nel sec. XV, che in più
punti della Penisola si andava formando e svolgendo, spesso con identiche
manifestazioni, e congiungeudo sempre insieme la varietà coli' unità.
Quando io metteva insieme quegli Studj sulla
poesia popolare italiana che furono stampati nel-
l'anno 1878 dall'editore Vigo di Livorno, io ricor-
dava di avere tra i miei libri un opuscoletto stam-
pato nel secolo XVIT di Strambotti del Giustiniani,
e mi sembrava per una certa rimembranza che me
ne era restata, che non dovesse essere inutile alle
ricerche che allora facevo, e soprattutto a meglio
confermare le continue ed antiche relazioni fra la
poesia cantata dalle plebi e quella di autori che imi-
tarono la forma plebea. Riuscitami vana ogni inda-
gine dell'opuscolo, perdutosi in mezzo ai volumi di
maggior formato, e non avendone trovato copia nelle
Biblioteche pubbliche e private di queste parti, non
ci pensai piìi, finché per caso mi ritornò sotto gli oc-
chi. È desso un libercolo di 8 carte non numerate,
così intitolato :
Strambotti | in proposito | di ciascuno | ama-
tore I LI QUALI SCRISSE DI SUA PROPRIA j MANO | IL
NOBILE MESSER LEONARDO | GIUSTINIANO |. Li Trcvigi |
per Girolamo Righettini, 164L | con licenza de' su-
periori I e di nuovo ristampato. — Rilettolo e colla
memoria fresca dei molti canti popolari che avevo
dovuto ripetutamente leggere nel comporre il vo-
lume degli Studj, mi avvidi che vi erano per entro
B' Ancona, La poesia pop. Hai. — 35
546 STRAMBOTTI DI LEONARDO GIUSTINIANI.
non pochi Strambotti tuttora viventi sul labbro dei
nostri volghi, ed altri compresi nel Cod. perugino
del sec. XY da me riprodotto in Appendice al mio
lavoro. Pensai allora che non sarebbe stato inutile
agli studj della poesia popolare il riprodurre questi
Strambotti del Giustiniani, corredandoli di qualche
raffronto colle versioni antiche e moderne: ed offro
questa tenue fatica ai benevoli del nostro Giornale,
Se non che una stampa popolare del sec. XVII
di poesie che risalgono al XV non offriva sufficiente
sicurezza di buona lezione, e pensai si dovesse ricor-
rere 0 a manoscritti o ad edizioni antiche, e a tal
fine mi rivolsi all'egregio bibliofilo e cortese amico
mio il sig. cav. Andrea Tessier di Venezia, perchè
nella Marciana mi trovasse ciò che fosse a me ne-
cessario. Ed egli, con quella sollecitudine che rende
più graditi i favori, mi trasmetteva copia degli Stram-
lotti del Giustiniani secondo una antica, e forse prima
edizione veneziana, accompagnando la trascrizione
con una lettera, che stimo utile riprodurre per le
notizie biografiche che in essa contengonsi.
" Leonardo Giustiniani, che nacque intorno al
1388 e morì il 10 novembre 1446 era patrizio ve-
neto e fratello al Protopatriarca di Venezia, il B. Lo-
renzo ; ed è autore degli Stramholti, non meno che
delle Canzonette, delle Laudi Spirituali ecc.
Di lui parlarono moltissimi autori, fra' quali ri-
cordo i seguenti : l'Agostini negli Scrittori Veneziani,
tomo I, pag. 135 e seg. e tomo II, pag. 31 ; il Fosca-
rini nella Letteratura veneziana, a pag. 368, nota 44;
il Contarini (G. Battista) negli Anecdota Veneta, 1757,
a pag. 73 e seg.; il Morelli a pag. 193 della sua i>/s-
sertazione sulla cultura della poesia presso i Veneziani,
riportata anche nel 1. 1 delle Operette, Venezia 1820;
STRAMBOTTI DI LEONAEDO GIUSTINIANI. 547
il Tiraboschi nel voi. YI, parte I, pag. 157-9 della
Storia della Leti, ital., e voi. VI, part. IV a pag. 1069
dell'edizione di Venezia, 1823 ; il Crescimbeni nei
Commentarj a pag. 246 del voi. II, parte II ; il San-
sovino nella Venezia descritta, lib, XIII, eart. 244
tergo ; il Quadrio, voi. II, 469, 474 ; VII, 100-101.
125-6, 200: il Corniani nei Secoli della Leti., voi. II,
pag. 289 ; il Cicogna, Inscriz. veneziane, t. II, pag. 71-3 ;
t. V, pag. 516, t. VI, pag. 775-6; ed altri assai.
" Quanto agli Strambotti, oltre l'edizione di Tre-
vigi da Lei posseduta, varie altre ne esistono. La piti
antica ch'io conosca è la seguente, di cui sta un esem-
plare nella Biblioteca Marciana, ov'è contrassegnata
A. T. 7. 5761 : — Questi Strambotti scrisse de sua
mao in prepo \ sito d' ciascaduno amatore il nobile mis-
ser I Leonardo lustiniano. — Senza anno e senza note
tipograficbe, ma degli ultimi anni del sec. XV o dei
primissimi del sec. XVI. Di sole 4 e. in 4" con fig.
intagliate in legno nella 1-'' e 3^* carta.
" La stessa Biblioteca possiede le due altre edi-
zioni che seguono : l'una intitolata : — Strambotti |
IN proposito I DI CIASCUNO | AMATORE [. Li QUALI
SCRISSE DI SUA PROPRIA MANO, JL NoBILE MlSSIER |
Leonardo Giustiniano |. In Trevigi, con licenza de'
Superiori | ed in Venezia per il Lauezari. — Senz'anno,
del sec. XVII, di 4 e. non numer. in 4^ Tale esemplare
è contenuto nel voi. miscellaneo n. 1945. — L'altra
è intitolata: — Strambotti i in proposito | di cia-
scuno i amatore |. Li quali scrisse di sua propria
mano I il nobile missier I Leonardo Giustiniano |.
In Trevigi, mdclxii|. Appresso Francesco Righettini |,
con licenza de' Superiori. Di 4 e. non numer., in 4",
con fig, intagliata in legno sul frontespizio e nel-
l'interno dell'opuscoletto. E nel voi. misceli, n. 2677.
548 STRAMBOTTI DI LEONARDO GIUSTINIANI.
" Però i detti Strambotti, che sono i medesimi
in ciascuna delle succitate edizioni, vennero tratti
dalle 13ÌÌ1 copiose stampe, di cui mi è dato darle una
breve descrizione, per averne trovato esemplari nella
Marciana. La più antica è la seguente : — Comincia
IL FIORE DELLE ELEGANTIS | SIME CaNCIONETE DIL NO-
BILE MES I SERE Leonardo | Iustintano. — In fine: Il
'fiore delle elegantissime cancionette di mes \ sere Leo-
nardo lustiìiiano qui finisse: I Vene | tia con ogni di-
ligentia impresse per Antonio | de strata, a di noue
Marzo mcccclxxxii | Messere Giovanni Mocenigo in-
clyto principe | di Venetia. — In 4" di e. 44, non
numer. Magnifica edizione, contrassegnata CXIII,
4. 41127. 0 — Altra edizione : Queste sono le Can-
zonette ET I Strambotti damore conipo \ ste per il
Magnifico mi \ ser Leonardo Insti \ niano di Venetia. —
In fine : Impressum Venetiis per Joanne | Baptistam
Sessam. Anno | diìi mccccc | Die uero xiii | Aprilis,
In 4" di 16 e. non numer., contrassegnato col n. 2677.
— Altra edizione : — Queste sono le Canzonette
et I Stramboti damore compo \ ste per il Magnifico
7ni\ser Leonardo Listi\niano di Vinetia. ~ In fine:
Impresso in Venetia per marcliion Sessa | nel mcccccvi
adi XII octobrio. In 4'' di 16 e. non numer. Contras-
segnato A. T. 7. 5761. — Altra edizione: — Queste |
SONO LE canzonette Et | STRAMBOTTI AmORO j SI.
Composte per \ el Magnifico \ miser Leo | nardo lusti-
niano da \ Venetia. Stapa \ ta novaméte. — In fine :
Stampata in Veneciap. Zorzi de Rusconi j nel m.d.xviiii,
(1) Il sig. Ortolani avverte che in questa ediz. non si trovano gli
Strambotti, ma solo le Canzonette. E fa notare che i 2-t Strambotti ch'egli
riproduce sono in due stampe non ricordate dal Tessier: di Giovanni
Sessa, 1500 e di Marchio Sessa, 1505, dopo le Canzonette.
STRAMBOTTI DI LEONARDO GIUSTINIANI, 549
adi XIII de Nouebre. In 8", di 40 e. non numer. Con-
trassegnato A. S. 3. 5003,
" Quanto a codici manoscritti, la Marciana ne
possiede uno contrassegnato col n. CV della CI, IX
degli italiani, del sec. XVI, in 4", il quale contiene
Bime di vari onfichi autori. Fra queste àvvene alcune
del Giustiniani, che reputo inedite, ad eccezione di
quella che comincia : Io vedo ben che amor è traditore,
la quale è stampata fra le Canzonette delle quattro
edizioni poc'anzi indicate,
" Quanto a Laudi Spirituali del suddetto Giu-
stiniani, se ne trovano inserite in varie raccolte a
stampa, insieme con quelle di altri autori, secondo
ne fa menzione il Gamba sotto i n,' 105, 106, 107, 108
della Serie de' testi di lingua, Venezia, 1839; mentre il
Cicogna nel t, II, pag, 72, col. 1 delle suddette Iscri-
zioni veneziane accenna esistere la seguente edizione:
Le DEVOTISSIME ET SANCTissiME Laude, Cremona, 1474,
in 4"; le quali Laude furono stampate più volte.
" Molte Laudi Spirituali, poi, di esso Giustiniani
stanno nel ms. Marciano contrassegnato col nu-
mero CLXXXII della ci, IX, il quale è in foglio, e
del sec, XV : e taluna delle stesse Laudi sta nel-
l'altro cod. Marciano contrassegnato col n, LXXVIII
della detta ci. IX, il quale è in foglio piccolo, e della
fine del sec, XVI o del principio del sec. XVII „.
La copia fattami diligentemente dal sig. Tessier
è tratta dall'edizione s, a. ma della fine del sec, XV
0 dei primissimi del XVI. Il testo da me prodotto,
ha per principal fondamento quella stampa, cont»ad-
distinta colla lettera a, ma si giova anche dell'edi-
zione del Righettini 1641, notandola con h.
Le relazioni fra gli Strambotti del letterato ve-
neziano ed i Bispetti colti dalla bocca del popolo per
550
STRAMBOTTI DI LEONARDO GIUSTINIANI.
opera dei moderni editori sono evidenti dai paragoni
clie verremo notando, e de' quali forse alcuno ci è
sfuggito. Ma riconosciuto il fatto, resta sempre da
sapersi se il letterato imitò il popolo, o questo l'al-
tro : e la questione è pressoché insolubile.
Certo il Giustiniani dovette imitare le forme ple-
bee, e spesso, non che i sentimenti e i concetti, ripro-
dusse nei suoi Strambotti anche versi che ripetevansi
popolarmente ; ma a perpetuare fra il popolo la me-
moria di canti suoi proprj ab antico, non poco dovet-
tero giovare le molte e ripetute ristampe volgari di
questi Strambotti giustinianei. Del resto, approprian-
dosi le ottave del poeta veneziano, il popolo ripren-
deva il suo, e, mutandole e modificandole variamente,
vi imprimeva il proprio suggello, come ha fatto sem-
pre delle forme di poesia letterata che andarongli
a genio. Ad ogni modo, se questi Strambotti, che qui
riproduciamo, non servono a sciogliere la contro-
versia, servono almeno a sempre meglio comprovare
ciò che nei nostri Stiuìj, con frase mercantile, ma
acconcia al caso, dicemmo " partita aperta di dare
e avere tra la poesia eulta e la popolare, e conto
corrente sempre acceso fra i rimatori illustri ed i
plebei „.
Luglio 1879.
Alessandro D'Ancona.
Amore vuol che novameute io canti,
Tanta è la pena che sente il cor mio,
r sono el piti fidel fra li altri amanti,
E sempre vivo lieto e con disio.
Risguardo ancor quando vi son avanti
El vostro volto signoril e pio:
E poi ringrazio Idio che vi produsse,
E avanti a' vostri occhi mi condusse.
1 si voi : a, si vuol: h — 2 tanto la: a, nel: a — 5 Te riguardo : a,
Eisguardo anco: & — 6 bel v. : a — 7 che d'amor vi: a, Ringratio i Dei
ch'ancora: 6 — 8 belli echi si me: a, E innanzi i: &.
Con qualche variante è nel cod. Venturi; donde lo riproduce il Volpi,
Noie etc, p. 27.
IL
Amor mi sforza amare il tuo bel viso
Là dove ogni piacer chiaro si vede.
Con quel suave e dilettoso riso
Con tuo dolce parlar, con tua mercede ;
Tu puoi d'inferno trarrne al Paradiso,
Contento mi puoi far, come tu vede.
Di tutto quello che '1 mio core brama,
0 fior ch'avanzi ogni leggiadra dama.
1 .si me condusse : a, il to : n — 4 parlar tua : a — 5 poi da linferno : a.
Tu puoi di brutto farmi il ver Narciso : & — 6 E contento me poi : a, si
vede: h — 7 lo cuor mio: h — 8 avanza: b, ogni altra: a.
IH.
In questo mondo Idio t'ha mandata
Per morte darmi, e non per altro fare ;
Dime : che tu no' cerche una fiata,
Quando ci passo, dovermi parlare?
L'anima mia sarebbe consolata.
Né mi faresti più tanto stentare :
552 STRAMBOTTI DI LEONARDO GIUSTINIANI,
Tu hai diletto di fanne languire :
Deh! guarda ancor che non t'abbi a pentire!
1 credo tu sii nata: 6 — 2 danni, non: h — 3 che te no: a, Dimmi
che noglia ti saria: 6 — G E non: a — 1 farmi: 6 — 8 ch'ancornon: a,
ancora non t'abbia : b.
TV.
Il papa ha concesso quindeci anni
De indulgenzia a chi te pò parlare:
Cento e cinquanta a chi te tocca i panni,
E altri tanti a chi te p5 basare ;
E io che per te porto tanti affanni,
Di pena e colpa mi voi perdonare;
E se basar potesse '1 to bel viso
L'anima e '1 corpo mando in Paradiso.
Manca in b, dove, come si vede, sono stati modificati o tolti scrupo-
losamente tutti gli accenni a cose sacre o divine — 6 e di colpa: a —
7 quel to : a.
Trovasi anche nel Laur. gadd. 161 con queste varianti: 1 gli ha
dato XL — 2 di perdonanza .. . ti può — 3 sessanta — 4 di pena e colpa
chi ti può toccare — 5-6 mancano — 7 Et chi ti bacia el tuo — 8 In carne
e in ossa ne va (Bibliot Lett. popol., I, 84). E. Lovaeini, a proposito del
verso iniziale ricordato ne\V Anconitana del Ruzzante (C. p. in lituz., p. 22):
Melchisedech concesse quindese anni, in che ravvisa una imitazione dello
strambotto Giustinianeo, riporta questo canto siciliano (Vigo, n. 814) :
Lu papa n'ha cuncessu quindic'anni
D'illurgenzii ppi cui parrà a vui,
Cinquent'anni cu' tucca ssi carni
Novicent'anni a cui dormi ccu vui.
V.
Se li arbori sapessen favellare
E le lor foglie fusseno le lingue,
L'inchiostro fusse l'acqua dello mare,
La terra fusse carta e l'erbe penne,
Le tue bellezze non potria contare.
Quando nascesti, li angioli ci venne;
Quando nascesti, colorito giglio.
Tutti li santi fumo a quel consiglio.
1 sapesseno : a, sapesser: 6 — 2 foglie lor: a — 4 carta 1': a —
6 anzoli : «, la grazia: 6 — 7 o col.: 6 — 8 Dei, b.
Vedi a pag. 240 per ciò che riguarda i primi quattro versi e ag-
giungi le indicazioni di F. Sabatini, Alcuni strambotti di L. G. conservati
nella tradizione poiìolare, Roma, 1880, p. 6; e di G. Giannini, C. p. tose, 304.
STRAMBOTTI DI LEONARDO GIUSTINIANI. 553
Gli ultimi quattro si raffrontano con Rispetti popolari :
La vostra madre quando v'ebbe a fare
Salì negli alti cieli a far consiglio.
Da quattro Dei la ne prese parere. (Tommaseo, p. 61).
Quando la vostra madre v'ebbe a fare
Andiede in alto cielo a far consiglio ecc. (Tigri, u. 93).
Sia benedetto il giorno che nascesti,
E l'ora e '1 punto che fusti creata !
Sia benedetto il latte che bevesti
E il fonte dove fusti battezzata !
Sia benedetto il letto ove giacesti,
E la tua madre che t'ha nutricata!
Sia benedetta tu sempre da Dio;
Quando farai contento lo cor mio?
1 che tu: a — 4 la fonte: a — 5 dove: — 7-8 A te siano propizj
sempre i Dei, Quando farai contenti i voler miei: b.
Tedi qui addietro a pag. 238, e Sabatini, op. cit., p. 10.
VII.
Non perder, donna, el dolce tempo e' hai:
De, non lassar diletto per dureza :
Tempo perduto non s'acquista mai;
Ne anche in donna non riman belleza ;
Però, madonna, guarda quel che fai,
Non perder tempo di tua gioveneza ;
Si che, donna, da voi debo venire ?
Con qualche modo maudamel a dire.
6 il tempo : a — 1 dama s'a te debba : & — 8 bel m.: a.
Cfr. coi Rispetti perugini, n. 7.
YIII.
Presto me accorgerò, donna, se m'ami,
E se voi trarmi di questo martire;
Presto m'accorgerò, donna, se chiami
Contenta de l'antiquo mio servire ;
Presto me accorgerò, donna, se brami
Di dar soccorso al mio giusto desire ;
Presto me accorgerò di tuo talento,
Stu vói ch'io mora, o che abi contento
1 m' : 6 — 2 E voi . . . trarmi questo mio : a — 4 antico : b — 5 in": b —
6 De... gran: o — m': 6, del 6 — 8 Se... o pur che sia: b.
554 STRAMBOTTI DI LEONARDO GIUSTINIANI.
IX.
Stu sei donna gentil, tu '1 degi amare
Servo che del tuo amore sia ben degno
E l'amore di quel solo seguitare,
Usando verso d'altri del contegno :
Un solamente ti potria bastare ;
Per Dio, m'agreva che dir tei convegno ;
Che non è onor né non è gentileza
'N tanti amanti voler aver fermeza.
1 se vuoi ... ti degga : 6 — 4 de altri : a — 5 potria ben : a — 6 A
fé: 6 — 7 uè meno: h — 8 In . . . voler aver: a, aver la tua: b.
È, con varia lezione, il 78» del cod. marciano 346 (v. Bibl, Lett. popol.,
II, 116).
X.
Gioia mia cara, com' te soffre il core
Che '1 caro amante stia da te diviso?
Non ti ricordi il nostro antiquo amore,
L'usate feste e '1 dolce paradiso ?
Quest'è la doglia che mi passa '1 core,
E rivoltami in pianto el dolce riso :
0 labri di coral, zucaro e mèle,
Non hai pietà del tuo servo fedele?
1 Zola... soffri: a. Clori gentil... soffri: & — 3 aricordi: 6 — 4 il
dolce: 6 — 5 Questa la: a — 6 Rivoltami: a, E mi rivolta: 6 — 7 corallo
0: a — 8 to : a.
XI.
Io mi viveva senza nullo amore.
Non era donna a chi volesse bene ;
Denanti a me paristi, o nobel fiore,
Per dar a la mia vita amare pene ;
E sì presto m'entrasti tu nel core,
Come saetta che da l'arco vene ;
E come intrasti, io presto serrai.
Perchè nuU'altra donna c'entri mai.
1 Io : 6 — 2 E : a, a cui volessi: 6 — 3 Davanti a me paresti: h,
nobil, 6 — 5 tu m' intrasti: a, così presto m'entrasti nel: 6—6 viene : 6 —
7 entrata fosti io lo : 6 — 8 cintro zamai : a, altra donna non c'entrasse
mai : 6.
Cfr. col 510 dei lUspetti perugini e col 44" del marciano, nel quale va-
riano del tutto i due ultimi versi:
Non me dovevi nel mio cor intrare
Se tu volevi un altro amante amare.
STRAMBOTTI DI LEONARDO GIUSTINIA^^.
XII.
Gioioso vorria star, ma Ja Fortuna
Per molti modi par che mi molesta ;
Par che '1 cielo e le stelle con la luna
Cercan di tórmi ogni diletto e festa;
D'amarte non starò per cosa alcuna,
E la mia fé farotti manifesta ;
Fortuna, fortuneggia quanto sai :
Peggio non mi poi far che fatto m'hai.
1 stare : a — 3 E par : b, ciel stelle : a — i cerca: a — 5 amarti : b
— 6 Fede: a — 7 fortuneza: a — 8 che pezo... fare: a, puoi: 6.
C£r. col 290 (Jei Rispetti perugini.
XIII.
Dio ti dia bona sera ; son venuto,
Gentil Madonna, a veder come stai ;
E di bon core a te mando il saluto,
De miglior voglia che facesse mai.
Tu sei colei che sempre m'hai tenuto
In questo mondo inamorato assai :
Tu sei colei per cui vo cantando,
Giorno e notte me vado consumando.
1 la 6 : a, Ti do la buona : b, e son : i — 3 E di buon cuor io ti : &,
un : & — 4 Di . . . facessi : b — 1 che mi fa gir : 6 — 8 giorni : a, E giorno
e notte andarmi : b.
È il 99'5 dei Rispetti perugini.
XIV.
Parlar io ti vorìa, e io non osso :
Tu che sai el modo, mei degi insignare :
Che co' li occhi m'ha' posto foco adesso;
Vedi ch'el arde, e non lo vói stuare ;
Ajutame per Dio, che più non posso
Cotante amare pene, omè, durare;
Se non me ajuti, moro per tuo amore;
Agi di me pietà, ligiadro fiore.
1 Parlarti: a, vorria: 6 — 2 e' hai il modo mei debbi insegnare: h
— 3 il f.: 6 — 4 che l'arde non lo vuoi: b — Ajutami perciocché: b —
6 pene amare ahimé: b — 1 m'a: 6 — 8 Abbi pietà di me leggiadro: b.
Cfr. col 12f> dei Rispetti perugini.
556 STRAMBOTTI DI LEONARDO GIUSTIKIANI.
XV.
E vengote a veder, perla lizadra,
E vengote a veder, caro tesoro ;
Non sa' tu ben che tu se' quella ladra
Che m'hai ferito il cor, tanto che moro?
Quando io passo per la to contrada
De', lassati vedere, o viso adorno ;
Quel giorno che ti vedo, non potria
Aver doglia nessuna, anima mia.
1-2 veiigoti : b, che sei leggiadra : i — 3 sai : 6 — 4 m' ha : h —
5 tua: b — 6 veder: a, o viso d'oro: & — 8 nissuna, o vita: b.
XVI.
Non te maravigliar, lizadra donna,
Se spesse volte passo de qua via:
Non sa' tu ben, che non ho altra donna
Che signoreza la persona mia ?
Tu sola sei d'està vita colonna;
E quella sola che '1 mio cor desia ;
Sapi per certo che tu sola sei
Quella che bramo, e quella ch'io vorrei.
1 . . . dolce Madonna: 6 — 3 sai : 6 — 4 signoreggia: & — 5 de que-
sta: a, de sta: b — 7 sappi: 6 — 8 che v.: b.
xvn.
Quei labri mi consuma fin a tanto
Che non li strenzo un poco al mio diletto :
De', vengati pietà de mi alquanto.
Cara speranza del mio cor perfetto.
Tu sei colei che porti il dolce manto
D'ogni mio bene senza alcun sospetto :
Tu sei colei per fin che tu sei viva
Ch'io amerò se morte non ci priva.
1 consuman: b — 2 Ch'io non li stringi: & — 3 di me: b — 8 hamerò: a,
Io t'amerò : b.
XVIII.
r t'ò dipinta in s'una carticella.
Come se fusti una santa de Dio ;
Quando mi levo la mattina bella
Ingenocchion mi butto con desio:
STRAMBOTTI DI LEONARDO GIUSTINIANI. 557
Sì t'adoro, e poi dico : Chiara stella,
Quando l'arai contento lo cor mio ?
Bàsote poi, e stringo con dolceza :
Possia mi parto, e vòmen' a la messa.
1 in SU: a, su una: & — 2 Come f.: a, fosti: h, il vero idolo mio: b
— 4 avanti a te mi fermo: b — 5 E si . . . poi d. : a, E si t'onoro e d.; 6 —
7 Basciotti : 6, stringote : a — 8 Poscia: b\ disparto: a; e lascio tua bel-
lezza : b.
Cfr. col 660 dei Sispetti perugini, e col IO" del cod. march. 346
(MoRPUEGO, Bibl. Leu. pop., II, 10"), dove però è col nostro comune quasi
soltanto il primo verso.
XIX.
Dezo sempre servire al vostro aspetto
Che me destruge l'alma e '1 cor ognora ?
Non se de' mai porger qualche diletto
Al tristo del mio cor prima che mora?
Dezo sempre portar bagnato il petto
De lacrime cotante che me accora ?
Dezo sempre servir chi più s'indura,
0 maledetta mia disavventura ?
1 Deggio... il V.: 6 — 2 Che l'anima ed il cor mi strugo : b —
3 porgere: a, si die horamai porger d.: — 4 A Io tristo mio: b, ch'io: b
— 5 Deggio: 6 — 6 Di: i, cotanti : a — 7 Deggio: b, servire: a, seguire: b —
8 Che maladetta sia la mia sciagura : h.
XX.
Quattro sospiri ti vorìa mandare,
E mi, meschino, fussi ambasciatore !
Lo primo s'i te degia salutare,
Lo secondo ti conti el mio dolore,
Lo terzo sì te degia assai pregare
Che tu confermi questo nostro amore ;
E lo quarto io te mando inamorato ;
Non mi lassar morir disconsolato.
1 vi : b — 2 io . . . fosse : & — 4 E lo : «, Il : 6, conta : 6 — 5 II : & —
Lo : 6 — 8 lasciar : b.
Cfr. il 39" dei Rispetti perugini, e vedi qui addietro, p. 168, 425, e per
maggior copia di testi, Sabatini, op. rit., 13, nonché Giannini, C. p. tose, 314.
XXI.
Pili lieto amante de sto mondo fui.
Ora mi trovo el più disconsolato :
E questo è stato pe '1 dir mal d'altrui ;
Che malanno aggia chi m'ha incolpato!
558 STEAIVIBOTTI DI LEONARDO GIUSTINIANI.
Ancora spero di veder colui
Stentare al mondo per sto gran peccato :
E spero in Dio di veder vendetta
Di quella lingua falsa e maledetta.
1 El più: a, di questo: a — 2 trovo più: & — 3 per il dir: a —
4 venga bene: h, me n'ha: 6 — 5 Dubito ancora: 6 — 7 E temo an-
cora: 6 — 8 SI al dir mal perfetta: 6.
Cfr. col 27" dei Bispetti perugini.
XXII.
Da poi ch'io vedo fermo il tuo volere
E che al tutto abandonato m'hai,
Lassarle voglio per farte a piacere ;
Di qua per te non passerò giamai:
El piacer ch'io ho avuto il vo' perdere,
E più per servo, donna, non m'arai :
Fami quanti dispetti che tu sai.
Quel ch'agio avuto, tu non mei terrai.
Dopo : 6 — 3 farti p. : 6 — 4 E quinci per tuo amore non pas-
sarò : a — 5 La morte cercherò per mio piacere : 6 — el voglio: a — 6 E se: &
— 7 fai: i> — 8 to : a — Che quel ch'lio avuto tu: h.
XXIII.
Biastemo il giorno che me inamorai,
Biastemo il giorno che ti missi amore,
Biastemo il giorno che in te mi fidai,
Biastemo il giorno che ti dèi il mio core ;
Biastemo il bene ch'io te volsi mai,
Biastemo l'alma mia che per te more;
Biastemo l'assai beffe che m'hai fato:
Ancor biastemo chi cason n'è stato.
Manca in i — 5 ben: a.
XXIY.
Non ti ricordi quando mi dicevi
Che tu m'amavi sì perfettamente?
Se stavi un giorno che non me vedevi
Con li occhi mi cercavi fra la gente.
E risguardando stu non mi vedevi
Dentro de lo tuo cor stavi dolente :
E mo mi vedi, e par non mi cognosci,
Come tuo servo stato mai non fosci.
3 mi : 6 — 5 riguardando : b, se tu : a, che b — 1 or: b, e non mi : a,
conosci b.
STRAMBOTTI DI LEONARDO GIUSTINIANI. 559
Il principio è simile a quello di parecchi Rispetti toscani:
E ti ricordi quando mi dicevi ? (Tigri, 884).
Non ti ricordi, turca rinnegata,
Quando t'amavo e ti portavo amore? (Ibid., 889).
Ma più stretta è la rassomiglianza con questo tetrastico, evidentemente
monco del principio :
E se tu stavi un'ora e 'n mi vedevi
Con gli occhi riguardavi tra la gente;
Ora mi vedi e non dici addio
Come se tua non fossi stata io. (Ibid., 887).
La versione romana è questa, e più intera (Nannaeelli, p. 48):
Dov'è tutto quel ben che mi volevi,
Dov'è tutto l'amor che mi portavi ?
Se stavi un'ora ohe non mi vedevi
Coll'occhio fra la gente mi cercavi.
Adesso passo e non so' piìi guardata,
Oh mai la diva tua non fossi stata!
Adesso passo e non mi riconosci,
Oh mai la diva tua stata non fossi !
Tornano al solo tetrastico due forme venete : l'una (Dal Medico,
p. 128):
Ma dove xe quel ben che me volevi,
Quele careze che d'amor me fevi ?
Co' g'era un'ora che no me vedevi
Del vostro caro ben vu demandavi ;
l'altra (Bernoni, 1», n. 30) varia al solo quarto verso :
Co i oci tra la gente me ^erchevi.
Nel vicentino è un esastico (Alvefà, n. 85) :
Do' è quel tanto ben che mi volevi,
E quele carezine che mi favi ?
Passava un giorno che non me vedevi
Co i oci per le genti mi <;ercavi ;
Bassavi i oci e la bocca ridevi,
Dentro nel vostro cor mi saludavì.
In Istria con saldatura di due diversi tetrastiei (Ive, 205):
Ragasso bielo, nuobili sembianze
Testimonio saruò li me belisse:
Nu' xi ningoTÌn che me se portasse amante,
Ragasso biel che me farà carisse.
E duve xi quii ben eh' i me vulivi,
Duve li caresseine, Amur, me favi ?
Un giorno, biela, cu' i' nu' mi vedevi
Cu' i uoci in fi'a la zento i' me (jerchivi.
560 STRAMBOTTI DI LEONARDO CilUSTINIANI,
La forma toscana, intera e più prossima a queUa del Giustiniani, è
questa (Tigri, 978) :
Non t'anicordi quando mi dicevi
Che tu m'amavi sì sinceramente?
Se stavi un'ora che non mi vedevi
Cogli occhi mi cercavi fra la gente.
Ora mi vedi, e non mi dici addio.
Come tua dama non fossi stata io ;
Ora mi vedi, e non mi riconosci.
Come tua dama io stata non fossi.
Vedi per altri testi e raffronti, Sabatini, op. cit., 18.
XXY.
Viver al mondo non voglio più mai,
Né più conforto non spero d'avere :
Poi che del tutto abandonato m'hai,
La morte cercarò per mio piacere.
Ancora una sol grazia mi farai,
E poi contenta tutto il tuo volere :
Dimmel palese, e no '1 tener celato
Se '1 tuo amor ad altri l'hai donato.
2 più spero: a — .S al tutto: h — b sola: a — 6 to : « — 7 non
mei tenir: a — 8 l'amor tuo: b.
Non piangerò giamai quel che t'ho fato.
Né '1 dolce e longo ben che t'ho voluto;
Ma ben me dole ch'io te sono stato
Fidel amante, e non m'hai cognosciuto.
E per lo grande amor che t'ho portato
Merito alcun non aggio ricevuto ;
Ma sempre arai piacer di poter dire :
Ho fatto sto meschin per me languire.
1 quello ch'ò fatto: 6 — 2 lungo: 6—3 son : a, mi duole perch'io
ti son: 6 — 4 Fedel : 6 — 5 Per l'amor grande ch'io ti ho : 6 — 6 alcuno
non ho : 6 — 8 fato questo : a.
XXVII.
Per fin che vita avrò non sarò stanco
De biastemar i giorni trapassati :
Oimè, che l'alma trista viene al manco
Pur in pensando i bei piaceri andati!
Misero me, che per conforto abranco
I fazoletti che tu m'hai donati,
STRAMBOTTI DI LEOXAHDO GIUSTINIANI. 561
E poi piangendo dico : lasso a mene,
Questo m'avanza de tutto il mio bene !
1 charo vita non serò mai : a — 2 Di biasimar : b — 3 mia ne
viene: 6 — 4 impensando: a. Solo pensando ai bei piacer passati: b —
5 e branco: a, che conforto io branco: 6 — 7 lasso mene: 6—8 Quest'è
l'avanzo : b.
Nell'antica stampa segue questo terzetto :
Chi se dilecta de seguitar amore
Per un marchette d'haver questo no stia
Che son a preposito a ciascun amatore.
D'Ancona, La jìoesia pop. ilal. — 36
GIUNTE E CORREZIONI
Licenziando rultìmo foglio di questo volume, mi è sem-
brato non inutile raccogliere qui in fondo alcune giunte e
correzioni. Quanto a queste ultime, voglio dichiarare che con
tutta la cura adoperata, è ben possibile che sia, non per tanto,
errata qualche citazione, specialmente nei riferimenti dialet-
tali e nei numeri, e tal difetto si vorrà perdonare dal discreto
lettore per la gran quantità di siffatte notazioni.
Quanto alle aggiunte, eccone alcune, delle quali mi sov-
venni troppo tardi, e quando era già tirato il foglio ove avrebber
trovato lor luogo.
Fra la pag. 10 e la 13 cadeva opportuna la menzione di un
Canto popolare veneziano su di un fatto avvenuto nel 1297.
Così vi accenna A. Medin a pag. 65 del suo libro La Storia
della Repubblica di Venezia nella Poesia (Milano, Hoepli, 1904):
" Marino Saniito Torsello nella sua Istoria del Regno di Roma-
nia racconta come Pangrazio Malipiero facesse nell'anno 1297
uno sbarco di genti veneziane nell'isola di Cos a danno del-
l'Imperator greco. Gli isolani col soccorso dei Turchi assalta-
rono e misero in rotta gli uomini delle galee veneziane. Il
capitano Malipiero, ragunati da cinquecento de' suoi, si volse
fermar e essortava quanto più poteva li suoi star fermi e gri-
dava al bandieraro, che fìcasse la bandiera in terra, ma tanta
era la gente in fuga che noti la potè fermar.... Tornato a Vi-
nezia ebbe gran impìUazione e villania dal popolo solamente,
in modo che fu levata ima Catizone, che si giva cantando per
la città: Ficca bandiera. Spoglia spalliera „.
564 GIUXTE E COREEZIOXI.
Pag. 47. A proposito della Canzone L'acqua corre alia
horrana si veda ciò che F. Notati scrive di essa e di altra
Canzone a ballo: Madonna Pollaiola, da pag. 369 in poi del
voi. Attraverso il medio evo (Bari, Laterza, 1905).
Pag. 81. Si tolga la nota 5 colla relaliva citazione del
Melzi-Tosi.
Pag. 92. Fra le Canzonette del Poliziano che piìi a lungo
durarono è quella della Pastorella, la quale, conservandone la
musica, fu tramutata a significazione religiosa dal p. Silvano
Razzi, com'è detto nel suo libro di Laude Spirituali (Vene-
zia, Giunti, 1563, p. 19) riferendo l'antica notazione e il nuovo
testo. Cantavasi, cosi vi si avverte, " cantavasi già in Firenze
una Canzona di molto vaga aria, cioè La pastorella si leva per
tempo Menando le caprette a pascer fora e quello che segue;
onde il p. Serafino, all'hora giovane, pregato di comporre pa-
role spirituali, fece la precedente Laude di dieci stanze „. La
Canzonetta polizianesca diceva: La pastorella si leva per tempo
Menando le caprette a pascer fora Di fora, fora, La traditora
Co' suoi begli occhi la m'innamora E fa dimezza notte appa-
rir giorno. E il rifacimento: Lo fraticello si leva per tempo
A render gratie a Dio nel mattutino. Nel mattutino, D'amor
divino È tutto acceso quasi Serafino E così loda Dio con puro
core. Nel Santuario di Laudi (Firenze, Serniartelli, 1609, p. 217)
è ricordata altra tramutazione del p. Piazzi, con quest'avver-
tenza: * Cantavasi intorno all'anno 1600 una Canzoncina in
Firenze, che anche fu stampata con alcune altre, di tanto
bell'aria e musica, che ne venne voglia ancora alle persone
spirituali. Onde pregarono alcune di loro p. F. Serafino che
ne componesse sopra detta aria qualcheduua. Ed egli compia-
cendo loro fece la soprascritta lodando la Rosa {La rosellina
In su la spina), ove quella secolare lodava la Violetta „, che,
notoriamente, fu composta dal Chiabrera. Di queste notizie
sono grato al prof. Angelo Solerti.
Pag. 104. Colla Canzone Madre mia se andé al mercd
si confronti una Ballata di Franco Sacchetti e una poesia
popolare francese (v. Cakducci, Cantil. e Ball., p. 208 e 339):
vedi anche Arch. Tradiz. popoL, VII, 156.
Pag. 110 n. 3. Al ricordo che fa il Sanuto della Canzone
veneziana Torcia ino villan altro ne va aggiunto del Trissino
nella Poetica {Opere, Verona, Vallarsi, 1729, 11, 94): " Ancora
è cosa manifesta che tra le altre imitazioni (che avemo detto)
sono queste medesime differenzie, cioè che alcuni imitano i
GIUNTE E CORREZIONI. 565
buoni, altri i cattivi. Veibigrazia, nel ballare alcuni ballando
Gioiosi e Lioncelli e Rosine e simili, imitano i migliori: altri
ballando Padoane e Spingardi, imitano i peggiori. E questo
parimente fanno i piffari, i liuti e gli organi e gli altri suoni
e canti, che sonando la Battaglia e canti simili imitano i
migliori, e sonando tocca la cavalla e torrélla mo villan e
simili, imitano i peggiori „. Debbo questa notizia e cosi la se-
guente al prof. V. Cortesi.
Pag. 112. La bella Franceschina è ricordata anche da
Annibal Cako in una lettera al Duca Farnese, in che descrive
le feste fatte a Bruxelles per l'entrata della Regina di Fran-
cia (Como, Ostinelli, 1825, I, n.° 38): " All'entrar di Brusselle,
che fa agli 22 a ore 24, fu bel vedere un grandissimo numero
di torchi e un bel sentire i conserti delle campane. V. Eccell.
non si rida che io abbia notata questa musica: perchè in
questo paese le campane suonano fino a la bella Franceschina „.
Pag. 117. La musica della Givonietta è data dallo Zar-
lino, Histitntionì armoniche. Anche questa Canzone fu per uso
dei novizj, tramutata a significazione spirituale dal p. Razzi:
vedi il Santuario di Laudi (1609, p. 213), dove si riferisce la
vecchia musica, adattata alle nuove parole: Torna, torna al
freddo core Onde partito se', Onde partito se', Gesù mio. Onde
partito se' ecc. Anche questa indicazione mi venne fornita dal
prof. Solerti.
Pag. 133. Debbo qui avvertire che nella nuova edizione
dei Canti popol. siciliani (1891) l'amico Piteè ha alquanto
modificato la sua asserzione, e anziché vedere nell'ottava Non
v'azzardati a vèniri in Sicilia, 1''' avanzo di qualche poemetto
nato immediatamente dopo il Vespro „ , ha tolto la troppo pre-
cisa designazione di tempo, sopprimendo l'avverbio.
Pag. 135. Il nome di Gaito non solo si trova ai tempi
della dominazione normanna, ma anche in quelli dell'angioina:
Gaito de Amalfi è in un documento del 1346 recato dal Mi-
uiERi-Riccio, Ottanta quattro registri angioini, p. 31.
Pag. 158. Si aggiunga che lo Strambotto non fu soltanto
diffuso nelle corti italiane del sec. XV e negli eleganti e culti
ritrovi, ma anche portato fuori della Penisola. Il sig. B. San-
visENTi nel suo scritto / primi influssi di Dante, Petrarca e
Boccaccio sulla Ietterai, spagnuola (Milano, Hoepli, 1902, p. 433
e segg.) riferisce Strambotti, e anche Canzonette, composti,
(però sempre in italiano) dal poeta catalano Romeu Lui), stato
a Napoli presso il Duca di Calabria.
566 GIUNTE E CORREZIONI.
Pag. 229. CoiTeggi la citazione Tigri, n°. 4077 in n°. 87.
Pag. 295. L'ipotesi dell' Imbriani che nel predicatore deb-
basi riconoscere il Savonarola, è stata testé ripresa dal pro-
fessor D. Barella (Lo Strambotto piemontese, Alessandria,
Jacquemod, 1896), pel quale il componimento avrebbe origine
marchigiana, e trasportato in Piemonte vi si sarebbe mutato
in Canzonetta. Non ci pare che gli argomenti addotti possano
farci cangiare d'opinione circa la primitiva forma toscana e
la nessuna allusione a fra Girolamo.
Pag. 483. Alla citazione del primo verso della Canzonetta
In su quell'alto monte si avverta che alla tramutazione in
senso spirituale v'ha un commento mistico del Bianco da Siena
[Laudi spirit. del B. da S., Lucca, Giusti, 1851, p. 187).
INDICAZIONE BIBLIOGRAFICA
DELLE EACCOLTE DI POESIE POPOLARI E DI ALTEE OPEEE
PIÙ SPESSO CITATE NEL CORSO DEL LAVORO
Amalfi G., Cento canti del popolo di Sei-rara d'Ischia, Milano, Biigola, IS82.
Si cita il 11. progressivo.
Amalfi G., Canti del popolo del Piano di Sorrento, Milano, Biigola, 1883.
Si cita il numero progr.
Amalfi G., CV Villanelle raccolte a S. Valentino, Tegiano, 1888 (v. anche
Arch. Trad. Popol., V, 389).
Amalfi G., XXIV Villanelle e una favola in vernacolo pagognanese (in Ardì.
Trad. popol., V, 41).
Arboit, Villotte friulane, raccolte e pubblicate per Angelo Akboit, Pia-
cenza, Del Maino, 1876. Si cita il numero progress.
Archivio per lo studio delle tradizioni popolari. Rivista trimestrale diretta
da G. PiTRÈ e S. Salomone-Maeino, Palermo, Pedone. Si cita a voi.
e pag. dal 1883 in poi.
AvOLio, Canti popolari di Noto, studii e raccolta di Corrado Avolio, Koto,
Zammit, 1876. Si cita il numero progressivo.
Beenoni, Canti popolari veneziani, raccolti da Dom. Giuseppe Bertoni.
Venezia, Fontana-Ottolini, 1873. Si cita il numero progressivo delle
varie puntate.
Berxoxi, Nuovi canti popolari veneziani, raccolti da Dom. Giuseppe Bernoni,
Venezia, Fontana, 1874. Si cita a pagg.
Blessig, Eomische Kitor nelle, gesammelt und herausgegeben von C. Blessig,
Leipzig, Mirtei, 1860. Si cita a parti e numeraz.
'Boi.T.A. G.^., Canzoni popolari comasche, estr. dai Rendiconti dell'I. E. Ac-
cademia delle scienze, voi. LUI, pag. 637, Vienna, Gerold, 1867. Si cita
il numero progressivo.
Caliari P., Antiche villotte e altri Canti del folk-lore veronese, Verona-
Padova, Drucker, 1900. Si cita a pagg.
Canale, Canti popolari calabresi, scelti e recali in versi italiani per Achille
Canale, Reggio, Siclari, 1859. Si cita il numero progressivo. (E ripro-
dotto colla stessa numeraz. nei Canti del pop. reggino del Mandalari.)
Capone G., XL Canti pop. ined. di Montella, Napoli, Giannini, 1881. Si cita
la numerazione progressiva.
568 INDICAZIONE BIBLIOGRAFICA,
Carducci, Cantilene e haìlate, strambotti e madrigali dei sec, XIII e XIV,
a cura di Giosuè Carducci, Pisa, Nistri, 1871. Si cita a pagg.
Cesconi L., Righi A., Righi E., Canti popolavi veronesi. Verona, 1870. Per
nozze Weil Weiss-Cinzano. Si cita il numero progressivo.
Congedo U., Canti popolari salentini, letture. Lecce, Cooperativa, 1899.
CORAZZINI F-, 1 componimenti minori della letter. popol. ital. nei principali
dialetti, Benevento. Di Gennaro, 1887. Si cita a pagg.
Dal Medico, Canti del popolo veneziano, per la prima volta raccolti ed il-
lustrati da Angelo Dal Medico. Seconda edizione. Venezia, Antonelli,
1857. Si cita a pagg.
Dal Medico, Canti del popolo di Chioggia, raccolti da Angelo Dal Medico,
Venezia, Antonelli, 1872. Si cita il numero progressivo.
De Nino, Saggio di Canti popolari sahinesi, illustrati da Antonio De Nino.
Seconda edizione. Rieti, Trincili, 1869. Si cita a pagg.
Ferrari S., Biblioteca di Letter. popol. ital., Firenze, Polverini, 1882, il 1° voi.
e la 1» parte del 2». Si cita a pagg.
Ferraro G., Canti popolari monferrini raccolti ed annotati, Torino, Loescher,
1870. Si citano le Canzoni e gli Strambotti secondo il numero progres-
sivo di ciascuna serie.
Ferraro, Canti popolari di Ferrara, Cento e Pontelagoscnro, Ferrara, Tad-
dei, 1S77. Ciascuna delle tre raccolte si cita secondo il n. progressivo.
Ferraro, Canti poiwlari del Basso Monferrato, Palermo, Pedone, 1888. Si
cita la numerazione progressiva.
Ferraro, Canti popolari in dialetto logudorese, Torino, Loescliei', 1891. Si
cita la numerazione progressiva.
FiLippi.vi E., Foìk-lore fabrianese, Fabriano, Gentile, 1898. Si cita la nume-
razione progressiva.
Finamore G., Tradizioni popolari abruzzesi, voi. II: Canti, Lanciano, Ca-
rabba, 1886. Si cita la numerazione progressiva.
Finamore, Vocabolario dell'uso abruzzese, Lanciano, Carabba, ISSO. Da
pag. 262 in poi contiene Canti popolari abruzzesi, che si citano secondo
la numerazione.
Fiori Selvatici per l'onomastico del Preside P. Giorgi, raccolti dai prof, e
alunni del Liceo di Reggio-Calabria. Siena, S. Bernardino, 1S91. Si cita
secondo la numerazione progressiva.
FuoRTES G. e T., Saggio di canti popolari di Giuliano (Terra d' Otranto}.
Napoli, Unione, 1871. Si cita la numerazione progressiva.
Garlato a., Chioggia e i suoi coHii.Venezia, Narratovicl), 1885. Si cita a pag.
GiANANDEEA, Canti popolali marchigiani, raccolti e annotati dal Prof. Anto-
nio Gianandrea; Torino, Loescher, 1875. Si cita a pagg.
Giannini A., Canti popolari pisani, Pisa, Galilejana. 1891. Si cita la nume-
razione progressiva.
Giannini G., Canti popolari della montagna lucchese, Torino, Loesclier, 1889.
Si cita a pagg.
Giannini G., Canti popolari toscani, scelti ed annotati, Firenze, Barbèra,
1902. Si cita a pagg.
Giorgi P., Canzoni pop. siciliane, Livorno, Vigo, per nozze Mazzoni-Chiarini.
Si cita la numerazione progressiva.
Giuliani 0. B., Moralità e poesia del vivente linguaggio della Tcicana, Terza
ediz., Firenze, Le Mounier, 1873. Si cita a pagg.
Guastella, Canti piopolari del circondario di Modica, raccolti e illustrati
da Serafino Amabile Guastalla, Modica, Lutri e Secaguo, 1876. Si
cita il numero progressivo.
Gortani G., Saggio di Canti friulani popolari, Udine, Gambierasi, 1867.
INDICAZIONE BIBLIOGRAFICA. 569
Imbhiani, Canti popolari delle proviiicie meridionali, raccolti da Antonio
Casetti e Vittorio Imbeiani, voi. II, Torino, Loescher, 1871-72. Si
cita a voi. e pagg.
Imbkiani, Canti popolari calabresi, estratti dal voi. V del Propugnatore,
Bologna, Fava e Garagnani, 1873. Si cita il numero progressivo.
Imbriani, XV Canzoni popolari in dialetto titano, estratte dal voi. VI del
Propugnatore, Bologna, Fava e Garagnani, 1873. Si cita il n. progr.
Imbeiani, XLV Canti popolari dei dintorni di Marigliano (Terra di Lavoro),
Napoli, 1871. Si cita il numero progi'essivo.
Imbriani, XXXIll Canti popolari di Mercogliano (Pi'incipato ulteriore):
estr. dal Propugnatore, voi. VI, Bologna, Fava e Garagnani, 1874. Si
cita il numero progressivo.
Imbeiani, Canti popolari avellinesi, illustrati, Bologna, Fava e Garagnani,
1874. Estr. dal Propugnatore, voi VII. Si cita a pagg.
Imbriani, Canti popolari di Massa Lombarda e Varese, nella Nuova Anto-
logia (1866), voi. V, p. 190, Si cita il numero progressivo.
IVE A., Canti popolari istriani raccolti in Povigno, Torino, Loesclier, 1878.
Si cita a pagg.
KopiscH, Agrumi, Volkstiiniliche Poesien aus alien Mundarten Italiens
and seiner Inseln, gesaramelt and iibersetzt von August Kopisch,
Berlin, Crantz, 1838. Si cita a pagg.
Leopardi (famiglia). Canti del popolo recanatese, iper nozze Galaniini-Garulli,
Loreto, Rossi, 1848. Si cita la numerazione progressiva.
Livi C, Canti popolari della campagna pratese. Prato, Passigli, 1853. Per
nozze Guasti-Becherini. Si cita a pagg.
Lizio-Bruno, Canti scelti del popolo siciliano, illustrati e posti in versi
italiani da L. Lizio-Beuno, Messina, D'Amico, 1867. Si cita a pagg.
Lizio-Bruno, Canti popolari delle Isole Eolie e di altri luoghi di Sicilia,
messi in prosa italiana ed illustrati dal Prof. L. Lizio-Bruno, Messina,
D'Amico, 1871. Si cita il numero progressivo.
Lovaeini e., Canti popol. tarantini, in Miscellanea nuziale Possi- Teiss,
Bergamo, Arti grafiche, 1897. Si cita il numero progressivo.
Mandalari M., Canti del pìopolo reggino, Napoli, Morano, 1881. Si cita sec.
la paginazione.
Mandalari, Altri Canti del p. reggino, Napoli, Prete, 1883. Si cita il nu-
mero progressivo.
Marcoaldi, Canti popolari inediti umbri, liguri, piceni, piemontesi e latini,
raccolti e illustrati da Oreste Marcoaldi, Genova, Tip. Sordo-Muti,
1855. Si cita il numero progressivo di ciascuna raccolta.
Marcoaldi, Guida e Statistica della città e comune di Fabriano, Fabriano,
Crocetti, 1879. Il voi. Ili, a pag. 131 contiene fino a pag. 200 C. impol.
fahrianesi. Si cita secondo la numerazione.
Marsiliani A., Canti popol. dei dintorni del Lago di Bolsena, di Oivieto e
delle Campagne del Lazio. Orvieto, Mai-sili, 188(5. Si cita il n. progr.
Mazzatinti G., Canti popol. umbri raccolti a Gubbio. Bologna, Zanichelli, 1883.
Si cita il numero progressivo.
Menghini M., Canti pop. romani, estr. dal voi. IX-X à&WArch. Trad. popol.
(1896). Si cita sec. la numerazione progressiva.
Molinaro del Chiaro, Canti popolari teramesi, raccolti ed illustrati da
Luigi Molinaro Del Chiaeo, Napoli, Tortora, 1871. 2» ediz. Napoli,
Raimondi, 1882. Si cita il numero progressivo.
Molinaeo Del Chiaro, Canti del popolo napolitano, Napoli, Argerio, 1889.
Si cita la pag.
570 INDICAZIONE BIBLIOGRAFICA.
MoLiNARO Del Chiaro, Canti del popolo di Meta, Napoli, Detken, 1869. Si
cita secondo il numero progressivo.
MoLiXAEO Del Chiako, Canti del popolo materano, Napoli, Raimondi, 1882.
Si cita il numero progressivo.
MoLiNARO Del Chiaro, Canti popolari molisani, in Arch. Trad. pop., XII, 392,
Si cita il numero progressivo.
Morosi, Studi sui dialetti greci delia Terra d'Otranto del Prof. D.' Giu-
seppe Morosi, preceduto (sic) da una raccolta di Canti, Leggende.
Proverbi e indovinelli nei dialetti medesimi, Lecce, Tip. edit, Salen-
tina, 1870. Si cita il numero progressivo.
Mueller-Wolff, Egeria, Raccolta di poesie popolari italiane, cominciata
da Guglielmo Muelleb, dopo la di lui morte terminata e pubblicata
da 0. L. B. WoLFF dottore e professore, Lipsia, Fleischer, 1829. Si
cita a pagg.
Nanxarelli, Studio comparativo sui Canti popolari di Arlena, per Fabio
Nannarelli, Roma, Sinimberghi, 1871.
Nerucci, Saggio di uno studio sopra i parlari vernacoli della Toscana fatto
da Gherardo Nerucci, Vernacolo montalese ecc. Milano, Faijni, 186.5.
Nervo G., C. popolari di Pieve Tesina. Borgo, Marchetti, 1885. Si cita a pagg.
Nieei L, BaccoUa di Canti popolari lucchesi, Lucca, Giusti, 1900. Si cita
la numerazione progressiva.
Nigra C, Canti popolari del Piemonte, Torino, Loesclier, 1888. Si cita a pp.
l'Introduzione, e i componimenti secondo l'ordine progressivo.
Pasqualigo C, Canti piopolari vicentini, Venezia, Grimaldo, 1876. Si cita
secondo la numerazione progressiva.
Percoli B., Saggio di Canti jjopolari romagnoli, Forlì, Bordandini, 1894.
Si cita secondo la numerazione progressiva.
Pigorini-Bebi, / Canti popolari marchigiani, artic. di Caterina Pigorini-
Beri, nella Nuova Antologia, anno XI, 2" serie, voi. II, fase. S". — Con
altri scritti folklorici della medesima autrice fu riprodotto nel voi.
Costumi e Superstizioni dell'Appennino marchigiano. Città di Castello,
Lapi, 1889.
Pinoli G., Canti popolari canavesani, Ivrea, Sarda, 1887. Si cita a pagg.
PiTRÈ, Canti popolari siciliani, raccolti ed illustrati da Giuseppe Pitrè,
preceduti da uno Studio critico dello stesso autore. Voi. II, Palermo,
Pedone Lauriel, 1870-71: 2» ediz. Palermo, Clausen, 1891. Si cita il nu-
mero progressivo.
PiTEÈ, Studj di poesia popolare per Giuseppe Pitrè , Palermo , Pedone
Lauriel, 1872. Si cita a pagg.
Pitrè, Centuria di Canti popolari siciliani, ora per la prima volta pubbli-
cati da Giuseppe Pitrè : estratto daW Eco dei giovani, voi. II, fase. IV,
Padova, s. a. Si cita il numero progressivo.
Righi E., Saggio di Canti popolari veronesi, Verona, Zanclil, 1863. Si cita
secondo il numero progressivo.
Hivista di Letteratura popolare, diretta da Fr. Sabatini, Roma, Loesclier,
1877. Si cita a pagg.
Hivista di Letteratura popolare diretta da G. PitkÈ e F. Sabatini, Roma,
Loescher, 1877-79.
Rondini D., Canti popolari marchigiani raccolti a Fossomhrone, Pesaro,
Nobili, 1895. Si cita a pagg.
RuBiERi E., Storia della poesia popolare italiana, Firenze, Barbèra, 1877.
Salomone-Marino, Canti popolari siciliani, in aggiunta a quelli del Vigo,
raccolti e annot.iti da Salvatore Salomone-Maki.vo, Palermo, Gili-
berti, 1867. Si cita il numero progressivo.
INDICAZIONE BIBLIOGRAFICA. 571
Salomone-Marino, Leggende popolari siciliane in poesia, Palermo, Pedone,
1880. Si cita il numero progressivo.
SCHEKILLO M., Saggio di Canti popol. della Provincia di Salerno, Milano,
Bortolotti, 1880. Si cita il minerò progressivo.
ScHlFONE, Mazzetto di Canti pojiolari savesi, raccolti e annotati da M. SCHI-
FONE, Napoli, Tip. dell'Unione, 1871. Si cita secondo il numero progress.
ScHUCHAEDT, Ritomell und Terzine... von Hugo Schuchardt, ordenti, prof.
d. roman. sprach. d. Universit. Halle, Halle, Niemeyer, 1875. Si cita
a pagg. e paragrafi.
Beverini V., Raccolta comparata di Canti pop. di Morano Calabro, Morano,
tip. del Sibari, 1895. Si cita il numero progressivo.
Tigri, Canti popolari toscani, raccolti e annotati da Giuseppe Tigri. Terza
ediz. riveduta dall'autore sulla seconda nuovamente ordinata e accre-
sciuta ecc. Firenze, Barbèra, 1869. Si cita il numero progressivo.
Tommaseo, Canti popolari toscani, corsi, illirici e greci, Venezia, Tasso, 1814.
Si cita a pagg. il voi. I contenente i Canti toscani.
Villanis P., Saggio di C. popol. dalmati, raccolti in Zara, e in Arbe. Zara,
Artale, 1890. Si cita a pagg.
ViLLANis P., XXV Stornelli zaratini, Zara, Woditzka, 1892. Si cita il n. progr.
Vigo, Raccolta amplissima di Canti popolari siciliani, seconda edizione: in
Opere di Lionardo Vigo. Catania, Calatola, 1870-74. Si citano le pagg.
della Prefaz., e pei componimenti il numero progressivo.
Visconti P. E., Saggio de' Canti popolari della provincia di Marittima e
Campagna, Roma, Salviucci, 1830. Si cita secondo il nuni. progressivo.
Furono riprodotti anche dal Didier, Campagne de Rome. Paris, Labitte,
1842, pag. 365-426.
Visconti P. E., Saggio di Canti popolari di Roma, Salina, Marittima e
Campagna, Firenze presso gli editori della Strenna Romana, 1858. Si
cita a pagg., secondo l'impaginatura propria all'estratto della .Strenna.
Widter-Wolf, Volkslieder aus Venetien,%esa.mmeM\or\ G. Widter, lieraus-
geg. von AdolfWolf, Wien, Gerold, 1854. Si cita il numero progressivo.
Fine.
t
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